Potrebbe essere un’italiana il prossimo Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. E potrebbe essere ancora una donna, dopo i due mandati della cinese Margaret Chan. A settembre l’Italia ha candidato Flavia Bustreo, la prima candidata italiana della storia dell’Oms. Sono sei i candidati in corsa, che a novembre hanno presentato il loro profilo e il loro programma agli stati membri e per la prima volta al pubblico. Il prossimo 25 gennaio gli stati membri del consiglio esecutivo selezioneranno una rosa di tre candidati, fra cui in maggio l’assemblea generale deciderà il nuovo Direttore Generale, che sarà in carica dal 1 luglio 2017.
Flavia Bustreo, nata a Camposampiero in provincia di Padova, è medico, epidemiologo, esperto di salute pubblica. Lavora in Oms da oltre vent’anni e dal 2010 è vicedirettore generale per la Salute della famiglia, delle donne e dei bambini: una direzione sotto cui stanno circa un terzo delle attività dell’Oms, del suo personale e del suo budget. Nel curriculum della dottoressa Bustreo ci sono un’infinità di paesi in cui ha lavorato, dall’Argentina allo Zambia. È stata a Sarajevo con i Beati costruttori di pace nel 1992, a Baghdad durante la guerra del Golfo e nel 1997 era l’unico medico italiano presente in Sudan. Vuole che «i risultati delle persone che lavorano per l’Oms siano messi in evidenza» e allo stesso tempo ha un background che conosce il valore dell’incrocio fra soggetti pubblici, non profit, accademia, privati. «La promozione della salute quale diritto fondamentale facente capo ad ogni singolo individuo, indipendentemente dal luogo in cui vive» è il leit motiv del suo impegno. L’abbiamo incontrata.
I sei candidati sono stati chiamati a presentarsi agli Stati Membri e al pubblico. Quali sono i punti di forza del suo programma?
Tra i piloni portanti c’è sicuramente il diritto alla salute e l’equità nell’accesso ai servizi, la universal health coverage. La mia candidatura nasce dal fatto che l’Italia ha davvero molto da dire nel campo della salute pubblica, dove abbiamo raggiunto risultati eccellenti, basti pensare alla mortalità materno-infantile o al fatto che siamo il secondo paese al mondo con la più alta proporzione di persone sopra i 65 anni, dopo il Giappone: questa longevità significa una qualità di vita eccellente. Soprattutto ci contraddistingue avere in Costituzione il diritto alla salute come diritto fondamentale, che si è tradotto in una copertura sanitaria universale: questa esperienza è importante, perché sappiamo che nel mondo invece ci sono inequità marcate fra i paesi e anche inequità crescenti all’interno dei paesi stessi. In alcuni rioni di New York ad esempio la mortalità materna è comparabile con quella delle isole caraibiche. A fronte di una inequità crescente, è importantissimo ribadire il diritto alla salute e all’accesso ai trattamenti e ai servizi come diritto individuale.
Ottimo, ma è facile obiettare che servono soldi.
Ovvio. Sul finanziamento dell’Oms la mia proposta è quella di continuare a espandere il gruppo dei Paesi donatori volontari, creando però anche meccanismi di finanziamento innovativo. Io dal 2014 sono anche vicepresidente di GAVI (Global Alliance for Vaccine Immunization), una partnership pubblico-privata che ha lo scopo di accelerare nei paesi poveri l’accesso ai vaccini. Anche attraverso queste esperienze ho visto come ci possano essere meccanismi innovativi di advance commitment, con Paesi attori e partner finanziatori: le faccio l’esempio del vaccino contro la polmonite, che anche l’Italia ha finanziato, questo advance commitment è il segnale che ci sono risorse per acquistare un tot di vaccini che poi attraverso l’alleanza vengono dati a trenta paesi. Questo ragionamento mi consente di arrivare a un secondo pilastro del programma, ovvero la capacità dell’Oms di rispondere alle emergenze sanitarie, come ebola e zika. È importante che i Paesi rinforzino la loro capacità di sorveglianza, che siano in grado di verificare e intercettare le nuove epidemie e allo stesso tempo che l’Oms sia in grado di dare risposte rapide e incisive. Questa riforma è partita con il virus ebola, ma c’è ancora da fare: una delle necessità è quella di creare le condizioni perché ci sia un finanziamento sostenibile dell’Oms. In una situazione di crisi è impensabile che l’Oms debba dare risposte e contemporaneamente ricercare i fondi per questo.
