Al piano terra di un palazzone c’è una finestra rettangolare. Il perimetro è illuminato dalle lucine: si spegneranno prima di Natale. Quest’anno negli appartamenti delle Vele di Scampia non ci sono alberi o presepi. Quest’anno non ci sono quasi più neanche le persone. Le stime parlano di 400 famiglie sgomberate. E non stanno addobbando un’altra casa, perché un’altra casa non esiste ancora.
«Il 22 luglio abbiamo perso tutta la felicità»
Valeria viveva nella Vela Celeste, «vicino a dove sono cadute le passerelle. C’ho abitato con i miei figli di 13 e 11 anni. Dodici anni fa sono rimasta senza niente, mi serviva una casa, ho trovato un appartamento aperto e mi sono messa dentro. L’ho sistemato alla meglio. Non abitavo nel lusso, come dice la gente quando parla delle case delle Vele. La cucina, la camera mia, quella dei ragazzi. Ma stavo bene. Era casa mia». Valeria abitava al secondo piano: «Il 22 luglio abbiamo perso tutta la felicità».
Cinque mesi fa, in una sera di un’estate afosa, il ballatoio del terzo piano della Vela Celeste si è sbriciolato. È andato giù e ha coinvolto anche i ballatoi del secondo e del primo piano. Nella caduta rovinosa si è portato via le vite di Roberto, Margherita e Patrizia.
Le Vele erano state costruite tra il 1962 e il 1975. Originariamente erano sette edifici per 1.192 appartamenti. Si chiamano Vele per la loro forma triangolare: larghe alla base e poi allungate verso l’alto. Solo che qui il vento non ha girato nella direzione giusta.
Le prime quattro Vele sono state demolite nel 1997, 2000, 2003 e 2020. Saranno abbattute anche la Vela Gialla e quella Rossa. Stando ai piani del Comune, la Vela Celeste – quella dove si è consumata la tragedia e l’unica per cui erano stati previsti lavori di riqualificazione – non sarà abbattuta. Rimarrà lì come simbolo e ricordo.
Agli inizi degli anni Settanta in questo quartiere della periferia Nord di Napoli doveva nascere il sogno della media borghesia. Si costruivano i primi parchi privati, lontano dal caos del centro della città, il verde attorno, la prospettiva di una bellezza serena. Ma nell’Ottanta il terremoto in Irpina ha segnato l’inizio delle scelte politiche sbagliate. Furono edificate strutture in piena emergenza post-terremoto, c’era bisogno di case per gli sfollati. Quelle scelte hanno lasciato spazio alla criminalità. Il quartiere di Scampia è stato per molti anni il palcoscenico drammatico delle faide di camorra, dei morti ammazzati per strada, delle piazze di spaccio. La criminalità oggi esiste ancora, ma più di tutto restano l’emergenza abitativa, la povertà estrema – di quella che non metti insieme il pranzo con la cena – e quell’umanità che si mischia con la lingua, il dialetto. Che qui è preciso e non fa sconti. Non abbellisce la realtà.
«Quella Vela era casa mia»
Valeria ha 38 anni e tutte le porte chiuse: «Le case ci stanno ma nessuno ce le vuole dare. Ci chiedono l’impossibile. Vanno trovando una busta paga statale. Ma a chi tiene le case gli deve solo interessare se pago il pigione a fine mese. Io dove lo piglio un posto indeterminato? Dove la piglio la busta paga?». Valeria quando può lavora in nero: «Lavoro giustamente con le piccole pulizie». Per alcuni sfollati delle Vele il Comune ha previsto un sussidio mensile fino a quando non saranno pronte, alla fine del 2025, le case popolari. Ma quel sussidio non risponde al bisogno: «A che servono i soldi, se nessuno ci affitta le case»
La casa di Valeria aveva le pareti bianche e rosa: «Gli volevo dare una rinfrescata. Pensavo che ci potevamo stare dentro altri 4 o 5 anni. Ma meglio ca’ nun o’ dicevo (sarebbe stato meglio che non l’avessi pensata questa cosa, ndr)». Il figlio maggiore di Valeria è seguito da un neuropsichiatra «ha vari problemi. E non lo posso spostare: qua ha le sue abitudini e i suoi amici. Se fosse ppe me me ne iess o’ cchiu’ luntan e possibile ra stu post (se fosse per me andrei via, il più lontano possibile da Scampia)».
