Una donna di 74 anni che vede il mare per la prima volta. Un’altra, più giovane di almeno una ventina d’anni, che passa ore e ore a guardare i pappagalli rinchiusi in una gabbia. Un uomo di oltre 75 anni che racconta il suo vissuto di sofferenza. Sono alcuni passaggi del cortometraggio “Gli ospiti” che nei giorni scorsi ha vinto il premio Der – Documentaristi Emiliano-romagnoli al festival “Visioni italiane” di Bologna (sezione documentari), assegnato dalla giuria composta dagli studenti del corso Doc all’opera di Simonetta Columbu, attrice cagliaritana di 30 anni, al suo primo lavoro dietro la macchina da presa. Con molta delicatezza, racconta la vita di alcuni ospiti della comunità integrata “Casa San Giacomo” di Mandas, a una quarantina di chilometri da Cagliari, gestita dalla cooperativa sociale “Il mio mondo”. La struttura comprende due edifici e accoglie persone non autosufficienti, tra cui alcune con problemi di salute mentale. Columbu, che si è fatta conoscere e apprezzare al grande pubblico nella serie tv Rai “Che Dio ci aiuti” e in “Io sono tempesta” di Daniele Luchetti (2017), ci spiega perché è particolarmente felice di questo riconoscimento.
Sono all’esordio da regista, dunque non mi aspettavo un premio alla rassegna di Bologna. Ma la cosa più straordinaria è che si tratta di un lavoro nato un po’ per caso: inizialmente avrei dovuto fare un reportage fotografico, una mia grande passione. Poi, strada facendo, mi sono resa conto che c’erano delle persone, con i loro vissuti, che meritavano un racconto diverso perché testimoniano qualcosa di veramente importante. Lo potevo fare soltanto con un documentario, che ha una sua anima. Ho girato un po’ di immagini e fatto alcune interviste, e a quel punto ho capito che dovevo mettere su una squadra di professionisti che mi aiutassero a fare un lavoro di qualità. Ho deciso di autoprodurmi e investire tutti i miei risparmi in questo corto. Ho coinvolto una mini troupe: Enrico Monni (riprese), Roberto Cois (fonico) ed Emanuele Vesci (musiche in post produzione).
La scelta del bianco e nero, come ha sottolineato anche la giuria, conferisce a questo lavoro una grande emotività che tocca davvero il cuore dello spettatore.
Credo e spero che si respiri l’atmosfera che ho percepito in quella comunità. Ho trattato un argomento non semplice che non può essere banalizzato. Quindi anche la musica accompagna le immagini con un ritmo lento che rispetta i tempi di queste persone ma anche i loro silenzi, le loro vibrazioni. A proposito, desidero ringraziare gli ospiti che si sono prestati a girare questo cortometraggio: Giuliana, Giuseppe, Angela, Santi, Liviana, Fernando, Giuseppe, Ida, Pasqualina e Andrea. E poi il direttore della struttura, Antonello Pili, e tutto il personale sociosanitario ed educativo.
La giuria di giovani, nella motivazione del premio, scrive tra l’altro: “Vedere le loro espressioni cambiare aspetto durante questi momenti ci ha fatto emozionare molto. (…) Inoltre, nel documentario abbiamo ammirato come viene trattato il tema del perdono che assume una moltitudine di sensi”.
Ho chiesto ad alcuni ospiti intervistati che cosa sia il perdono per loro. In tanti non mi hanno saputo dare una risposta. Lo trovo molto bello e significativo: mi sembra estremamente onesto. Nella vita siamo spesso abituati a rispondere di getto, con troppa leggerezza e quasi senza pensare, e magari banalizziamo certi concetti. Diamo per scontati argomenti complessi. I protagonisti de “Gli ospiti” rispondono in maniera profonda e consapevole. E, nella loro consapevolezza, sanno di non sapere.
Come mai le è venuta l’idea di trattare proprio questa tematica? Questo tipo di fragilità l’ha riscontrata in persone a lei care?
No. Questo mio desiderio è nato in maniera spontanea, naturale. Da sempre ho avuto uno spiccato interesse per i mondi poco raccontati. Avrei potuto realizzare un documentario sui minori, per dire. Ma tutto nasce dal desiderio di fare un’esperienza a livello personale. Non ho fatto questo corto per trasmettere messaggi alla gente: sarebbe stato un po’ presuntuoso da parte mia avere un’ambizione del genere.