In alcuni rioni di New York ad esempio la mortalità materna è comparabile con quella delle isole caraibiche. A fronte di una inequità crescente, è importantissimo ribadire il diritto alla salute e all’accesso ai trattamenti e ai servizi come diritto individuale.
Ha fatto un cenno, ma era una domanda che volevo farle: che ruolo può avere la partnership fra pubblico e privato – non profit, ong e imprese – per raggiungere gli obiettivi di salute pubblica, equità, pieno accesso?
Ho creato e diretto la Partnership per la Salute Materna, Neonatale e Infantile come le dicevo queste esperienze che coinvolgono più attori sono strategiche perché nel mondo in cui viviamo nessun attore da solo può raggiungere i risultati a cui tendiamo. Bisogna coinvolgere più attori, ovviamente con delle regole. In Sudan abbiamo seguito una epidemia di meningite, forse saprà che c’è una cintura della meningite sotto il Sahara, con cicli ricorrenti ogni due o tre anni. Abbiamo fatto una partnership fra l’Oms, il Serum Institute of India, un’industria farmaceutica indiana e una ong e abbiamo fatto testare un vaccino per la meningite da meningococco batterico, abbiamo fatto studi e alla fine con quel trattamento disponibile abbiamo fatto la copertura vaccinale nell’area subsahariana, ottenendo quasi la caduta completa della meningite. Questo è un esempio concreto, che ha permesso all’Africa subsahariana di avere accesso a uno dei vaccini più importanti, nello spazio di pochi anni e con investimento modesti. Penso quindi che la collaborazione anche con aziende partner possa essere positiva, ovviamente non può essere la promozione di un’industria, devono esserci delle regole. Ma se si creano obiettivi di salute pubblica, coinvolgendo ong e privati, questo è un valore.
Nel 2015 sono scaduti i Millennium Develpoment Goals, oggi abbiamo i Sustainable Development Goals. Pensando alla salute si sono registrati alcuni importanti risultati positivi, ma i goal indicati non sono stati raggiunti. Che valore hanno questi impegni politici rispetto alla concreta opera per migliorare la salute nel mondo, in tutto il mondo?
Un punto importante è rafforzare il lavoro dell’Oms per indirizzare gli aspetti del cambiamento climatico sulla salute. Il mondo sta ragionando sul tema cambiamenti ambientali nella prospettiva della salute del pianeta, ma c’è anche un impatto sulla salute delle persone. È un concetto su cui ho lavorato molto durante i negoziati per l’accordo sul clima di Parigi, dobbiamo fare di più. Lo sa che le zanzare oggi trasmettono la malaria anche ad altezze dove prima non c’erano? Anche zika sembra sia collegato al fenomeno di El Niño nella regione tropicale. E poi ovviamente il cambiamento climatico impatta sulla salute anche tramite la siccità, la sicurezza alimentare, la qualità dell’aria e dell’acqua. Nel mondo ci sono 7 milioni di morti all’anno associati all’inquinamento atmosferico, è una priorità. Tornando al MDG e ai risultati ottenuti, dal 1990 al 2015 c’è stato un progresso nella riduzione della mortalità materno-infantile, che si è ridotta circa del 50% per entrambi. Il punto però adesso è che queste morti si concentrano nei paesi fragili, cioè in paesi instabili dal punto di vista politico, dove c’è un conflitto, dove ci sono popolazioni in movimento. Naturalmente questa attenzione è molto rafforzata dall’esperienza che porto fin’ora e credo che debba restare un punto di priorità, perché è solo quando bambino nasce sano e cresce sano si ha poi un adulto produttivo. È un investimento, perché per i paesi che stanno crescendo è fondamentale avere giovani adulti produttivi.
