Marco d'Eramo

Fare un selfie al mondo: la condizione umana nell’età del turismo

di Marco Dotti

La plebe è plebea, il popolo populista, il multiculturalismo è una zuppa buona per tutte le occasioni e il turista inquina, sporca, devasta: siamo vittime di luoghi comuni e facilonerie che non sanno cogliere i profondi mutamenti che toccano le nostre vite e la nostra epoca. Ne parliamo con Marco d'Eramo

Siamo tutti turisti, ma tutti disprezziamo gli altri quando ci si presentano nelle vesti di turisti. Lo spiega Marco d’Eramo, giornalista, ricercatore, studi all'Ecole Pratique des Hautes Etudes, formatosi alla scuola di Pierre Bourdieu, nel suo ultimo libro, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo (Feltrinelli, 2017), che il turismo è una di quelle pratiche che accomunano tutta la società per permettere ai suo membri di dividersi, differenziarsi e disprezzarsi reciprocamente.

«I clienti dell’industria turistica», racconta d’Eramo, in un libro uscito da poco in Italia e che presto verrà tradotto per i tipi di Suhrkamp in Germania, Anagrama in Spagna e Verso per i Paesi di lingua inglese, «sono anche i suoi impiegati. Il turismo rivela la sua posizione nevralgica perché, come molte altre attività, ma in modo più chiaro rispetto a altre attività, è una pratica universale che consiste in questo: chiunque la pratica, disprezza gli altri che la praticano».

Nostalgia dell'autentico

Capisco sia un po’ informale parlare di un libro partendo dal fondo, ma c’è qualcosa di aperto e cruciale nel penultimo capitolo, “I menù della vita”, del tuo Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo (Feltrinelli, 2017). In particolare, nelle pagine dove si parla di “autenticità” e si introduce il discorso culinario in un ragionamento molto sottile sul turismo e le pratiche di distinzione…
Nel vocabolario critico-gastronomico della modernità poche parole giocano un ruolo importante quanto questa. “Autenticità”, spiega l’antropologo indiano Arjun Appadurai, misura o dovrebbe misurare il grado per cui qualcosa è più o meno quel che dovrebbe essere. Attenzione, però: l’autentico è un aggettivo comparativo, si stabilisce l’autentico in base a qualcos’altro, che definiamo inautentico. Ma nel momento in cui ci poniamo questo problema, già sappiamo che non c’è e, di conseguenza, siamo già caduti in un circolo vizioso, in una sorta di prigione mentale.

Chi stabilisce ciò che è autentico? I venditori, gli agricoltori, i cuochi, i consumatori?
Attento a non cadere anche tu nella trappola. Fa parte di un tipico gesto mentale del moderno situare l’autentico fuori di te. Per cui, nel momento in cui lo raggiungi, per forza di cose, lo rendi inautentico. È il grande tema hegeliano della dialettica della coscienza infelice. La coscienza sa che c’è l’autentico, ma sa che non lo può raggiungere. Per questo Hegel la chiama “devota” e “nostalgica”.

Siamo impregnati di nostalgia fino al midollo, quando mangiamo lo siamo ancora di più: ci tornano sapori, profumi, ricordi… Transitiamo nel mondo, nel tempo, nei ricordi. Ci viaggiamo attraverso…
Tutto il tema della nostalgia del futuro è esattamente questo: che cos’è il mondo raccontato al futuro anteriore se non la nostalgia per qualcosa di scomparso che è diventato auspicabile e irraggiungibile? È la perdita di cui parla Lévi-Strauss in questo passo memorabile di Tristes tropiques: «tra qualche centinaio di anni, in questo stesso luogo, un viaggiatore altrettanto disperato di me piangerà la scomparsa di quel che avrei potuto vedere e che mi è sfuggito. Vittima di una doppia infermità. Tutto quello che percepisco mi ferisce e mi rimprovera senza tregua di non guardare abbastanza». Nostalgia di futuro ma, come diceva Simone Signoret, anche la nostalgia non è più quella di una volta, «la nostalgie n'est plus ce quelle était».

