Condivisione e reciprocità sono solo alcuni dei valori che impariamo fra i banchi di scuola, principi di socialità che la didattica a distanza, in pieno lockdown, ha cercato di garantire il più possibile agli studenti. Per alcuni ragazzi le lezioni virtuali hanno interrotto dei veri e propri percorsi di inclusione, finalizzati a ridurre la loro distanza emotiva e farli sentire parte della realtà.
Come spiegare per esempio a uno studente disabile perché da un giorno all’altro tutti i suoi compagni non vanno a scuola? Come aiutarlo a vivere la didattica a distanza senza emarginazione? Ci ha provato Enrico Albenzio, giovane insegnante di sostegno e pedagogista veneto dell'Istituto paritario superiore per l'enogastronomia- ISE- Dieffe di Padova, che ha trascorso questi mesi rimboccandosi le maniche e impastando il pane insieme a un suo alunno.
«A un certo punto mi sono accorto che tutti i vari compitini e le strategie pedagogiche non servivano più, il ragazzo era stanco e dopo vari tentativi smetteva di rispondere, si disconnetteva e usciva di casa», racconta Enrico Albenzio. Uno dei problemi dell’inclusione sociale è che spesso si rischia di generalizzare i disabili nelle migliori delle intenzioni, facendogli vivere una normalità comunemente accettata, senza tenere conto dei loro desideri e delle loro preoccupazioni. La didattica a distanza durante il lockdown, impersonale e poco interattiva, non riesce a considerare in tal senso alcuni suoi studenti e rischiava di aumentare ancor più le distanze tra il maestro Albenzio e lo studente. «La famiglia era disperata – afferma – mi chiamava dicendo che il figlio usciva di casa in piena pandemia, c’era bisogno di un valido motivo per tenerlo occupato, per farlo stare al sicuro e non esporlo ai contagi».
Ascoltando lo studente e impegnandolo nella panificazione, Enrico è riuscito perciò a proteggerlo anche da un mondo per lui incomprensibile ma affascinante. «È stato lui stesso a chiedermelo – dice l’insegnante – in quei giorni il suo unico contatto con il mondo era la tv e, vedendo tutti fare il pane, da bravo buongustaio voleva partecipare anche lui». Giorno dopo giorno, Enrico e l’alunno si danno appuntamento perciò in videochiamata e, con le mani in pasta, imparano anche qualcosa di molto prezioso l’uno dall’altro. «Quest’esperienza ha segnato anche me, mi ha aiutato a vivere i mesi di lockdown con un obiettivo – racconta – All’inizio non è stato facile: le prime due settimane il ragazzo reagiva bruscamente, maltrattava l’impasto, ma con un po’ di pazienza siamo riusciti a lavorare anche sulle emozioni. Fare il pane in un certo modo ha attutito il disagio che provava, come per tutti in quei giorni»
Mentre una parte degli italiani vedeva stravolte le proprie abitudini, un professore chiedeva al suo alunno di continuare a mantenerle, di alzarsi ogni giorno puntuale e mettersi la divisa, spiegandogli perché facesse alcune ore di lezione lontano dai suoi compagni di classe e aiutandolo a impegnare un tempo senza fine. Il risultato a fine percorso è stato emozionante.
«Ci scrivevamo su tutte le fasi della preparazione, ci aggiornavamo con le foto del pane in cottura, alla fine abbiamo cucinato talmente tanto che casa mia era piena di pagnotte». La soddisfazione non è stata solo per il palato, perché questo percorso ha aiutato entrambi a capire quanto la scuola possa offrire agli studenti semplicemente ascoltandoli, aiutandoli a comprendere profondamente la realtà e a cogliere nel mondo ciò che normalmente si studia sui libri. È stato possibile trasmettere con semplicità il ruolo centrale della scuola.
«Da pedagogista cerco di sfruttare tutte quelle normative sulla Legge 104 che cercano di colmare aspetti troppo burocratici o difficili della scuola italiana». Il ragazzo ha così potuto approfondire la manualità della panificazione e acquisire delle competenze utili non solo per un percorso personale, ma professionale. «Intensificando la panificazione e andando avanti potremmo anche considerare dei percorsi di alternanza scuola/lavoro».
E pensare che prima del lockdown il ragazzo non riusciva a stare in classe, il confronto con i compagni lo demoralizzava e dopo un po’ perdeva motivazione nella cucina, isolandosi e con scarse possibilità di interazione, di crescita, di formazione. In questi mesi ha dimostrato invece un atteggiamento completamente diverso perché <<si è sentito parte di un progetto da poter condividere con i suoi compagni. A fine percorso abbiamo proiettato infatti un video che raccontava cosa aveva imparato durante il lockdown. La condivisione lo motivava tantissimo, perché aveva lui stesso qualcosa da poter comunicare che lo avvicinava agli altri>>. Anche per la famiglia è stato positivo sapere che un’iniziativa del genere può ispirare altre persone, riconoscere che la scuola può accogliere nuovi modelli di inclusione sociale.
«L’elemento che ha salvato sia me sia lui in questo periodo – confida Albenzio – è stato coltivare il dato oggettivo e reale, ci siamo aiutati a vicenda ancorandoci alla realtà con la voglia di fare». Ciò che questo ragazzo, da normale 15enne, ha in comune con i suoi coetanei è quello che il maestro Albenzio chiama “dato di realtà”. «Se non c’è qualcosa di vero dietro l’insegnamento, la lezione non fa gola a nessuno. Questi ragazzi hanno bisogno di vedere, di toccare con mano che contribuiscono a qualcosa. Per questo dico che l’inclusione è anche una questione di esperienze».
È una riflessione che scavalca le distanze vissute in questi mesi da tantissimi adolescenti e studenti italiani. Didattica a distanza o no, anche i programmi ministeriali, se appiccicati indistintamente come etichette su ogni alunno, senza essere stimolanti o attingere dalla quotidianità, non attraggono né formano le nuove generazioni. Esistono altri modi per includere, altre idee su cui impegnarsi.
«La Legge 104 non limita la propositività, ma la rilancia e ci invoglia a capire chi abbiamo davanti – conclude l’insegnante – Anche per questo la scuola è necessaria agli studenti disabili: per loro è essere nel presente ma guardare nel futuro insieme a tutti».
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