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Inclusione sociale

«Ho realizzato il mio sogno: unire l’agricoltura e il sociale»

di Ilaria Dioguardi

Nella fattoria di Miriam Zenorini, a Bressanone, molte persone che vivono in situazioni difficili sperimentano e imparano, attraverso progetti di integrazione lavorativa, le abilità e le competenze che saranno utili per riuscire a entrare nel mercato del lavoro tradizionale

«Le persone sono il cardine in cui tutto gira nell’azienda mia e di mio marito. L’accudire, il dare nuove dignità e opportunità sono i principi portanti su cui si fonda», dice Miriam Zenorini, 37 anni, educatrice, assistente sociale e imprenditrice agricola. Gestisce l’azienda agricola Vintlerhof, a Bressanone, in provincia di Bolzano, in una costruzione storica ristrutturata e trasformata in agriturismo, con un laboratorio per la lavorazione dei prodotti non venduti a fresco, la vendita diretta, l’agricoltura sociale.

Zenorini, come le è venuta l’idea di unire l’agricoltura al sociale?

«Da bambina dicevo sempre “farò la contadina”. Non provengo da una famiglia di imprenditori agricoli, dopo il liceo ho conseguito una laurea triennale in Servizio Sociale. Durante gli studi, avevo fatto un tirocinio in India, sono tornata in Italia, ho terminato gli studi e sono ripartita. Sono stata due anni in India, lì ho collegato per la prima volta l’agricoltura al sociale, ho fondato una sorta di consorzio del latte con sole donne impiegate; attraverso questo progetto le donne combattevano l’analfabetismo, imparavano a leggere e scrivere. Nelle zone rurali dell’India non ci sono grandi strutture, l’edificio non è grande, di venti metri quadrati, ma lo spazio è sfruttato bene, le donne lo utilizzano anche per gruppi di auto aiuto. Il problema della violenza sulle donne purtroppo anche lì è molto forte. Io avevo una piccola fattoria, con un paio di mucche e un paio di capre, che ho lasciato lì al consorzio. Sono rimasta in contatto, sono dell’idea che un buon assistente sociale ha fatto un buon lavoro quando diventa superfluo nella vita delle persone e le rende indipendenti. Ho raccolto fondi in Italia, portando questo progetto nelle scuole. Il mio obiettivo era renderli economicamente indipendenti dopo cinque anni, ci sono riusciti prima del previsto, dopo quattro anni.

Tornata in Italia, come ha messo a frutto l’esperienza in India?

Ho lavorato come assistente sociale nell’ambito minori e violenza (sessuale, fisica, psicologica). La burocrazia non è mai stata il mio forte, preferivo il lavoro a contatto con le persone. Mi hanno offerto un impiego come responsabile di struttura presso la Casa della Solidarietà, che accoglie persone in varie difficoltà. Contemporaneamente, mi mancava la parte formativa educativa e ho conseguito un’altra laurea triennale, da educatrice. Tutto questo, sempre con il pallino “vorrei fare qualcosa in agricoltura”. Questa vocina dentro continuava a parlarmi. La mia esperienza in India è stata determinante nel farmi capire che agricoltura e sociale potevano andare a braccetto. Ho conosciuto il ragazzo che poi è diventato mio marito, anche lui non proveniva da una famiglia di agricoltori, è un educatore. Ci siamo messi a cercare una fattoria, nel nostro territorio, a differenza del resto d’Italia qui prendere dei terreni agricoli e una fattoria ha un costo di milioni di euro, che non avevamo. Cercavamo qualcosa da prendere in gestione, in affitto, raggiungibile con i mezzi pubblici per sfruttare la parte sociale. Nel 2016 abbiamo partecipato al bando dei Padri Comboniani di Bressanone, per l’affitto trentennale della loro campagna: un maso da sistemare e un blocco di terreni attorno. E l’abbiamo vinto. Due anni dopo siamo partiti con il progetto. Abbiamo iniziato a lavorare un ettaro di terreno, che abbiamo coltivato metà a cereali e metà a orticoltura, con tre persone negli inserimenti lavorativi, cinque galline e due asini.