Se devo cercare qualcosa di autentico, mi capita di andare nei mercati rionali. So di non trovarlo, ma è lì che lo cerco…
Il mercato rionale è, in un certo senso, un’altra nostalgia del futuro anteriore. I locali, gli insider, che cosa cercano al mercato? Cercano la qualità. Cercano il cibo buono. I turisti, gli outsider, da parte loro che cosa vogliono? Vogliono il cibo autentico.

Ricordiamo che, secondo l’OCSE, le spese in cibo dei turisti ammontano globalmente al 30% del totale delle loro spese di viaggio. Non una cifra indifferente, quindi. Anche perché il cibo può diventare non un semplice momento di pausa o ristoro nel viaggio, ma la ragione stessa del viaggio…
Si visita un Paese per vederne città e monumenti, ma anche per assaporarne la cucina, visitarne i mercati. In questo senso, gli anglosassoni hanno coniato un termine, foodway, “stile alimentare”, calcandolo sulla falsariga di way of life. Foodway significa non solo “mangiare”, ma in qualche modo compartecipare a un rapporto col cibo che non coinvolge solo ingredienti e ricette, ma modi, tempi, forme della presentazione, della preparazione, della ricerca, dell’esposizione e, ovviamente, del consumo di cibo. Tutte cose che vediamo all’opera in un mercato. Tra i banchi della frutta e della verdura, come nelle bancarelle che vendono cibo da consumare, il cosiddetto street food, la domanda è doppia: che cosa è buono? Che cos’è autentico? Oggi assistiamo a una rovesciamento della questione. Anche i locali cominciano a chiedere l’autentico.

Non si tratta di ragionare su benemerite iniziative di filiera corta, che riguardano ancora la qualità e, di conseguenza, ciò che è buono. Si tratta di capire che cosa spinge anche i locali, anche me, a cercare questo “autentico”. Chi stabilisce che un cibo è autentico, una cucina è autentica, un prodotto è autentico?
La questione è ancora più complicata, tanto che Arjun Appadurai parla di puzzle dell’autenticità, quando mettiamo davvero in rapporto qualità e autenticità: spesso ammettiamo che un cibo, per quanto inautentico, è buono, ma possiamo altrettanto facilmente dire che un cibo autentico può essere cattivo? Quando compriamo un pomodoro al mercato lo vogliamo buono, di qualità, o lo vogliamo “autentico”? Queste domande, quando eluse, ci fanno eludere anche la questione di fondo, che però nei mercati rionali vediamo nella sua forma attiva, sempre rimescolantesi, quindi sempre spiazzante per tutti noi: l’Altro non è assimilabile, l’Altro non è mai l’autentico.

Turismo in salsa multiculturale

Cibo e alterità: il rapporto sfiora il luogo comune, non si parla mai di cibo senza parlare di multiculturalismo…
Studiando il turismo gastronomico mi sono accorto che il discorso sul multiculturalismo usa solo metafore di quel tipo, metafore gastronomiche. Si parla di “società insalata”, “società maionese”, “società minestrone”… L’immagine più giuliva di multiculturalismo è quella che conosciamo tutti quando diciamo “stasera andiamo dal maghrebino e domani dal peruviano a cena”. La gastronomia non solo offre un terreno metaforico per il problema, ma anche un terreno metaforico per la soluzione. Se le società possono essere multiculturali, così come le città possono avere ristoranti di varie etnie o le cucine – come dice Amartya Sen a proposito del curry, inventato nelle caserme inglesi – si possono fondere allora diventa tutto più semplice.

Talvolta però si sfiora il comico…
La nozione di condimento si insinua ovunque, anche nella burocrazia. Pensa che c’è un progetto finanziato con fondi europei, intitolato “Ricette per preparare una zuppa culturale finlandese” (Recipes for making a cultural Finland soup). Una studiosa finlandese dell’Università di Helsinki, Salla Tuori, commenta: « la scelta delle parole è interessante. A livello generale, il titolo riflette il modo in cui il “multiculturalismo” è spesso addomesticato nel consumare “gli altri” attraverso cibo, musica e altri prodotti culturali, sia concretamente, sia metaforicamente (…) offrendo “ricette per una Finlandia multiculturale” suggerisce che il progetto può dare indicazioni esatte per un “multiculturalismo” di successo: il multiculturalismo può essere facile quanto cuocere una minestra».

