Al secondo piano del Mater Dei Hospital di Malta, in una stanza ampia dalle pareti bianche con un televisore e un piccolo crocefisso di plastica appeso al centro c’è Brhane con il suo sorriso luminoso che si irradia dal suo corpo esile e dal pigiama verde chiaro di qualche taglia più grande. Brhane, 19 anni, eritreo (e non 17enne etiope come scritto da diverse testate nazionali) è il ragazzo della foto che sui social è stata battezzata come la Pietà del Mediterraneo, scattata il 5 luglio dal comandante della nave libanese porta bestiame Talia e che ritrae Brhane, più che mai denutrito e privo di forze, nelle braccia del marinaio siriano Alì Bib che lo ha accompagnato verso le motovedette delle Forze armate maltesi dove è stato evacuato insieme a un altro ragazzo eritreo due giorni prima dello sbarco dei 50 naufraghi soccorsi dalla nave cargo capitanata dal coraggioso comandante Mohammad Shaaban.
E mentre la nave che trasporta animali è tornata in mare per rifornirsi di un altro carico di bestiame, quei due giovani ragazzi eritrei ricevono tutte le cure necessarie dai medici e dagli infermieri che li lasciano riposare per riprendersi pian piano dal lungo viaggio e dalle torture che hanno subito nei centri di detenzione in Libia.
Ad incontrare Brhane e Jerome – il nome del ragazzo minorenne è di fantasia – è stata Regina Catrambone, la direttrice e fondatrice di Moas che con la sua Ong a seguito di uno sbarco ad aprile 2019 presta assistenza in ospedale ai migranti che arrivano sull’isola. In quelle stanze ora piene di igienizzanti per la mani Moas di ragazzi bisognosi di aiuto ne ha incontrati tanti provvedendo a fornire ad ognuno di loro un kit con beni di prima necessità e per l’igiene personale, dal bagnoschiuma a uno spazzolino a una felpa.
Brhane e Regina Catrambone si incontrano per la seconda volta nell’arco di una settimana, oggi con un mediatore culturale eritreo per poter comunicare meglio e andare oltre quell’abbraccio che in genere una mamma riserva ai propri figli. «Ero solo al mondo», esordisce Brhane, con l’ago della flebo al polso quando sta riprendendo a mangiare pasti un po’ più solidi. Da un piccolo villaggio dell’Eritrea, Brhane orfano di entrambi i genitori, era partito con i suoi tre più cari amici per raggiungere il «Nord» e sfuggire in base a quel patto fatto con i suoi stessi amici alla povertà. Dall’Etiopia è arrivato in Sudan dove è stato catturato dai trafficanti che lo hanno portato in Libia a sua insaputa. Brhane scoppia a piangere. Non sa come sia riuscito a sopravvivere. «Non avevo soldi e chi arriva in Libia e non ha soldi viene venduto come schiavo. Sono stato venduto due volte e trattato peggio di un animale. Nelle due prigioni dove sono stato mi torturavano, ci tenevano a testa in giù con le caviglie legate e ci picchiavano con il bastone e con la coda del fucile sulle gambe. Non ho mangiato per 11 giorni. E oggi quando vedo del cibo ho paura, perché quando ci davano da mangiare pasta-maccheroni subito dopo ci picchiavano». Brhane piange, ma vuole essere ascoltato anche solo per ricordare quei tre amici, che per lui erano dei fratelli, morti tra quegli stessi lager dove ha subito le torture oggi più che mai riconoscibili dalle cicatrici sparse sulle sue gambe.
Regina gli stringe la mano «sei stato miracolato», sussurra mentre capisce che in quella stanza di ospedale oggi il ragazzo della Pietà si sente al sicuro. «In Eritrea non ho potuto studiare, facevo dei piccoli lavoretti, ma vorrei conoscere l’Inglese» dice alla fondatrice di Moas che nel momento in cui Brhane esprime il suo desiderio ha già organizzato un corso di lingua per lui.
In un’altra stanza c’è Jerome, l’altro ragazzo evacauto dalla nave Talia con Brhane. Jerome aveva 13 anni quando è partito e le sue gambe sono anch’esse ricoperte dell’orrore dell’inferno dei lager libici. Quegli stessi lager, come li ha chiamati Papa Francesco, di cui siamo perfettamente a conoscenza e di cui ancora – dopo anni di testimonianze documentate – né l’Europa, né il mondo civilizzato per intero è riuscito a trovare una soluzione. «Sono solo al mondo», dice Brhane ed è questa la frase più ricorrente pronunciata da questi ragazzi che durante il viaggio della speranza sono arrivati a pesare trenta, forse trentacinque chili. Come era accaduto con Segen, il ragazzo eritreo soccorso da Open Arms e morto dopo il suo sbarco a Pozzallo il 12 marzo 2018. Segen ci aveva lasciato delle poesie – pubblicate in esclusiva da Vita – in cui affidandosi a Dio scriveva «Nessuno mi aiuta e neanche mi consola».
Nel caso di Brhane, che è sopravvissuto, e nel caso di Segen l’eredità della parola biblica ci viene incontro. Brhane sopravvissuto all’inferno dei centri di tortura libici e soccorso da una nave che trasporta animali. E l’incontro con una Ong, Moas, che ci fa andare oltre la mediaticità di una foto semplicemente chiedendosi dove vanno queste persone una volta che sono sbarcate. Per non sentirsi mai più soli al mondo.
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