«Padrone»: è così che i migranti che incontriamo nel centro sociale Ex Canapificio di Caserta chiamano i datori di lavoro. Proprio dal centro sociale, un capannone dietro la stazione dei treni, a pochi passi dalla Reggia, è partito nel 2010 lo sciopero delle rotonde, “non lavoro per meno di 50 euro”. Il Movimento dei migranti e dei rifugiati è nato nel 2003 e oggi conta circa 1500 iscritti. «Ma durante le manifestazioni è riuscito a mobilitare – spiega Mimma D’Amico, che ne fa parte dall’inizio – fino a 5mila persone, come lo scorso 17 giugno, quando richiedenti asilo e migranti hanno marciato fin sotto la Questura di Caserta, per protestare contro i ritardi nel rilascio dei documenti. Dall’anno scorso, poi, il centro sociale – insieme alla Caritas – ha anche avviato un progetto Sprar, per l’accoglienza dei richiedenti asilo in piccoli appartamenti».
La ragione per cui qui sia nato questo movimento è semplice: Castel Volturno, 25mila abitanti a mezz’ora da Caserta, è uno dei comuni italiani con la più alta percentuale di stranieri, 5mila quelli regolarmente residenti e circa 5mila la stima degli irregolari.
«Io devo essere onesto»
In uno degli uffici che gli attivisti hanno ricavato all’interno del capannone, Osman sta registrando i dati di un migrante che non riceve la paga da mesi. Insieme a Gian Luca Castaldi della Caritas, si occupa da alcuni anni dello sportello dedicato a chi ha problemi legati al lavoro. Ed a questo sportello che si rivolge chi vuole denunciare il “padrone” per sfruttamento.
Osman parla cinque lingue ed è arrivato dal Burkina Faso nel 2008. La sua richiesta di asilo fu negata e presto si ritrovò a lavorare, in nero, non lontano da Castel Volturno. Senza soldi e senza un posto dove dormire chiese aiuto alla Caritas, ma lo mandarono via perché aveva ricevuto un decreto di espulsione: «Se hai problemi con i documenti – mi dissero – l’unico posto dove puoi andare è il centro sociale». Nel 2011 ha ottenuto il permesso di soggiorno e oggi lavora come mediatore per la Caritas.
Lui la denuncia l’ha fatta quasi subito. Nel 2009 lavorava in campagna: non sapeva ancora l’italiano ma aveva capito di essere sfruttato: «Io e gli altri africani prendevamo 25 euro al giorno, i marocchini 35. Ho fatto di tutto per mettere da parte un po’ di soldi, perché se non hai niente in tasca come fai a combattere?».
Nel 2010 ha fatto denuncia, senza ottenere nulla, né il permesso di soggiorno né i mesi di stipendio arretrati che gli erano stati promessi: «Ma se te ne vai e basta il padrone comunque sfrutterà qualcun altro».
Lo sfruttamento in quest’area è la norma, ma alla fine quelli che denunciano sono pochissimi e sono, secondo Osman, «quelli sfruttati davvero per bene». Ad esempio chi è stato picchiato dal padrone, o si è infortunato sul posto di lavoro. «È un compito delicato – spiega Osman – noi non possiamo convincere nessuno a denunciare. Possiamo solo spiegare quali sono le opzioni e io devo essere onesto: devo dire che il processo dura anni e che non è facile alla fine ottenere i soldi».
Le dita di Hedi
Hedi è arrivato dalla Tunisia nel 2008, come irregolare. Era senza permesso, ma non ci ha messo molto a trovare un lavoro in nero. Lavorava come saldatore e la sua specialità era il ferro battuto. Ne parla al passato, perché nel 2011 ha perso due dita della mano, in un incidente sul lavoro. Era addetto alla piegature delle barre di ferro: «Un giorno è arrivata una consegna urgente e il padrone ci ha detto che dovevamo assolutamente finire in giornata, così abbiamo disinserito i dispositivi di sicurezza». La media è di 130 piegature all’ora: quel giorno Hedi ha fatto «500 pezzi in due ore». Fino a quando il macchinario non si è preso le sue dita.