I clienti dell’industria turistica sono anche i suoi impiegati. Il turismo rivela la sua posizione nevralgica perché, come molte altre attività, ma in modo più chiaro rispetto a altre attività, è una pratica universale che consiste in questo: chiunque la pratica, disprezza gli altri che la praticano

Marco d’Eramo

Zuppa totale

Nella società della mercificazione, l’etnicità diventa una merce al pari di una spezia…
Si insinua ovunque, pensa che per il progetto Recipes for making a cultural Finland soup le burocrati europee scrivono: «cara lettrice, noi qui abbiamo cotto una zuppa multiculturale per i gusti di chiunque. Le cuoche sono le nostre mentori. I principali ingredienti sono: prestare attenzione all’uguaglianza di genere, individuare i punti di forza e la capacità di ognuna, e una saggezza di buon senso. Le spezie sono i colori che le diverse cultura portano alla società finlandese e il sale in fondo è l’appoggio, l’aiuto reciproco».

La metafora culinaria fa passare l’idea che tutto sia semplice, che l’idillio sia dietro l’angolo e la società multiculturale il luogo di nessun conflitto.

Si crea una cucina etnica che è l’equivalente della musica etnica…
Questa cosa insinua un’idea (apparentemente) innocua e (apparentemente) innocente del multiculturalismo. Mentre se lo guardi a fondo, il multiculturalismo non funziona propriamente così, non è rose e fiori. Esistono fasi multiculturali nella società, ma spesso queste fasi vengono superate – pensiamo alla Sicilia e alla sua storia. La fase multiculturale è quella in cui c’è ancora un grumo di irriducibilità dell’alterità, ma è una fase transitoria. Il momento multiculturale è un momento transitorio di irriducibilità di due culture altre e il problema del multiculturalismo è che vuole fissare questa fase transitoria rendendola un regime politico stabile.

I teorici più estremi del multiculturalismo sono anche relativisti estremi, pensiamo a Chandran Kukathas che in The Liberal Archipelago: A Theory of Diversity and Freedom (Oxford University Press, 2003) arriva a dire che se dei genitori vogliono praticare una mutilazione genitale sui figli devono poterlo fare in virtù proprio del principio multiculturalista…
Io cito la battuta di Martin Hollis a questo proposito: «liberalismo per i liberali e cannibalismo per i cannibali». Una battuta geniale. Se porti il multiculturalismo all’estremo, l’estremo è questa faciloneria regressiva.

La critica alla faciloneria percorre tutto Il selfie del mondo. Pensiamo alle critiche del turismo come mero consumo di massa…
Che cosa dovrebbe fare la gente? L’alternativa qual è? Perché la gente non dovrebbe viaggiare nel tempo libero? Non dovrebbe avere tempo libero? Quelli che deprecano il turismo, che soluzione alternativa hanno?

Anche sul populismo, oggi, si usa la stessa faciloneria. Tu hai scritto un importante saggio su questo tema, apparso sulla New Left Review e su Micromega…
Questo saggio e questo libro hanno in comune un atteggiamento di fondo: lo schierarsi assieme alla plebe.

Sei tacciabile di populismo anche tu, lo sai?
È tornato di moda dire che il volgo è volgare, che la plebe è plebea, che gli americani ignoranti scelgono Trump mentre quelli colti e saggi e molto intelligenti votano per la Clinton o la plebaglia inglese sceglie la Brexit… Il risultato finale, con la scusa che non ci sono più le classi, è che la colpa è sempre della plebe.

Tornano gli snob

Quando c’era il proletariato di mezzo, ci si poteva scagliare facilmente contro il lumpenproletariat, il popolo degli straccioni e al tempo stesso vantarsi di “servir al pueblo”…
Pensa alla Scuola Francoforte, che è improntata a tutta questa retorica. Adorno poteva essere considerato dalla parte del proletariato, perché tanto se la prendeva solo con i piccoli borghesi e con i sottoproletari plebei. Togli di mezzo le classi, ai tanti “adorno” di oggi non resta che odio e disprezzo per la gente. Questa aristocrazia d’accatto esce fuori e si manifesta nella critica pelosa del turismo.

Perché è tanto deprecato il turismo?
Perché viene caricato di tutti i mali che sono propri della società capitalistica industriale moderna.

