«A 14 anni per problemi contingenti mi sono ritrovata a dover crescere lontana dalla mia famiglia di origine e sono stata cresciuta da una rete di famiglie che “ufficiosamente” mi hanno permesso di diventare grande». A parlare è Karin Falconi, autrice del libro Non vi ho chiesto di chiamarmi mamma. Cronaca di un affido sine die (Edizioni Lavoro e Avagliano Editore). «Questa solidarietà familiare spontanea ha indirizzato la mia vita professionale e personale. Sono diventata una counselor e una mediatrice specialista nella genitorialità affidataria e adottiva».
Falconi, il suo libro uscito di recente è Non vi ho chiesto di chiamarmi mamma. Cronaca di un affido sine die. Può spiegarci il titolo?
Il titolo del mio libro nasce dallo stravolgimento di ruoli e dinamiche relazionali che avviene all’interno di una famiglia quando questa si apre ad una esperienza di affido familiare. Rappresentativo è più che mai il ruolo della mamma, in continua trasformazione. La voce narrante del mio romanzo, sotto forma di diario, è quella di una mamma, affidataria di due adolescenti, e biologica di una preadolescente. Una mamma il cui ruolo è in completa metamorfosi da quando inizia l’affido, tanto che si ritrova nel difficile compito di cambiare anche la visione di se stessa e rivedere il modo di rapportarsi con le sue tre bimbe. Perché non tutte poi la chiameranno mamma e non tutte con lo stesso intimo significato: c’è chi (come la figlia biologica) rivendicherà questo termine, chi lo userà come conquista dopo anni di vuoto senza in realtà conoscerne il vero sapore, chi griderà al rifiuto nel pronunciarlo. Ciononostante la nostra protagonista ricoprirà il ruolo di mamma, per sempre, questa è la sua scelta, anche se si tratta di un affido, questo è il suo ruolo e, in fondo, come tale viene tacitamente riconosciuta da tutti i membri della famiglia. Se anche non sarà chiamata “mamma” lei resta e resterà a tutti gli effetti una mamma e sicuramente una “mamma in più” per le due “sorellone” catapultate nella sua vita.
Come nasce l’idea di scrivere questo libro?
Io stessa ho un passato di affido. A 14 anni per problemi contingenti mi sono ritrovata a dover crescere lontana dalla mia famiglia di origine e sono stata cresciuta da una rete di famiglie che “ufficiosamente” mi hanno permesso di diventare grande, di credere in alcuni valori, nel lavoro e, soprattutto, di non perdermi (cosa che sarebbe stata davvero facile per me in quegli anni). Questa solidarietà familiare spontanea ha indirizzato la mia vita professionale e personale. Sono diventata una counselor e una mediatrice specialista nella genitorialità affidataria e adottiva. Soprattutto ho fondato insieme ad Emilia Russo l’associazione M’aMa-Dalla Parte dei Bambini che si occupa di affido e adozione di minori con bisogni speciali. Naturalmente tra i bisogni speciali quelli che prediligo sono quelli dell’età: non posso accettare che adolescenti e preadolescenti restino in casa famiglia per anni (anche 10) perché “troppo grandi” di età. E quindi sono diventati la mia spina nel cuore lavorativamente. Come lo sono diventati a livello personale. Così, quando quattro anni fa ho conosciuto i miei due figli adolescenti tramite l’affido, Emilia Russo mi ha chiesto di scrivere un diario perché poi diventasse uno strumento divulgativo e informativo su come una famiglia “normale” possa essere felicemente affidataria di due adolescenti. Naturalmente se non fossimo stati felici del risultato non avremmo cercato l’editore (Avagliano Editore e Edizioni Lavoro hanno creduto in questo progetto).
Ha spiegato che, a 14 anni, ha dovuto cercare da sola le famiglie che le aprissero le porte. Secondo i dati raccolti dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, sono 23mila i minori in comunità (tra i 14 e i 17 anni) nel triennio 2018-2020. Questi ragazzi sono già sotto la tutela dello Stato e dovrebbero avere una lista di attesa di ipotetici genitori ad aspettarli, ma così non è. Cosa non funziona?