L’azienda come è cresciuta, diventando una fattoria sociale?

L’azienda è di sette ettari, pian piano abbiamo messo mano agli altri sei ettari, erano terreni su cui da 30 anni non veniva fatto quasi nulla. Ogni anno abbiamo aggiunto un pezzettino. I primi tre ragazzi che sono stati a lavorare qui hanno fatto tutti un bel percorso professionale, quindi le richieste hanno iniziato ad arrivare, non riusciamo a far fronte a tutte quelle che ci arrivano. Nella nostra fattoria molte persone che vivono in situazioni difficili sperimentano e imparano, attraverso progetti di integrazione lavorativa, le abilità e le competenze che saranno utili per riuscire ad entrare nel mercato del lavoro tradizionale persone con problemi psichici o di dipendenza, donne uscite da situazioni di violenza, ex detenuti o persone assegnate alle misure alternative al carcere, rifugiati o migranti in attesa dell’esito della commissione, giovani provenienti da famiglie disagiate.

Perché lei e suo marito avete deciso di far lavorare, nella vostra fattoria, persone con delle difficoltà?

Nel mio percorso lavorativo ho notato che, molto spesso, per le persone che hanno delle difficoltà riuscire ad entrare nel mondo del lavoro è un ostacolo enorme. Spesso mancano le basi, non sanno come comportarsi a un colloquio, come presentarsi a un posto di lavoro, non hanno le competenze o non sono in grado di tirare fuori le proprie competenze, quest’ultimo aspetto riguarda soprattutto le persone con problemi psichiatrici. Per quanto riguarda le donne in situazioni di violenza, spesso si tratta di persone che sono sempre rimaste a casa a fare le mogli e le mamme, non hanno mai avuto la possibilità di entrare nel mondo del lavoro, si trovano completamente spiazzate a 30-35 anni. Sta terminando da noi il suo percorso professionale una ragazza di 29 anni, laureata in Lingue, che purtroppo è entrata nella spirale della violenza del suo compagno, ha impiegato tanti anni a uscirne e ha tante competenze, ma aveva un’autostima inesistente. In questi casi bisogna rafforzare l’autostima e tirare fuori le capacità. La persona che abbiamo con noi da più tempo lavora qui da 4 anni. Il nostro è un accompagnamento, le persone che arrivano da noi sono come dei bambini, che hanno le gambe, ma non sanno ancora come usarle per camminare autonomamente, pian piano si sostengono fino ad andare senza sostegni. Una volta che hanno imparato a “camminare”, le persone stanno ancora un po’ con noi, fino a che imparano a correre e lì è il momento di lasciarle andare.

Come riuscite a portare avanti questo progetto?

Io e mio marito Mirco Postinghel paghiamo un affitto, la ristrutturazione esterna è stata effettuata dai proprietari, i Padri Comboniani, con cui abbiamo stipulato un contratto trentennale. Gli interni, i macchinari, le stalle e tutto il resto sono investimenti nostri, risparmi di anni di lavoro. Adesso abbiamo una quarantina di galline, quattro anatre, conigli (in numero variabile a seconda delle nascite), 14 pecore (nascite in previsione), quattro asini, 11 arnie, quattro maiali, un cane e due gatti. L’Arca di Noè!
Sicuramente una delle difficoltà, per la quale stiamo cercando di portare avanti anche a livello politico un po’ di battaglia, è avere un riconoscimento economico per quello che facciamo. Non prendiamo un euro di sostegni, ci teniamo in piedi con l’agriturismo e la vendita diretta. Vorremmo dedicare più tempo ai ragazzi che sono con noi, ci sarebbe il bisogno di farli stare un po’ di più, uno alla volta, il pomeriggio, per parlare più approfonditamente ma non possiamo farlo: se non mandiamo avanti il resto non campiamo. La difficoltà economica ci limita in quello che riusciamo a fare con le persone che lavorano con noi, che sono dei bellissimi successi ma potremmo accorciare i tempi o rendere ancora più luminosi questi successi. Un’altra difficoltà, collegata a quella economica, è il fatto di non staccare mai la spina. Ci sogniamo una settimana di ferie, noi due insieme a nostra figlia di tre anni.

