Da quel 25 agosto 2014 quando la nave Phoenix è salpata dal porto di Malta, Moas (Migrant Offshore Aid Station) la prima organizzazione internazionale non governativa che ha intrapreso operazioni di ricerca e soccorso in mare nel Mediterraneo non ha mai smesso di assistere le popolazioni più vulnerabili nel mondo. Dopo aver salvato 40 mila vite umane nel Mediterraneo centrale tra il 2014 e il 2017, ha concentrato parte della propria attività in Bangladesh per assistere oltre 90 mila rifugiati Rohingya. E dal 2019 spedisce in Yemen aiuti nutrizionali e farmaceutici alle comunità colpite da guerre e carestie. Regina Catrambone, la cofondatrice e direttrice di Moas, intervistata da Vita ci guida attraverso i progetti presenti e futuri della prima Ong che ha fatto del soccorso in mare la sua vocazione. Con uno sguardo attento a quel mare che continua ad inghiottire vite umane e con centinaia di migliaia di persone che continuano a bussare alle porte di «un’Europa che rimane cieca e sorda». Persone in fuga dall’inferno libico «dove uomini, donne e bambini sono stipati da mesi o addirittura anni senza nessuna dignità umana». Davanti a questo scenario che continua a ripresentarsi la soluzione per Moas non può che essere quella di vie sicure e legali. Ricordandoci che «Da soli non si va da nessuna parte».
Moas è stata la prima Ong che ha fatto del soccorso in mare la sua missione. Come guarda oggi le stragi del Mediterraneo e le partenze di migliaia di esseri umani che, nonostante le politiche, non si arrestano?
«Dall’inizio del 2020 a oggi sono state 20.846 le persone migranti che hanno raggiunto l’Europa attraverso il Mediterraneo. Secondo i dati del Viminale, dal 1 gennaio al 1 di giugno 2020 i migranti sbarcati in Italia sono 5.119, di cui 1654 nel solo mese di maggio. Questi numeri dimostrano come le persone più vulnerabili continuano a cercare una via di fuga, affidandosi a spietati trafficanti di esseri umani e rischiando la vita in mare. Seppur nel pieno dell’emergenza pandemica da Covid19, i viaggi della speranza non si sono mai fermati, sia nel Mediterraneo Centrale che nell’Egeo. In Libia le condizioni sono terribili. Centinaia di persone sono stipate da mesi o addirittura anni senza nessuna dignità umana. L’introduzione di misure restrittive per rallentare la diffusione dei contagi, in una situazione di conflitto, risulta quindi poco efficace soprattutto tra gli sfollati interni e i circa 700.000 migranti e rifugiati presenti in Libia. Gli spazi in cui le persone migranti vengono detenute in condizioni tragiche e disperate rischiano di trasformarsi in focolai di contagio. Nei campi sovraffollati e nei centri manca un accesso adeguato all’assistenza medica, all’acqua pulita e a servizi igienico-sanitari. Il Paese, come lo Yemen e la Siria, oltre ad avere un sistema sanitario strutturalmente impreparato nell’affrontare l’epidemia, è devastato da una guerra che non conosce tregua. I pochi ospedali ancora attivi nell’ultimo periodo hanno subito i pesanti attacchi dei bombardamenti. Nonostante l’appello delle Nazioni Unite per il cessate il fuoco per facilitare il contrasto al Covid19 gli scontri si sono intensificati nelle ultime settimane. Anche in Siria il rischio che la pandemia si propaghi potrebbe far precipitare il Paese in una drammatica catastrofe. Il conflitto siriano, che dura ormai da oltre 9 anni, ha causato la distruzione del 50% delle strutture sanitarie e la mancanza di medici e del personale sanitario, che hanno perso la propria vita sotto le macerie o che sono stati costretti ad abbandonare il Paese. Lo scenario peggiore è quello che si prospetta per la regione di Idlib, nel nord-ovest del Paese, dove ancora i combattimenti non accennano ad avere sosta, e all’interno dei campi profughi, dove a causa del sovraffollamento e delle scarse condizioni igieniche, è impossibile adottare misure di distanziamento sociale per il contenimento del contagio per centinaia di migliaia di persone. Una situazione che peggiora di giorno in giorno a causa della chiusura delle frontiere e dell’accesso limitato all’interno dei campi degli operatori umanitari per fornire beni di prima necessità e servizi per l’igiene personale. A ciò si aggiungono le sanzioni internazionali che gravano sul Paese e che impediscono l’approvvigionamento di beni alimentari e di farmaci.Nonostante la più ampia diffusione del Coronavirus in Europa, le drammatiche situazioni di questi Paesi non lasciano alcuna alternativa alla fuga. Intanto la situazione nel Mediterraneo si fa sempre più complessa e le chiusure dell’Europa diventano sempre più nette. Le persone migranti continuano a bussare alle porte dell’Europa che rimane cieca e sorda invece di tutelarne i diritti fondamentali e, al tempo stesso, di limitare il numero di nuovi contagi. Nessuno dovrebbe morire in mare in cerca di salvezza. Per questo motivo Moas crede che una delle soluzioni a medio-lungo termine sia l’implementazione delle vie sicure e legali per l’accesso in Europa».
Quali progetti e azioni ha messo in campo Moas per contrastare il Covid-19?