Quando pensa al futuro Valeria non si immagina più «niente. Ho perso pure la speranza. Si dicono tante cose sulla gente delle Vele, ma tante cose che non sono vere. Come per esempio che non volevamo pagare il pigione: io l’avevo fatta la richiesta. Sia per il pigione che per mettere il contatore della luce. Ma non mi hanno accettata. La Vela dove abitavo era un mostro di cemento, non era bello stare là dentro. Però per me era casa, era la vita. Mo simm marcart a pest. “No no sit re Vel”. Ma che tenimm a scabbia? Noi simm esseri umani. (Ora siamo marcati a peste. “No, no. Siete delle Vele” ci dicono le persone. Ma cosa abbiamo, la scabbia? Noi siamo esseri umani, ndr).
Valeria non ama il Natale, ma quest’anno avrebbe voluto comprare un albero nuovo per i suoi figli: «Mo sto qua, giustamente non lo posso comprare. Ma comunque pure qua è buono perché non è in mezzo a una strada».
Le cose di Valeria sono rimaste tutte nell’appartamento al secondo piano della Vela Celeste: non potrà mai tornare indietro a prenderle. “Qua”, per Valeria, è una stanzetta al secondo piano all’officina delle culture Gelsomina Verde, sede dell’associazione Resistenza Anticamorra. Ci vive dallo scorso luglio, insieme ad altri sfollati come lei. Da mesi condividono i bagni e la cucina.
Un posto dove stare
«Questo quartiere per quarant’anni ha vissuto la dittatura della camorra. Da un punto di vista politico, economico e culturale, nulla si poteva fare senza il suo consenso», racconta Ciro Corona, presidente dell’associazione. Anche se oggi Scampia è diventato uno dei laboratori sociali più grandi d’Europa con 144 associazioni attive su tutto il territorio, la situazione rimane fragile. «Il progetto di edilizia popolare delle Vele non ha mai funzionato. Intorno a quei palazzoni di 14 piani non è mai stato costruito nulla. Non c’è mai stato un ascensore o un citofono. È stato un progetto mal pensato e mai completato. Per cambiare la storia di un quartiere – e quella delle Vele – è arrivata una tragedia come quella dello scorso luglio».
«Non ci dobbiamo nascondere»
Anche Fortuna e Antonio, 52 anni, sono sfollati dallo scorso luglio. Vivono in una delle stanze dell’Officina Gelsomina Verde con i loro quattro figli di 23, 20, 19 e 3 anni. «L’ultimo è un bimbo speciale, un vero miracolo». Non si vogliono far riprendere o fotografare, poi Fortuna guarda il marito e dice: «Non ci dobbiamo nascondere, non ci dobbiamo vergognare. Non abbiamo fatto niente di male».
Della sera che è crollato il ballatoio della Vela Celeste si ricordano tutto. «Il più piccolo dormiva sul divano», racconta Fortuna. «Era stato lavato, aveva cenato. I più grandi stavano finendo di mangiare. Abbiamo sentito un boato. Mi sono affacciata sul balcone e ho visto una scena terrificante. Macchine che correvano avanti e indietro. Persone che urlavano in mezzo alle scale. La gente che scendeva giù veloce. Ma non abbiamo capito subito. Vedevo gli altri con i bambini in braccio, fermavano le macchine per strada e si buttavano dentro con i figli. Poi siamo usciti pure noi, abbiamo visto il ballatoio caduto con le persone sotto».
Fortuna e Antonio sono arrivati nella Vela Celeste «tanti anni fa», racconta lei. «Mio marito aveva perso il lavoro. È stato in carcere, ma il suo conto con la giustizia l’ha pagato. Non avevamo i soldi per il pigione, così abbiamo trovato una casa vuota nella Vela Celeste e ci siamo entrati. Abbiamo iniziato la nostra vita. Quello era il nostro nido, il nostro tutto. Noi nelle Vele stavamo bene. Nostro figlio più piccolo vuole un albero di Natale “grande grande” come dice lui. Ma l’albero quest’anno non lo possiamo fare».