«Il collega italiano che era con me – ricorda – mi ha portato al pronto soccorso, raccontando di avermi trovato per strada». Due giorni dopo, mentre era ancora ricoverato, ha ricevuto la visita del cugino del suo datore di lavoro: «Mi disse che mi avrebbero dato dei soldi, ma che non dovevo farmi strane idee, non dovevo denunciare o avrei fatto una brutta fine». Hedi lo cacciò dalla sua stanza, minacciando a sua volta di chiamare la polizia. Il cugino del suo datore di lavoro faceva il poliziotto, proprio alla Questura di Caserta.
Tempo prima i colleghi italiani di Hedi lo avevano già messo in guardia spiegandogli che il “padrone” era un uomo legato alla camorra. Quando è stato dimesso, lo ha trovato sotto casa. «Ho fatto denuncia – racconta – perché avevo paura di quello che mi sarebbe potuto succedere». Quasi subito, Hedi ha ottenuto un permesso di protezione umanitaria, ma ha dovuto lasciare casa sua. Grazie al centro sociale ha poi trovato un posto dove stare a Caserta. A distanza di sei anni il processo penale che ha riconosciuto le sue ragioni e gli ha accordato un risarcimento di 10mila euro, è finalmente concluso, ma lui non ha ancora visto un euro.
Per i casi simili a quello di Hedi, la Caritas è da poco riuscita a riattivare il progetto Work Out, una casa, un rifugio, per chi è costretto a lasciare la propria casa dopo una denuncia.
Kalifoo, il supermercato del lavoro nero
Secondo i dati del ministero del Lavoro, raccolti dalla Clinica del diritto dell’immigrazione dell’Università di Roma Tre, i permessi rilasciati ai lavoratori stranieri che hanno denunciato sono stati 8 nel 2013, 8 nel 2014 e 9 nel 2015.
Meno di una goccia nel mare, considerato che il numero dei lavoratori impiegati nel solo settore agricolo che potenzialmente trovano un impiego tramite caporali sono circa 400mila, secondo l’ultimo report della Flai Cgil, e di questi 100mila “presentano forme di grave assoggettamento dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate para-schiavistiche”.
Inoltre, quando si parla di sfruttamento lavorativo e caporalato si pensa (quasi sempre) al bracciante agricolo. Ma in realtà nel casertano le cose sono un po’ diverse. Nel triangolo della camorra che si estende tra Castel Volturno, Casal di Principe e Villa Literno, la manodopera straniera è impiegata in vari settori: assistenza domestica, ristorazione, edilizia e ovviamente agricoltura.
Castel Volturno col tempo è diventato un luogo in cui i migranti fanno base per spostarsi altrove in cerca di lavoro: anni di abusivismo edilizio e di abbandono fanno di questo comune un posto in cui è facile trovare un alloggio a basso prezzo. Chi non trova di meglio si sposta seguendo le stagioni del raccolto, a Saluzzo in Piemonte o a Rosarno, in Calabria.
Il lavoro si cerca di prima mattina alle rotonde: è il sistema dei kalifoo ground, le piazze degli schiavi. “Kalifoo”, in Libia, dove sono passati quasi tutti gli immigrati dell’Africa sub-sahariana presenti in questo territorio, significa “schiavo a giornata”.
«È come un supermercato – racconta Osman – i padroni passano e scelgono. E se fai denuncia, o semplicemente sei uno che fa problemi sulla paga, lo vengono a sapere e devi cambiare zona. In realtà nessun immigrato vuole andare al Kalifoo Ground».
Come spiega il rapporto “Presidio” della Caritas (2016) l’edilizia e l’agricoltura sono i due ambiti “dove la manodopera straniera diviene quasi sempre vittima di sfruttamento lavorativo. Entrambi questi settori hanno, non a caso, due cose in comune: un alto bisogno di manodopera a basso costo e il controllo diretto o indiretto da parte della criminalità organizzata, ovvero la camorra”.