«Non appena è scoppiata la pandemia, Moas ha immediatamente messo in campo il suo approccio innovativo e la sua capacità di rapida riconversione per avviare una serie di risposte umanitarie efficaci per l’emergenza COVID19 in Bangladesh e a Malta.Consapevole delle difficoltà nell’attuazione delle misure di contenimento del virus, in Bangladesh abbiamo trasformato il nostro workshop, originariamente creato per la produzione di piccoli equipaggiamenti per il salvataggio in acqua, in area destinata alla produzione di mascherine di cotone ecologiche e riutilizzabili. Abbiamo coinvolto 70 sarti del luogo, includendo un’alta percentuale di donne, che lavorano nel centro di produzione o da casa permettendogli di ricevere una remunerazione per il sostentamento delle loro famiglie. L’acquisto tutti i materiali necessari per la produzione delle mascherine avviene in aziende locali per supportare ulteriormente la comunità ospitante durante questo difficile periodo. Grazie al loro impegno e alla loro dedizione sono state prodotte e distribuite più di 94.000 mascherine, un numero sempre in crescita giorno dopo giorno. In quanto parte del Joint Response Plan, stiamo espandendo l’iniziativa per produrre nei prossimi mesi oltre 500.000 mascherine in maniera autonoma e ulteriori 200.000 in coordinamento con IOM. Abbiamo lanciato il Moas Mask Project anche a Malta per i numerosi richiedenti asilo e rifugiati ospitati in centri sovraffollati. Grazie all’entusiasmante risposta dei 140 volontari dell’isola e al loro instancabile lavoro siamo riusciti a produrre circa 7000 mascherine, lavabili e riutilizzabili nel rispetto dell’ambiente. Oltre alla preoccupazione per le misure di prevenzione per combattere la diffusione del virus stiamo prestando attenzione all’accesso all’istruzione. I centri sono in lockdown a causa del coronavirus. I bambini che vivono in questi centri con le loro famiglie si trovano a non avere più garantito l’accesso alla pubblica istruzione. Mentre in molte scuole l’apprendimento viene assicurato attraverso l’uso di piattaforme online, i bambini e le famiglie che vivono all’interno dei centri per i rifugiati, non avendo alcun accesso a computer o dispositivi elettronici e avendo una limitata connessione Internet condivisa, rischiano di non poter accedere all’apprendimento a distanza e di essere ulteriormente emarginati. Per questo motivo MOAS ha lanciato il Malta Remote Learning Project che mira, attraverso la distribuzione di tablet e modem per ognuna delle 40 famiglie, a garantire il diritto all’istruzione. Oltre a tablet e modem stiamo pensando anche di fornire dei corsi di inglese e un supporto tecnico per l’utilizzo dei dispositivi e dei programmi di apprendimento a distanza da svolgere durante l’estate».
Qual è oggi il ruolo e l'importanza strategica di Malta nel Mediterraneo?
«Negli ultimi due anni il numero degli sbarchi sul suolo maltese è aumentato e solo nel 2019 le persone soccorse in mare sono state 3.406 (UNHCR). Secondo l’UNHCR, l'afflusso netto stimato di arrivi, al 30 aprile 2020 era di 1201 migranti. Malta, come Lampedusa, per la sua posizione geografica, rappresenta una delle porte di accesso all’Europa. Il suo ruolo e la sua responsabilità nella gestione della questione migratoria nel Mediterraneo sono di grande importanza. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che Malta, come l’Italia, la Spagna e la Grecia, sono parte di un’unione che è l’Unione Europea. Oggi è impossibile pensare che un singolo Stato possa affrontare da solo le questioni di un mondo sempre più complesso e globalizzato. Per questo motivo spero che l’Unione Europea possa avere una prospettiva lungimirante e umana in merito a un fenomeno che non è emergenziale ma strutturale e che nei prossimi anni non potrà che avere un peso sempre più determinante. Da soli non si va da nessuna parte».
Davanti alle varie chiusure a causa del Coronavirus il Governo maltese sulla scia di quello italiano ha deciso di utilizzare la soluzione delle navi quarantena per i migranti. Decisioni che sono seguite alla strage di Pasquetta e con un ragazzo di 23 anni che si è gettato da una delle navi traghetto nel disperato tentativo di raggiungere la costa a nuoto. Come valuta questo esprimento?
«La pandemia di Coronavirus ha preso tutti alla sprovvista, ha costretto i governi europei ad affrontare delle situazioni non prevedibili e ad adottare delle decisioni in gravi condizioni di emergenza. Reputo che sarebbe stato più dignitoso per delle persone che avevano già affrontato situazioni drammatiche e un viaggio traumatico individuare differenti soluzioni. Penso ad esempio al collocamento in centri sulla terraferma secondo le prescrizioni di sicurezza e di distanziamento sociale in vigore in ogni singolo Stato, dato che la nave sulla quale si trovava il ragazzo che ha perso la vita in acqua era ancorata a pochi metri dalla costa italiana».
Moas come guarda al futuro post pandemia?
«La pandemia ad oggi ha, senza alcun dubbio, causato la morte di oltre 378.000 persone nel mondo e ha reso ancor più complicate situazioni già precedentemente drammatiche, sia tra le comunità più vulnerabili del mondo che nei Paesi occidentali. Da questo momento difficile e traumatico possiamo, però, trarre degli insegnamenti e dei miglioramenti. Dopo il blocco del lockdown, dopo esserci fermati, stiamo lentamente ripartendo. Potremmo cogliere questa nuova fase come opportunità per contribuire a creare un futuro migliore fondato sul valore della solidarietà, sulla riscoperta di un senso comune di umanità, sulla costruzione di un mondo economicamente ed ecologicamente più sostenibile ricordandoci che siamo tutti pezzi di uno stesso puzzle».
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