Fortuna e Antonio percepiscono un sussidio comunale. Pochi giorni fa sono andati a vedere un appartamento per affittarlo, ma – come per tutti gli altri – si è ripetuta la stessa scena: «Il proprietario di quella casa era un ragazzo e noi gli abbiamo detto la verità. Gli abbiamo detto che la busta paga non la teniamo. E lui la casa non ce l’ha potuta dare. La nostra vita si è fermata. Ogni mattina scendiamo e andiamo alla ricerca di questa casa. Ma nessuno ce la dà. Nessuno vuole chi abitava nelle Vele. Quando manca la casa, manca tutto. Non la auguro a nessuno questa sensazione. Noi ne abbiamo superate tante nella nostra vita, ma questa è insuperabile. È una montagna che non riusciamo a scalare».
«A me mi serviva la stanza»
Flora, 58 anni, sta «miez a na’ via dal 22 luglio», dice. È ipovedente, ti fissa ma non ti guarda. Nello studio di Ciro Corona, nell’officina Gelsomina Verde, chiede: «A me mi serviva la stanza. La tieni?». Poi si sforza di usare l’italiano anziché il dialetto: «Il mio compagno sta agli arresti domiciliari. Ma adesso ata pensà a me no o cumpagno mio. A me m serv a stanza. Stong miezz a na via da quattro cinque mesi, non posso più stare. Capite?».
Ma una stanza per Flora negli spazi dell’associazione non si è ancora libera. Alcune delle famiglie che dovevano lasciare la struttura sono ancora lì, e lei sa perché: «E buste paga, nun tenen e buste paga». Per Flora, che ha vissuto nella Vela Celeste dal 2008, questa stanza è tutto: «Sono stata in galera. Ma solo per una truffa, non per cose strane», precisa. «Devo andare in affidamento da qualche parte. Sennò vengono le guardie e mi chiudono proprio (mi rimettono in galera ndr)». E mentre lo dice mima con la mano il gesto della chiave che gira nella serratura.
Dentro lo spettro delle Vele. Le famiglie che sono rimaste
Da luglio ad oggi le tre Vele si sono poco alla volta svuotate. Qualcuno ha trovato riparo dai parenti, qualcuno è riuscito ad affittare un’altra casa, qualcuno è in strada. Altri ancora sono stati ospitati dalle associazioni come Resistenza Anticamorra o dalle parrocchie. «Collocare 400 famiglie», dice Ciro Corona, «era un lavoro che andava fatto in quarant’anni, non in cinque mesi». Anche se le notifiche di sgombero non hanno mai smesso di arrivare, in molti sono rimasti, non sapendo dove andare, nelle Vele che vedevano ancora come l’unica possibilità. La Vela Celeste è ormai disabitata. In quella Gialla e in quella Rossa alcune famiglie si preparano ad andare via, tre famiglie dai piani alti hanno occupato gli appartamenti a piano terra e non sanno come rispondere all’ultimatum che è arrivato: “prima di Natale dovete andare via”.
Le Vele oggi sono un ammasso di ferraglia dalle pareti scrostate. Un luogo senza vita, un po’ spettrale. Sono lontani i giorni delle case piene e del via vai di persone che camminavano sopra i lunghi ballatoi. Degli intrecci difficili ma comunque tanto umani. Oggi resta il silenzio, i divieti di accesso, i muri di cemento a sigillare gli ingressi delle case, tutte numerate, affinché nessuno possa più tornare. Non c’è un dato reale su quante fossero le persone che abitavano le Vele. Se volessimo usare il linguaggio della legge dovremmo dire che non c’è un dato reale su quante fossero le persone che occupavano abusivamente gli appartamenti dentro le Vele di Scampia. Qui la criminalità ha fatto leva sul bisogno. A volte il bisogno si è trasformato in criminalità. L’omertà è diventata uno strumento di sopravvivenza. Nelle vele di Scampia un filo d’erba è diventato un solo fascio. Lo stesso che soffoca dentro lo stigma chi le ha abitate.