Che cos’è lo sfruttamento?
Paga palesemente iniqua, ore eccessive, mancanza di sicurezza sul lavoro e alloggio degradante: è così che l’attuale legge definisce lo sfruttamento lavorativo. A stabilirlo è un articolo del codice penale – il 603 bis – che è stato recentemente modificato dal Parlamento (ottobre 2016) con il ddl Caporalato.
Secondo quanto prevede la legge, è punito “chiunque recluta manodopera per destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori e chi utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di caporali, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”.
La novità è l’introduzione di una responsabilità anche per le imprese che impiegano mano d’opera in condizioni di sfruttamento, prevedendo fino a sei anni di carcere (e una multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato) per chi è giudicato colpevole del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Il ministro delle Politiche agricole dell’allora Governo Renzi (carica confermata con Gentiloni), Maurizio Martina, ha definito il ddl come una legge di civiltà. Ma la strada da percorrere, vista da Castel Volturno, è ancora lunga. E il problema spesso è la mancanza di alternative e di consapevolezza da parte degli stessi lavoratori.
La denuncia come mezzo, non come fine
Le strade di Mamadou, arrivato dalla Costa D’Avorio nel 2008, e di Osman, si sono incrociate quasi subito. Si sono conosciuti a Caserta. Nel 2004 Mamadou studiava Lingue all’università ed era un militante nel movimento studentesco. La guerra civile lo ha costretto a lasciare il suo Paese, aveva 23 anni quando è partito per la Libia: «Pensavo solo a tornare e a finire gli studi».
Ma nel 2008 se ne è dovuto andare anche dalla Libia ed è arrivato in Italia. Quando ci ha raccontato quello che ha passato, ha parlato per più di due ore. La commissione territoriale che ha giudicato la sua storia (e che ha respinto la sua richiesta d’asilo), invece, lo ha liquidato dopo un quarto d’ora.
Dopo il diniego è andato a Napoli e poi a Caserta: «Lì c’è lavoro per gli africani, mi hanno detto». Dapprima si è ritrovato a raccogliere il tabacco, a Cancelli, ma all’ennesimo mancato pagamento ha deciso di denunciare il datore di lavoro. E intanto ha studiato l’italiano: «È così che ho iniziato a contrattare il salario e l’orario di lavoro per me e per gli altri lavoratori. Alla fine abbiamo ottenuto 35 euro al giorno anziché 25 e di iniziare a lavorare alle 6 anziché alle 5». Fino alle 7 di sera.
«Dalla denuncia non ho ottenuto nessun risultato concreto: non ho avuto il permesso né i miei soldi indietro. Però è anche la denuncia che mi ha reso consapevole dei miei diritti. Se parliamo di libertà, nessuno ti darà la libertà: sei tu che la devi cercare, lottando insieme agli altri».
Le leggi su sfruttamento e caporalato
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Art. 36 della Costituzione – “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”
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Direttiva Ue 2009/52/CE recepita dal dlgs 109/2012 noto come “Legge Rosarno” – L’articolo 22 prevede la possibilità di denuncia del datore di lavoro da parte dello stesso migrate impiegato irregolarmente. Ma in generale, come sottolinea la ricerca “Leggi, migranti e caporali” a cura di Enrica Rigo, “il recepimento italiano tradisce (…) la mancata volontà di ricostruire la complessa filiera dello sfruttamento e di agire su di essa”.
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Art. 18 del Testo Unico sull’immigrazione – “Nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo di cui al comma 12-bis, è rilasciato dal questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica, allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro, un permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6”
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Art 603 bis del Codice Penale, modificato dal dl 199/2016, “ddl caporalato” – Definisce i criteri per parlare di sfruttamento lavorativo e nasprisce le pene per chi sfrutta i lavoratori.
I am not a slave
Testi a cura di Daniela Sala e Gaetano Veninata
Foto a cura di Daniela Sala
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