Edoardo Borgomeo

Gestione dell’acqua: impariamo da Danilo Dolci

di Gabriella Debora Giorgione

"La storia di Danilo dimostra come sia possibile, in un contesto geografico limitato, identificare le necessità legate alla gestione dell'acqua e poi attuarle. Appoggiandosi all’inizio ai sistemi dello Stato come la cassa in mezzogiorno e le banche che finanziano e costruiscono, ma rimettendo nelle mani degli utenti queste infrastrutture per la loro gestione condivisa e cooperativa". Dialogo con il ricercatore dell'università di Oxford e collaboratore della Banca Mondiale

Edoardo Borgomeo, honorary research associate all’Università di Oxford, lavora presso la Banca Mondiale dove si occupa di progetti di gestione delle risorse idriche e adattamento al cambiamento climatico. In questo dialogo ragiona su come la scienza e la politica dovrebbero guardare al bene comune più scarso a livello globale. Un giro del mondo in nove tappe per scoprire come l’acqua e la sua gestione si intreccino all’economia, alla storia, alla cultura e alla vita di ciascuno di noi.

Nel suo libro “Oro blu” lei racconta nove storie di acqua e cambiamento climatico in nove parti del mondo che ci fanno scoprire come l’acqua e la sua gestione si intrecci all’economia, alla storia, alla cultura e alla vita di ciascuno di noi. E sostiene la tesi secondo la quale la gestione dell'acqua non è solamente compito degli ingegneri ma è compito di tutti…

Nei paesi in via di sviluppo aiuto i governi a gestire l’acqua in maniera equa e sostenibile. L’acqua è necessaria alla vita, ma è anche una risorsa che ha una funzione sociale, economica e culturale.
Una buona politica dell’acqua parte da due cose. Innanzitutto da misurazioni, dati e informazioni scientifiche perché l’acqua scorre ed è variabile nel tempo e nello spazio, dobbiamo essere capaci di misurarla e studiarla, quindi si parte da una dimensione tecnica della gestione dell'acqua che è fondamentale perché parte da discipline scientifiche naturali come la biologia, l’idrologia, la chimica, e passa attraverso le scienze applicate come l’ingegneria e l’economia. Poi, ovviamente, la politica dell’acqua tocca anche altri aspetti legati alla giurisprudenza.
Quindi le buone politiche dell’acqua si basano su due elementi imprescindibili: da un lato il dato tecnico e dall'altro il processo politico che si occupa di capire come gestire l’acqua e di decidere come società cosa vogliamo fare con l'acqua.

Nel passaggio dal dato tecnico alla scelta politica, però, spesso il processo si ferma…

La dimensione scientifica ci dice, per fare un esempio, che il cambiamento climatico porterà più piogge: forse pioverà meno spesso, ma pioverà in maniera e in quantità più ingenti, le classiche “bombe d’acqua”.
La scienza ci dice che se piove di più in maniera meno prevedibile dovremmo costruire più invasi in cui riuscire a raccogliere più acqua che possiamo riutilizzare quando non piove. Ovviamente la politica non adotterà questo principio “ad occhi chiusi” perché la gestione degli invasi vuol dire gestire il paesaggio. È qui che si inserisce la seconda parte, cioè il processo politico che porta ad identificare come vogliamo vivere noi con il nostro paesaggio e con l’acqua.
La politica dell'acqua si fonda su questi due linee: il dato scientifico e tecnico e poi la discussione del processo politico che deve essere aperto a tutti ovviamente non deve essere ideologizzato ma deve essere trasparente.

Non rischiamo di essere un po' utopistici? Se la scienza ti dice una cosa, vuol dire che a te politico ha già suggerito almeno tre-quattro ambiti decisionali attraverso i quali tu puoi fare fronte ai cosiddetti cambiamenti. Se è tutto così chiaro sotto il profilo scientifico cosa manca, allora, all’azione politica?

Forse quello che manca è una consapevolezza maggiore che il dato scientifico non è sufficiente a gestire l'acqua come non è sufficiente gestire il paesaggio o le crisi sanitarie. Ci vuole più consapevolezza e capire che per arrivare a risolvere certe situazioni bisogna lavorare molto di più nel definire dei processi politici più efficaci più efficienti o più trasparenti. Questo è un aspetto nella gestione ambientale che viene molto spesso ignorato. Gli scienziati anche come me pensano che basti l’evidenza del dato scientifico per motivare l'azione.
Ovviamente è sbagliato pensare che basti perché contano molto le “percezioni del rischio” e le “priorità politiche”. Ci sono diversi “gruppi di interesse”, e non uso questa definizione in senso negativo, che hanno diverse priorità. Quindi, come dicevo, quello che manca è una consapevolezza maggiore che il solo dato scientifico è solo la metà della soluzione al problema e che non basta affidarsi solo ad esso: bisogna anche essere capaci di creare processi politici.

È la seconda volta che lei utilizza “trasparente” o “trasparenza”. Cosa intende?

