«Vivo insieme a tutta Taranto il disorientamento per questa ennesima drammatica notizia». Così l’arcivescovo della città pugliese, monsignor Filippo Santoro, 68 anni, barese, ha commentato l’ennesima morte sul lavoro nello stabilimento dell’Ilva: l’operaio venticinquenne Giacomo Campo, schiacciato tra il rullo e il nastro trasportatore nell'area esterna dell'Afo4 dello stabilimento. Ma le poche, scarne righe del comunicato ufficiale non possono certo rappresentare il dolore di quest’uomo, arrivato a Taranto meno di cinque anni fa ma già entrato nel cuore di tutti i cittadini per il suo coraggio e la sua vicinanza ai poveri, ai malati, agli operai, alle vittime di ogni ingiustizia. Una voce, la sua, che fin dall’arrivo nella città simbolo della voragine aperta tra ricerca esasperata del profitto e tutela della salute, si è levata senza timori a denunciare omissioni e negligenze e a proclamare che tra lavoro e ambiente non deve esistere un’alternativa.
Si era da poco insediato, a Pasqua 2012, ed entrando proprio all’Ilva per celebrare la messa con i lavoratori, aveva detto al patron Emilio Riva che aveva ancora negli occhi le facce dei bambini malati di cancro che aveva visitato poco prima all’ospedale Nord. Insomma, non certo un curiale (anche se è stato nominato da papa Francesco presidente della Commissione Lavoro e Problemi sociali della Cei); piuttosto un pastore di strada, che ben conosce l’odore delle pecore e ha imparato in 27 anni di ministero in Brasile che la Chiesa cresce a fianco dei poveri, cercandoli, ascoltandoli, e lottando pure la loro fianco, se necessario.
L’abbiamo incontrato prima dell’ultimo caso di cronaca, per cui i sindacati hanno proclamato un’ora di sciopero oggi mercoledì 21 settembre, mentre partecipava al seminario di studi del Movimento Cristiano Lavoratori. Ecco quello che ci ha raccontato, di sé e di come vede il suo ruolo di “vescovo popolare”.
Monsignor Santoro, che cos’ha la Chiesa da dire ai lavoratori (e ai disoccupati) italiani in questo momento di crisi che sembra non finire mai? Di aspettare e sperare?
Ma no. Innanzitutto la chiesa di papa Francesco ha messo al centro un tema che per i vescovi latinoamericani – e io mi ci metto dentro – è pane quotidiano almeno dal 2007, cioè dalla Conferenza di Aparecida nella quale il cardinale Bergoglio presiedette alla redazione del documento finale. Lo ricordo bene perché lavorammo insieme: lì si esplicita l’opzione preferenziale per i poveri, che del resto è scritta nel Vangelo e fa parte del percorso stesso scelto da Dio, che si è spogliato di tutto per essere come noi. I poveri, dunque, sono nel cuore della Chiesa, che profeticamente invita tutti a vincere l’individualismo e a costruire un mondo più solidale.
Come?
Gli atti di carità o di buona volontà sono importanti, ma non bastano. Occorre promuovere il lavoro come realizzazione della persona nella società e come manifestazione della sua dignità. Certo dobbiamo abituarci a pensare al lavoro in modo diverso, perché le garanzie sono minori e la flessibilità ci ha reso tutti meno sicuri, ed è indubbio che un’azienda debba fare profitto e produrre ricchezza. Ma esistono esempi già in atto dove la dimensione del lavoro si coniuga con la cura della casa comune e con una vera giustizia sociale. Potrei citare i progetto Policoro, promosso dalla Cei, ma non è certo l’unico.
in Brasile ho imparato a stare insieme ai poveri, ascoltandoli e abbracciandoli. L’ha fatto prima Gesù: da ricco che era, si è fatto povero per camminare con noi
Lei vive e svolge il suo ministero in una città “calda” come Taranto, dove si concentra una serie di emergenze legate alla giustizia, alla dignità delle persone e al rispetto dell’ambiente. Tanto che a chiunque verrebbe da pensare: qui non c’è molto spazio per le parole.
