Inclusione lavorativa

Ero ricco, sono finito in carcere per l’eroina: il lavoro mi salverà

di Luigi Alfonso

Un ex imprenditore cagliaritano è caduto in disgrazia a causa della dipendenza dalla droga nella quale si era rifugiato dopo alcuni tristi accadimenti familiari. In carcere ha capito di aver toccato il fondo. Ora è disintossicato e, grazie a un progetto di inclusione, cerca il riscatto. Per se stesso e per la figlia da ritrovare

«Avevo tutto: un’azienda leader nel settore della vetreria industriale, fondata con mio padre Vittorio; tanti soldi, che mi permettevano di acquistare vetture sportive molto costose. Vivevo nel lusso, insomma. Poi, tutto a un tratto, è cambiata la mia vita: è morto all’improvviso mio padre, due mesi dopo pure il mio fratello maggiore. Come se non bastasse, sono sorti problemi in famiglia. Ho trovato nell’eroina una via di fuga che mi ha fatto precipitare nel baratro. Inevitabilmente, ho commesso alcuni reati legati alla droga e sono stato arrestato e condannato a 4 anni e 8 mesi di reclusione». Stefano Garau, 59enne di Cagliari, non ha alcun problema a raccontarsi. Ci mette la faccia, nella speranza di poter essere da monito per altre persone.

Ora attende con trepidazione la certificazione dell’invalidità in base alla legge n. 68 del 1999. «Ho una leggera zoppìa dovuta a un’artrosi deformante a un piede, e poi problemi alla colonna vertebrale e un’insufficienza varicosa alle gambe. L’Inps mi ha riconosciuto il 47% d’invalidità, il minimo sufficiente per essere inserito nelle liste protette. Dalla visita cui sono stato sottoposto, passeranno al massimo 60 giorni, dunque confido di ricevere buone notizie entro la fine di luglio. Non sto nella pelle».

Il perché è presto detto. Una volta condotto nel carcere di Uta, a pochi chilometri dal capoluogo sardo, Garau ha deciso che era arrivato il momento di voltare pagina. Senza tentennamenti. «Ho ripreso la mia vita in mano», spiega. «Dopo anni di girovagare per la comunità di recupero, sia in Sardegna che nella penisola, non avevo trovato il modo per tirarmi fuori dalla dipendenza. Ero davvero ridotto male, io stesso mi rendevo conto che ero diventato una brutta persona. Avevo perso non solo le cose materiali ma anche gli affetti: mia moglie, mia figlia, gli amici. In carcere mi sono guardato allo specchio e ho comunicato alla direzione che non intendevo proseguire con la terapia di disintossicazione: basta con le droghe ma anche con i farmaci e con tutto ciò che non è prodotto dal mio corpo. All’inizio non avevano compreso la mia decisione, sembrava che fosse soltanto un gesto di ribellione. Mi hanno pure richiamato più volte. Poi si sono arresi, forse perché hanno visto la mia determinazione. Da cinque anni sto bene, ho pure ripreso la mia forma: peso 105 chili, ero arrivato a soli 54 nel pieno della mia crisi: io, che sono alto un metro e 84, ero davvero irriconoscibile. Lo shock dell’ingresso in carcere, avvenuto per la prima volta a 54 anni, mi ha svegliato di colpo. Non avevo neppure i soldi per comprare le sigarette».

Il 30 settembre 2022 è stato scarcerato in anticipo, per buona condotta. Ma il vero colpo di fortuna è arrivato quando la cooperativa sociale Elan di Cagliari ha proposto un progetto nell’istituto minorile di Quartucciu e nella Casa circondariale di Uta, al quale ha partecipato anche Garau. L’iniziativa è denominata “Lav(or)ando”, un gioco di parole che mette in risalto il ruolo centrale che hanno giocato le lavanderie industriali all’interno delle due strutture. «Il progetto, sostenuto dalla Fondazione Con il Sud, è stato avviato nella primavera del 2020 ed è nato per favorire il recupero sociale e dare un’occasione di riscatto a ventiquattro persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi, attraverso il loro inserimento nelle lavanderie di Uta e Quartucciu e, a seguire, in imprese del territorio disponibili ad accoglierli», spiega Elenia Carrus, vicepresidente e responsabile dell’area inclusione della cooperativa sociale Elan. «Il nostro obiettivo è quello di sensibilizzare il tessuto imprenditoriale sul tema dell’inclusione socio-lavorativa delle persone detenute. Sinora hanno aderito sei imprese che approvano i princìpi dell’economia civile e si riconoscono nei valori espressi dalla Carta di Firenze dell’Economia civile: il Tecnocasic (una Spa a compartecipazione pubblica), la Fondazione Domus De Luna (che gestisce l’Oasi Wwf di Monte Arcosu), la Kimera cooperativa sociale e la Quattro Mori Srl del gruppo Conad: sono aziende ospitanti ma non hanno ancora formalizzato la loro adesione al marchio. Intanto lavoriamo in collaborazione con l’Aidda, l’Associazione di donne imprenditrici e dirigenti d’azienda».