Ogni parte dell’intero sistema ha le proprie responsabilità. I minori preadolescenti e adolescenti istituzionalizzati sono tanti e non riescono a uscire dall’istituzionalizzazione. Ci sarebbe innanzitutto da chiedersi: perché arrivano a questa età? A noi associazione arrivano appelli di minori anche 17enni, istituzionalizzati anche da 10 anni. Ma in 10 anni perché non si è cercata una famiglia? Forse quel bambino avrebbe avuto più possibilità allora? Riconosco però che sono tutte domande che cadrebbero nel vuoto, a cui nessuno risponderebbe.
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A suo avviso, cosa bisognerebbe fare per migliorare l’affido in Italia?
Prima di tutto, bisognerebbe lasciare finalmente che l’affido sia realmente aperto a tutti, anche a single e coppie omogenitoriali (Legge 184/83) in modo che si abbiano a disposizione più famiglie affidatarie. Quindi, che tutti i tribunali del territorio nazionale accettino la disponibilità offerta da famiglie omo e monogenitoriali, non solo i tribunali di Firenze, Napoli, Salerno, Palermo, Catania e Genova. Noi di M’aMa a sostegno della omo e monogenitorialità affidataria abbiamo creato dal 2017 il progetto www.affidiamoci.it
Poi è necessaria una formazione più approfondita e adeguata delle famiglie affidatarie con linee guida nazionali, senza che ogni comune possa agire del tutto arbitrariamente, con una restituzione scritta alla famiglia.
Inoltre, sarebbe importante una preparazione dei minori al progetto di affido, appena decretato il progetto, prima della conoscenza e dell’abbinamento con quella che sarà la loro famiglia accogliente. Molto spesso i minori in comunità non sanno cosa significano “affido”, “famiglia”, il progetto che li vedrà protagonisti.
Ultimo punto, bisognerebbe fare un affiancamento obbligatorio alla famiglia affidataria, da parte dei servizi sociali, durante il primo anno di inserimento del minore in famiglia, il periodo più fragile nel quale spesso la famiglia non riconosce di dover chiedere aiuto.
È importante non lasciarsi spaventare dall’età, da un passato che non si conosce e che si può conoscere insieme. L’affido può essere una soluzione positiva e inclusiva. E può cambiare la vita di molti adolescenti
Karin Falconi
Non vi ho chiesto di chiamarmi mamma si è trasformato in una vera e propria campagna itinerante di sensibilizzazione all’affido portata avanti da voi MammeMatte insieme a tante testimonianze di adolescenti coraggiosi
Sì, è diventata una campagna omonima di sensibilizzazione all’affido degli adolescenti fuori famiglia. La campagna #nonvihochiestodichiamarmimamma autofinanziata da M’aMa (attraverso il ricavato del libro), nazionale e itinerante. Trampolino di lancio è stato il libro e la sua pubblicazione e sempre il libro rimarrà il principale strumento con il quale noi MammeMatte gireremo l’Italia coinvolgendo scuole, centri affidi, comunità educative, associazioni. A ogni tappa ci sarà con noi un super testimone, un ospite d’onore, ovvero un adolescente coraggioso che racconterà la sua storia di affido. L’importanza delle testimonianze, di poter ascoltare la voce diretta dei protagonisti è impagabile. E dobbiamo dire grazie a tutti questi ragazzi che si mettono in gioco, perché di certo non è facile raccontarsi. Un focus particolare è rivolto alle istituzioni, alle famiglie affidatarie e all’opinione pubblica, con l’obiettivo di promuovere una consapevolezza diffusa: è importante non lasciarsi spaventare dall’età, da un passato che non si conosce e che si può conoscere insieme. L’affido può essere una soluzione positiva e inclusiva. E può cambiare la vita di molti adolescenti.
Foto dell’intervistata
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