«Io il pigione lo pagavo»
Felicia, 60 anni. «Nun ce stev proprj niente. Sul quatt mura. Aggià fatt tutt cos io». Non c’era proprio niente quando Felicia nel 2009 è andata a vivere nella Vela Rossa di Scampia. C’erano solo pareti e stanze vuote. E lei quel vuoto l’ha trasformato in casa. «Ho fatto tutto a mie spese», racconta. «E pagavo pure il pigione». Alle tre del pomeriggio del 24 novembre è caduto anche il ballatoio del quinto piano della Vela Rossa. Non ci sono stati feriti. Solo un’accelerata agli ordini di sgombero. «Davanti al ballatoio mio ci stanno i sigilli, ma io a volte ci entro lo stesso. Mi devo andare a prendere le cose».
Felicia e suo figlio, che si trova agli arresti domiciliari, non sapevano dove andare. «E quindi siamo rimasti nella Vela, che dovevamo fare». Si sono spostati in un micro appartamento al piano terra. La casa affaccia su un piano seminterrato che in questi mesi si è riempito di spazzatura. Non entra luce nella loro casa provvisoria di due stanze. «Mo arò jamm tutt sti pecor? (E ora dove andiamo? Sembriamo un gregge di pecore smarrite). Lo sapete che io un assistente sociale qua non l’ho mai visto?».
«Sto lasciann addò so nat»
La casa di Agostino, 75 anni, e della signora Anna, 69, è quasi vuota. È rimasta, staccata dalle pareti, una cucina bianca con le rifiniture gialle. Qualche gioco rotto sopra il pavimento. E un rosario appeso alla porta d’ingresso che non è più un ingresso: la porta è stata sradicata dai cardini e adesso se ne sta appoggiata al muro. «Qua devono murare. Ce ne dobbiamo andare».
Abitano al terzo piano della Vela Rossa. Ci abitano da sempre. Qui è dove sono cresciuti i loro figli e i loro nipoti. Agostino parla quattro lingue: tedesco, spagnolo, inglese e olandese. Ma mischia sempre l’italiano con il napoletano. Prima di arrivare a Scampia ha lavorato come collaboratore nelle scuole di vari Paesi europei e poi della Campania. E ci tiene a sottolineare, con orgoglio, che ha sempre lavorato. Che ha sempre fatto tutto quello che poteva fare. Come quella volta che «ho comprato un camion al marito di mia figlia, così poteva andare a fare le consegne. Ma lui è andato a rubare e lo hanno messo in galera. Gli misi io l’avvocato – 2mila euro (fa il segno del due con le dita della mano destra ndr). Ma una volta uscito voleva stare a casa con noi. E io ho detto no: vai e ti porti a tua moglie e ai tuoi figli. Vedete, nelle Vele non ci stanno solo persone che delinquono, ma pure persone che hanno lavorato educatamente».
Impacchettano le ultime cose, si guardano in giro un po’ attoniti pensando ad una vita fuori dalle Vele e il figlio più grande che li sta aiutando dice: «Sto lasciann addò so nat». (Sto lasciando il luogo dove sono nato e cresciuto ndr).
«Il posto è degradato e vi pensate che siamo degradati pure noi?»
«Io avevo difficoltà a trovare una casa. Quindi nel 2011 sono venuta e ho occupato nella Vela. Ho quattro figli di 20, 19, 7 e 3 anni. Sono divorziata. Il bambino piccolo non lo posso spostare, non sta bene. Ha una patologia allo stomaco, mangia e vomita. Non lo sappiamo ancora che cos’è. Stiamo capendo. A me mi dispiace che devo lasciare questa Vela Rossa. Forse il posto è degradato e si pensa che siamo degradati pure noi? Chi viene da fuori può dire “che schifo le Vele”. Ma non è vero. Qua eravamo tutti una famiglia. Siamo persone umane e la mattina chi può va a lavorare».
«Purtroppo tanti dei nostri mariti e compagni lavorano a nero. Prendono 200 euro alla settimana, come facciamo a permetterci una casa adeguata con un pigione di 500 euro, più l’acqua, più la luce, più il gas? Io faccio le pulizie a volte, e mia figlia grande, quella di 19 anni, ora sta con me perché è incinta. Il compagno per adesso sta a casa di sua mamma, perché una casa per loro non la trovano».
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