Nella vita quotidiana, come si gestisce una fattoria come la vostra?

Abbiamo 16 persone che lavorano con noi, attualmente nove donne e sette uomini, quando esce una persona dal progetto ne rientra subito un’altra. Io e mio marito abbiamo ognuno le proprie peculiarità, per quanto riguarda frutteto, vigneto, api non metto becco, è molto più competente lui. Io ho una formazione più mirata ad allevamento, orticoltura e cerealicoltura. Se dobbiamo darci una mano, ovviamente, ci si supporta. Ma se si fa tutto in due diventa difficile e si rischia, a livello di coppia, di “stancarsi”, visto che siamo 24 ore sette giorni su sette sempre assieme.

Come gestite, invece, la parte “sociale” della vostra azienda?

Ai clienti che vengono a fare la spesa o a soggiornare (abbiamo un agriturismo, con due camere e un appartamento) avvisiamo subito che siamo una realtà sociale, potrebbero incontrare delle persone che o non li salutano o che iniziano a parlare loro e non c’è modo di fermarle. Oppure possono girare in azienda delle persone sociopatiche, innocue ma che girano incappucciate, un po’ imbronciate e vestite di nero. Spesso c’è interesse e molta apertura da parte degli ospiti, sono nati anche dei bellissimi dialoghi informali tra nostri clienti e le persone che seguiamo e delle opportunità lavorative nate per caso. Quello che per noi è importante è lavorare in rete, con i servizi sociali, il centro di salute mentale, il servizio dipendenze. È fondamentale, quando noi non ci siamo più per queste persone, che la rete dia comunque una continuità, un servizio, in modo da non dover ripartire da zero, una volta usciti dal nostro progetto. Dove non c’è o è carente la rete, lavoriamo per coinvolgere alcuni servizi. A volte, ci colleghiamo in rete ad alcune associazioni, semplicemente perché alcune persone che lavorano con noi hanno delle passioni, ad esempio ci interessiamo per un ragazzo che è qui da noi e ama la montagna, una ragazza ha scoperto la passione per il teatro e l’abbiamo inserita nel gruppo di teatro. Offriamo più delle 4 ore al giorno per imparare delle mansioni, la persona la seguiamo a tutto tondo.

Miriam Zenorini è tra le vincitrici della prima edizione del Premio Coldiretti “Amiche della terra, storie di donne che nutrono il mondo” (per la categoria Donne per le Donne – Sociale), in occasione del 70° anniversario della nascita del movimento di Donne Coldiretti

Zenorini, lei è imprenditrice agricola di Donne Coldiretti, di recente ha vinto il “Premio Amiche della Terra – Storie di Donne che nutrono il mondo” per la categoria Donne per le Donne – Sociale. È stato un riconoscimento inaspettato?

È stata un’enorme sorpresa, non sapevo neanche di essere candidata a questo premio: quando è arrivata la mail con la comunicazione che ero tra le finaliste, pensando fosse spam, l’ho cancellata. Quando mi ha chiamato il responsabile provinciale dell’ufficio Coldiretti, sono caduta dalle nuvole e mi sono segnata subito la data della premiazione in agenda, avvenuta a Roma lo scorso 20 settembre. Sono stata molto felice, ma stare 34 ore lontano dall’azienda non è stato facile.

Le foto sono dell’ufficio stampa Coldiretti e del sito www.vintlerhof.it




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