Il marchio etico solidale “Lav(or)ando 100% inclusione sociale” è stato depositato presso il ministero delle Imprese e del made in Italy. Favorisce il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030, punta a favorire il superamento dei processi di esclusione sociale dei detenuti e aumentare il livello di sicurezza sociale collettiva collegata al calo del tasso di criminalità e di recidiva. Tra gli obiettivi anche l’accrescimento della sensibilità verso il tema dell’inclusione della responsabilità sociale d’impresa e la riduzione della spesa pubblica e dei costi sociali ed economici di un detenuto.

Stefano Garau aveva chiesto di poter lavorare durante la detenzione. L’anno scorso è stato inserito in un tirocinio al Tecnocasic di Macchiareddu, grazie al progetto Lav(or)ando e alla disponibilità dell’amministratore unico Sandro Anedda e il direttore delle risorse umane Antonio Pili.

«Un tempo ero impresentabile, capisco perché mia figlia sia arrivata a levarmi il saluto. Ma spero che, con il tempo, riesca a perdonarmi e comprendere lo sforzo che sto facendo. Non perdo la fiducia. Oggi ha 28 anni, la maturità la aiuterà a valutare la situazione. Sono tornato quello di un tempo, la vera comunità è stato il carcere: mi ha dato la giusta consapevolezza di ciò che ero diventato. Ma la vera fortuna è stata la cooperativa Elan: i suoi operatori mi hanno preso per mano e indicato la strada. Senza di loro, non so francamente se sarei riuscito a risollevarmi».

Da settembre, e in attesa di poter essere assunto dal Tecnocasic, Garau è ospite di una residenza del sistema di accoglienza a bassa soglia, a Cagliari. Di lui ora si stanno occupando anche la Caritas e i servizi sociali del Comune. «Non ho un lavoro, al momento, dunque non ho i soldi nemmeno per invitare una pizza alla mia nuova compagna. Spero di poter ritrovare in pieno la mia dignità di uomo. Il Tecnocasic, dopo la Saras, in Sardegna è una delle aziende più importanti a livello industriale. Per me è un onore avere questa opportunità. Devo ringraziare il direttore generale, Stefania Lecca, perché è una manager competente ma anche una persona con una spiccata sensibilità».

È la stessa Lecca a spiegare i motivi di questa assunzione, Inps permettendo. «Ho cercato di improntare la mia azione attraverso un’empatia diffusa nei confronti di tutti i lavoratori del Tecnocasic, compreso Stefano. All’interno dell’azienda bisogna stare bene, dunque occorre creare una fiducia che poi ci portiamo anche a casa. In tutto questo vedo ricadute di comunità sociale, ecco perché curiamo il rapporto con il personale, compreso quello a tempo determinato. Come compartecipata pubblica possiamo selezionare il personale soltanto attraverso bandi pubblici oppure attingendo dalle liste della legge 68: nel caso di Garau, questa è l’unica opportunità di inserimento lavorativo. Siamo rimasti soddisfatti di ciò che ha fatto nei nove mesi di tirocinio da noi: uno da detenuto e otto da persona libera. È stato impiegato sia al centralino che all’accettazione, dunque nel front office del Tecnocasic. Si è rivelato un uomo educatissimo, cordiale, che sa esprimersi molto bene e mostra empatia. Una persona splendida. Siamo pronti ad aderire ad altri progetti di inserimento lavorativo, in modo che altre persone svantaggiate possano fare un percorso come questo».

«Che cosa mi resta di tutta questa esperienza? A parte la disperazione, che ogni tanto riaffiora, ho capito che non devo usare sostanze», è la riflessione di Stefano Garau. «È la mia vita che dimostra che posso fare qualunque cosa, se non sono dipendente da quelle porcherie. Il mio carattere forte mi sta sorreggendo, ma non potrò mai dimenticare l’aiuto che Elan e la Caritas mi hanno dato in carcere. La responsabile del magazzino del carcere di Uta (Donatella Barella, zia del calciatore Nicolò Barella, ndr) per me è stata una seconda mamma. E l'operatore di Elan, Giacome Loche, un vero fratello. Smettere di drogarsi durante la detenzione è difficilissimo per tutti. Ho pensato a mio padre, di sicuro mi avrebbe rimproverato. Di certo, il sistema penitenziario italiano non aiuta a redimersi».

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