Gestione trasparente come l’acqua. Non c'è da parte mia l'intenzione di dire che i processi decisionali legati all'acqua non siano trasparenti, però molto spesso avvengono in maniera molto top-down, dall'alto verso il basso, perché molto spesso la gestione dell'acqua coinvolge grandi opere idrauliche e infrastrutture che sono “territori” in cui di solito opera lo stato, opera una grande attore e non le comunità. Quindi forse in questo caso è necessario assicurarsi che anche gli interventi su grande scala vengano identificati e progettati in maniera aperta al pubblico. Questa mia osservazione è molto rilevante soprattutto in paesi in Africa dove molto spesso le grandi opere sono frutto di disegni e manie di grandezza di qualche dittatore oppure sono visioni in cui c'è una certa idea di nazione che si deve “materializzare” attraverso le grandi opere e che, appunto, vengono imposte dall’alto senza interpellare le persone che dovranno convivere con le conseguenze di queste decisioni.

Dopo questi nove viaggi e tutto il lavoro che lei sta facendo, ha la “ricetta perfetta” di un processo partecipativo di gestione dell'acqua?

La domanda è buona e anche provocatoria. Non c'è una ricetta generale applicabile. Gli studiosi della gestione dell'acqua dicono che non ci sono “panacee” quando si parla di gestione dei beni comuni, tra cui, appunto, l’acqua. Però ci sono molti esempi che possono fornire delle direttive difficili anche una sorta di ispirazione. In Italia è molto noto l'esempio di Danilo Dolci, un poeta e attivista che negli anni cinquanta visse a Trappeto vicino a Palermo. Negli anni ’50, Dolci riesce prima a far capire agli agricoltori come la mancanza d'acqua fosse un problema per il loro benessere e poi riesce a farli mettere insieme per chiedere la costruzione di un invaso (l’invaso Poma, sul fiume Jato) costruito con i fondi della Cassa del Mezzogiorno che sarà gestito in maniera cooperativa dagli agricoltori.
La storia di Danilo dimostra come sia possibile, in un contesto geografico limitato, identificare le necessità legate alla gestione dell'acqua e poi attuarle. Appoggiandosi all’inizio ai sistemi dello Stato come la Cassa del Mezzogiorno e le banche che finanziano e costruiscono, ma rimettendo nelle mani degli utenti queste infrastrutture per la loro gestione condivisa e cooperativa.

Un azionariato popolare come lo vede?

La natura di certi investimenti per le infrastrutture idriche richiede delle somme ingenti di capitale. Però per fare altri interventi legati all’acqua penso che si possa pensare ad un azionariato popolare: penso alla conservazione e alla preservazione di ecosistemi e di pulizia.
Di base, quello che posso dire è che la maggior parte delle opere idrauliche vengono finanziate da fonti pubblici proprio perché, in realtà, lo Stato riconosce la natura pubblica della gestione dell’acqua.

Lei ha fatto il giro del mondo dell’acqua in nove viaggi. Caso limite e caso che non si sarebbe mai aspettato.

Il caso limite sono i miliardi di persone che non hanno accesso all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari in molte parti del mondo. Sono appena tornato dal Sud Sudan in Africa un paese in cui il più del 70% della popolazione non ha accesso a un bagno e fa i suoi bisogni all'aperto, pensiamo ad una donna e ai rischi per la sua sicurezza, non a caso questo aumenta di molto anche il tasso di violenza sulle donne. Le persone senza accesso ai servizi igienico-sanitari sono più di un miliardo, nel mondo. Il caso positivo è Singapore dove si ricicla il 100% dell'acqua di fogna del paese: tutta l'acqua che viene scaricata non viene buttata in mare, ma depurata e poi reinserita nel circuito di distribuzione dell'acqua pubblica, un’economia circolare dell'acqua quindi.

Inghilterra, sistema privato; Parigi e Berlino hanno ripubblicizzato. Quale, il sistema migliore?

Come dicevo, non c’è panacea. Di certo, se il sistema è privato, ci deve essere un ambiente regolatorio molto forte. Anche la banca mondiale adesso è molto più cauta nel promuovere sistemi privati di gestione del servizio idrico integrato se non in presenza di sistema di regole e di controlli. In Italia il sistema è “a spezzatino”: ci sono molti gestori e io credo che questo sia un problema perché la mancanza di integrazione tra tutte queste entità ovviamente non rende agevole la gestione del servizio e il suo miglioramento.

Quante guerre, in realtà, in questo momento sono “guerre d’acqua”, nel mondo?

Iniziamo sempre dai dati. Gli scienziati hanno studiato con quanta frequenza l'acqua causa conflitti o causa cooperazione. Quando due paesi si devono confrontare per la gestione di un fiume condiviso, come ad esempio il Nilo in Africa che è condiviso da dieci paesi, in realtà la nostra intuizione ci dice che si metteranno a litigare. Però i dati storici che sono stati raggruppati dal 1850, che quindi hanno studiato più di 150 anni di eventi legati all'acqua, hanno scoperto che tra nazioni che si devono confrontare sull’acqua la cooperazione è un risultato più frequente.
La condizione conflittuale dell’acqua non sparisce, la stessa radice etimologica di “rivale” rimanda alla conflittualità di due paesi che condividono due “rive” di uno stesso fiume. Però storicamente quando i paesi si sono dovuti confrontare sull’acqua hanno scelto la cooperazione e non il conflitto, anche perché la gestione cooperativa, condivisa, delle risorse normalmente porta più benefici rispetto alla gestione unilaterale.

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