Però qualunque opera artistica trasmette un messaggio. Volenti o nolenti.
Sì, questo è vero, ma non è stata la molla che mi ha convinta a realizzare un lavoro del genere. Poi, certo, alla fine emergono diversi messaggi. Per esempio, dopo una vita di sofferenza è possibile tornare ad avere uno sguardo comunque positivo, a rivedere la luce, a gioire magari delle piccole cose. Queste persone, pur nel dolore, sono desiderose di dare. Sembrano essere tornate ad uno stato di innocenza. E poi c’è il significato del perdono, di cui abbiamo già detto prima.
È entrata in forte empatia con gli ospiti della comunità.
In un primo momento sono andata da loro per conoscerli. Poi, come ho già detto, ho scattato molte fotografie che spero di utilizzare più in là per una mostra. Ben presto mi sono accorta che quelle persone avevano un incredibile desiderio di raccontarsi. E ne sono rimasta coinvolta nell’intimo. Amo la fotografia ma stavolta bisognava andare oltre lo scatto. Perché la consapevolezza dell’esistenza del dolore può avere un valore catartico: nasconde il desiderio di rinascita.
Lei è figlia d’arte (il padre, Giovanni, è un regista molto apprezzato, ndr). Questo l’ha aiutata nel suo primo lavoro in regia?
Lui mi ha sempre parlato di cinema e di regia, sin da quando ero piccola. Dunque, questo argomento mi ha interessata molto presto, anche se principalmente sono un’attrice. A lui questo corto è piaciuto, spero che accada lo stesso con il pubblico che lo vedrà.
Dopo due giorni di riprese in comunità, vi siete recati alla spiaggia del Poetto, a Cagliari. Ed è stata una scelta vincente.
Un’esperienza bellissima, quasi magica. Ci siamo andati all’alba, quando c’erano pace e silenzio. Il mare era calmissimo. Il Poetto e la loro malinconia, la loro gioia: un contrasto strano ma bello. Alcuni ospiti erano talmente elettrizzati, per questa esperienza cui non erano abituati, che hanno indossato i costumi da bagno sin dalla notte precedente. Altri non hanno dormito. Vederli felici come dei bambini, ci ha molto emozionati. Parlo al plurale perché queste persone sono state accompagnate da numerosi operatori, compresi alcuni che non erano di turno ma hanno voluto dare un aiuto. Uno spirito tipico di chi lavora nel Terzo settore.
Ci voleva una giovane di 30 anni per far fare questa esperienza a persone che non erano mai state al mare?
No. Il direttore della cooperativa ha mostrato grande sensibilità e si è organizzato di conseguenza per venire incontro alla mia richiesta. Ma non è affatto semplice predisporre attività di questo tipo con persone che hanno sofferenze mentali: richiedono la presenza di parecchi operatori sociosanitari. E questo comporta delle spese aggiuntive che una struttura di questo tipo spesso non può permettersi. Soprattutto di questi tempi in cui le rette non bastano a far fronte alle spese. Ecco, prendo la domanda come una provocazione che ci aiuti a riflettere su questo.
In effetti era proprio una provocazione: VITA racconta da tempo le difficoltà che incontrano quotidianamente le strutture sociosanitarie. Ma torniamo al film: autoprodotto e distribuito da Pathos Distribution. C’è altro da sapere?
Non posso dimenticare il prezioso apporto di Giffoni Innovation Hub, che ha creduto in questo progetto sin dall’inizio. Avevano sentito parlare del mio cortometraggio e ci hanno scommesso, basandosi anche sulla fiducia che ripone in me Luigi Sales, head of original productions della Giffoni, che ho conosciuto per lavoro tempo fa.
Sappiamo che è in dolce attesa. Quanto manca al lieto evento?
Sono all’ottavo mese di gravidanza, dunque ci siamo quasi. È il nostro primo figlio, è un maschio, e so già che sarà un’emozione unica e meravigliosa. Per un po’ dovrò pensare unicamente a lui, poi tornerò a lavorare. Nel 2024 uscirà un film girato un mese fa, al quale ho partecipato in qualità di attrice. Come regista, invece, ho in progetto di fare altri documentari di carattere sociale. In ogni caso, cercherò di far conoscere questo cortometraggio. Nella primavera dell’anno prossimo mi muoverò per organizzare le proiezioni del documentario, cominciando dalla mia Sardegna.
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