Il turismo mercifica…
Perché, dimmi, tutto il resto non mercifica? “Il turismo aliena, il turismo è di massa, il turismo inquina, il turismo deturpa”… Tutte cose che sono la modernità, né più né meno, ma vengono individuate solo lì. E poi c’è una questione sottile: parlare male dell’altro, a destra lo si può fare parlando male dell’immigrato. A sinistra, invece, si trovano altri bersagli. A sinistra, l’unico modo che resta per parlare male dell’altro è parlare male del turista. Senza che questa sinistra faccia mai davvero i conti con l’altro…

Parlare male dell’altro, a destra lo si può fare parlando male dell’immigrato. A sinistra, invece, si trovano altri bersagli. A sinistra, l’unico modo che resta per parlare male dell’altro è parlare male del turista. Senza che questa sinistra faccia mai davvero i conti con l’altro…

Marco d’Eramo

Situazione sociale totale

Possiamo dire che il turismo è una condizione umana? In fondo, tu parli di età del turismo..
Il turismo non è una condizione umana, è una situazione. In un momento sei turista, in un altro momento non lo sei. Mentre quando disprezzi il turista, lo rendi un tipo umano, come un carattere di Teofrasto: l’avaro, il burbero, l’iracondo e il turista. È questo che ti permette di distinguere dicendo “io sono viaggiatore, tu sei turista”. Però la questione ha un fondo di verità, perché siamo costantemente dei turisti anche nella vita quotidiana. Questa situazione è così pervasiva e designa a tal punto l’epoca perché è un nostro modo di stare al mondo, un nostro modo di vivere questo mondo anche quando siamo nella nostra città. È sempre un doppio movimento, di distanziazione e avvicinamento.

Nel libro su Chicago, Il maiale e il grattacielo, l’avevi già notato…
Lì mi accorsi che la rivoluzione dei mezzi pubblici, avvicinando tutti i quartieri grazie agli spostamenti a basso costo, aveva permesso alle élites di allontanare da sé i dipendenti e il personale di servizio, che poteva andare a vivere in un posto separato. A Parigi nascono così le banlieues ouvrières: perché il trasporto pubblico permette di segregare le classi. Il trasporto avvicina e lontana: avvicina la geografia e allontana la società. È un fenomeno che si ripete in continuazione, anche con internet. Mentre internet ci avvicina, ad esempio, a una persona che sta a Sidney se parlo con lei via skype, poiché il tempo umano è un tempo limitato, il tempo di questo avvicinamento è anche un distanziamento…

Perché sottraggo tempo ai rapporti con i vicini di casa, ad esempio…
Inoltre, se sono un architetto a Roma e parlo con qualcuno a Melbourne, probabilmente quel qualcuno sarà un architetto, non una persona che casualmente vive nel mio quartiere. Ancora una volta, l’avvicinamento crea segregazione, crea nicchie, crea bolle. Ossia distanze. Questo doppio movimento di avvicinamento e spiazzamento lo vediamo su di noi, quando capiamo di saperci muovere meglio in un quartiere di Parigi o Londra, anziché nel quartiere dove viviamo. Ecco perché la situazione del turista è una situazione che penetra anche nella vita quotidiana. A Copenaghen l’hanno capito, togliendo dai cartelli la dizione “turista”, sostituita da quella di “cittadini non residenti”. Il modo di essere turisti che c’è oggi è spia di un modo di esistere in mutamento, un modo che già in parte incorpora la dimensione turistica.

D’altra parte, le condizioni per questo turismo – ossia il turismo salariato, che “costruisce” le ferie o le pensioni: e la maggior parte dei turisti odierni sono persone in ferie o pensionati – tende a scomparire, poiché scompare la condizione salariata o, quanto meno, quella garantita da diritti…
Siamo diventati tutti turisti esattamente come parlavamo ai telefonini le prime volte che li avevamo tra le mani. Non si chiamava per dire qualcosa, ma per telefonare, per dire “ci sono”, “io sono a Firenze, ciao”. L’impensabile era diventato alla nostra portata e ha cambiato il modo di vivere di tutti i giorni. Lo stesso accadrà col turismo. Anzi, è già accaduto. La situazione di un’umanità nomade è già qui: questa precarietà stabile e stabilità precaria è la nostra, nuova condizione di vita.

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