Una delle necessità è creare le condizioni perché ci sia un finanziamento sostenibile dell’Oms. In una situazione di crisi è impensabile che l’Oms debba dare risposte e contemporaneamente ricercare i fondi per poterlo fare. La mia proposta è di continuare a espandere il gruppo dei Paesi donatori volontari, creando però anche meccanismi di finanziamento innovativo.
Abbiamo parlato spesso di vaccini e in Italia questo è un tema molto caldo. Per farla semplice, ci sono paesi che aspirano a vaccinare e altri in cui fette crescenti di cittadini rifiutano i vaccini: come vede questa questione?
L’esitanza ai vaccini, non è solo dell’Italia. È un fenomeno relativamente recente, stimolato dai social su cui si diffondono informazioni completamente false, che però raggiungono genitori giovani e li convincono a non vaccinare i figli. L’Italia, per fortuna, ha debellato molti anni fa alcune malattie, quindi i giovani genitori non hanno più la paura della malattia. L’altra cosa da dire è che il concetto di “effetto gregge” non è intuitivo da comprendere. Io credo che la risposta in Italia si stia muovendo, però ci deve forse essere anche una campagna più mirata a far comprendere il valore del vaccino e i possibili danni del non vaccinare i bambini, per i propri figli e per gli altri bambini, in particolare per quelli che non possono vaccinarsi.
Proprio l’Oms di recente ha presentato dei dati inediti sulla violenza contro le donne, affermando che 1 donna su 3 nel mondo ha subito violenza. Anche questa è un’emergenza per la “sua” Oms?
La direzione che seguo si occupa di salute riproduttiva, salute materno-infantile, vaccini, invecchiamento, determinanti sociali e ambientali della salute, equità e diritto alla salute… è circa un terzo del volume dell’OMS, come budget e come personale. C’è anche la violenza sulle donne e nel 2016 per prima volta abbiamo avuto un piano d’azione globale discusso da tutti i paesi. Le garantisco che è stata una delle discussioni più difficili della mia carriera, tanti paesi su questo tema ancora negano, non esiste. Poi ci sono le difficoltà ad avere dati confrontabili, non c’è un sistema di sorveglianza comparabile. E anche quando il tema è riconosciuto, la risposta del sistema sanitario è spesso inadeguata: spesso le donne oggetto di violenza, soprattutto le giovani, si rivolgono al sistema sanitario, l’accesso c’è ma poi il sistema non ha la capacità di gestire la domanda, perché magari gli operatori sono in grado di gestire le complicanze immediate ma non quelle future, ad esempio la depressione che però si sviluppa nel medio periodo. Inoltre le risposte sanitarie vanno valutate e collegate al sistema sociale, nei nostri studi abbiamo visto che la violenza è ripetuta, ma se l’operatore sanitario non è in grado capire il perché della violenza, difficilmente potrà esser aiuto. È un tema scottante e difficile, molto.
Il mondo sta ragionando sul tema cambiamenti ambientali nella prospettiva della salute del pianeta, ma c’è anche un impatto sulla salute delle persone.
Lei viene da un’area di impegno estremamente interessante ma che spesso forse fatica presso l’opinione pubblica ad essere considerata strategica: cosa può portare di specifico la sua esperienza in questo settore?
Forse il nome può ingannare ma la direzione, come spiegavo prima, rappresenta circa un terzo del volume dell’Oms. E molti dei temi su cui lavoro da anni, come le ho detto, sono entrati nel mio programma, come strategici. In più ho la fortuna di aver lavorato in molti paesi del mondo, come pure nella Banca Mondiale, dove ho seguito gli investimenti in salute in diversi Paesi: è importante perché il tema dei finanziamenti, sia nei Paesi singoli sia per l’OMS sono uno degli aspetti più critici. Inoltre l’aver creato e gestito un’alleanza – ho citato le ong e il privato ma devo ricordare anche i professionisti della salute e l’accademia, come pure la constituency di giovani perché il coinvolgimento dei giovani nella loro salute e nella salute dei loro figli è importantissimo – mi ha dato la capacità di lavorare con gruppi diversi: questo è qualcosa che mi contraddistingue.
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