Da sole, le parole non bastano. Non a caso il papa continua a richiamare alla necessità di rivedere il modello di sviluppo, e più di una volta ha detto che l’economia, da sola, uccide. A Taranto mi è toccato di svolgere un lavoro di vigilanza nei confronti di situazioni contrarie alla dignità della persona e alla convivenza perché si è messo al centro il profitto e non la persona umana. Io non sono un politico (anche se è stato invitato da Renzi al Tavolo Istituzionale per Taranto insediatosi a Palazzo Chigi, ndr), sono un uomo di Chiesa, ma se leggo certi giudizi che dà il papa capisco che lui ha avuto il coraggio di fare delle proposte anche a livello internazionale, per esempio nell’enciclica Laudato si’. Quindi non bisogna avere paura di esprimere posizioni critiche.
Nel caso dell’Ilva, in effetti, lei non si è fatto pregare…
In questa vicenda si è creato un corto circuito: a fronte di obiettivi molto ben perseguiti, come per esempio quello di produrre un ottimo acciaio e di dare posti di lavoro alla gente, se ne sono ignorati altri, come il rapporto con la città, la salute delle persone, il rispetto dei quartieri e dell’ambiente. È mancata, insomma, quell’ecologia integrale di cui parla il papa, che non è solo produzione ma difesa del contesto e della sua storia. La Puglia è sempre stata sinonimo di agricoltura, artigianato, pesca, tradizioni e cultura. Tutti questi elementi sono stati dimenticati e traditi, e io ho visto, purtroppo, i frutti di questa dimenticanza: i malati di cancro, il dolore dei bambini, gli incidenti sul lavoro, l’inquinamento. Accanto a queste vittime, le altre: i padri di famiglia che hanno perso il lavoro, famiglie intere angosciate dalla chiusura di una fabbrica che dava loro la certezza per il futuro. Due drammi speculari che conosco bene.
Che fare allora? Come se ne esce?
La risposta della Chiesa è innanzitutto quella di essere vicina a chi soffre. Questa è la prima mossa. Poi si apre tutta la partita del dialogo e di come favorire un incontro tra le parti in causa. L’imparato in Brasile. Da quando sono a Taranto ho parlato con tutti, dalle autorità agli ambientalisti ai sindacati alla proprietà, e ho avanzato delle proposte, come per esempio la riduzione progressiva del ciclo completo del carbone, per non eliminare la produzione e non chiudere, e al tempo stesso proteggere l’ambiente. Vicinanza, concertazione, dialogo dove è possibile: sono le uniche strade che conosco.
La risposta della Chiesa è innanzitutto quella di essere vicina a chi soffre. Questa è la prima mossa. Poi si apre la partita del dialogo e di come favorire un incontro tra le parti
Lei ha citato il Brasile. Come aver vissuto questa esperienza l’ha aiutata nella difficile situazione che ha trovato nella sua diocesi italiana?
Mi ha aiutato tantissimo. In Brasile la vicinanza immediata della Chiesa a tutte le cause del popolo, e dei poveri in particolare, è pane quotidiano. Nel 2011 nel territorio della mia diocesi, a Petropolis, c’è stata una terribile alluvione che ha causato centinaia di morti e danni spaventosi. Dopo un mese, nessuno ne parlava più, e le persone venivano da me disperate perché non avevano più la casa e non sapevano a chi rivolgersi. Allora ho convocato un’assemblea popolare a cui hanno partecipato tutte le autorità dello Stato, ed è sorto il Frente Pro Petropolis, che è tuttora attivo, e ha dato il via alla ricostruzione. Insomma ho imparato a mettere insieme le persone e ad ascoltare tutti.
Ha fatto la stessa cosa anche per il progetto di riqualificazione della città vecchia di Taranto…
Per forza: ci abito anch’io! Svuotata, abbandonata, Taranto vecchia cade a pezzi, e il 60% degli immobili è di proprietà del Comune. Siccome non mi piaceva l’idea, che qualcuno aveva ventilato, di costruirci alberghi prima di sistemare le abitazioni, ho convocato un’assemblea popolare. C’erano il sindaco, gli architetti e le mamme del catechismo, le famiglie assistite dalla Caritas; poi ne abbiamo fatta un’altra a cui è venuto anche il governatore Emiliano. Una signora ha detto che in casa sua piove, un’altra ha portato tutti i figli chiedendo aiuto per comprare il latte. Adesso i progettisti dicono che bisogna ascoltare la gente…
È questa la chiesa di papa Francesco, secondo lei?
Certamente. Stare insieme ai poveri, ascoltandoli e abbracciandoli. Ma prima del papa l’ha fatto Gesù: da ricco che era, si è fatto povero per camminare con noi. Chi siamo noi per fare diversamente?
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