«Gli stupri, le mutilazioni, le torture, gli sgozzamenti, le decapitazioni, le fucilazioni, le impiccagioni, le violenze inscritte nella carne non sono mai una semplice azione. Sono già storia. La guerra si scrive nella carne delle persone», scrive Davide Enia drammaturgo, attore teatrale, scrittore regista, nella prefazione di “Dalla Guerra – Cronache di Ordinaria Oppressione”, libro del giornalista Luca Pistone, edito dalla casa editrice indipendente Aut Aut Edizioni.
Dieci reportage dal centro delle zone calde del mondo. Non reportage di guerra, ma dieci storie che raccontano la vita di quelle persone che abitano quei luoghi, e di come la guerra trasforma appunto nei loro corpi. Sopravvivenza, prevaricazioni, violenza, speranza. Dall’Africa al Sud est Asiatico, passando per il Medio Oriente: un viaggio all’interno della cronaca raccontata con uno stile asciutto, a volte obbligatoriamente duro. Storie che non fanno notizia: necessaria testimonianza di ordinarie oppressioni.
«C’è bisogno», continua Enia, «che qualcuno provi a raccontare cosa accade nei luoghi considerati periferici del mondo. Oggi si è compreso che è tutto interconnesso. Non si può più fingere che quanto accade in un continente non avrà, prima o poi, ripercussioni su scala globale. C’è bisogno di leggere questi tasselli della storia per comprende la direzione che sta prendendo l’esistenza del pianeta che ci ospita tutti quanti. E c’è bisogno di riconoscere quanto sia vitale l’atto della nominazione del trauma: obbligarsi a scrivere per staccarsi definitivamente dal trauma stesso. Valutare le parole, processarle, ponderarle e infine deporle sulla pagina per sopravvivere alle parole stesse».
Luca, “dalla Guerra – storie di ordinaria oppressione”
Ho pensato e ripensato ad un titolo adeguato per questo lavoro senza essere banale. Alla fine “dalla guerra” è un titolo onesto, concreto. È sincero rispetto alla crudezza dei temi che tratto.
Racconti “troppo crudi” per l’opinione pubblica?
I media, in modo particolare quelli italiani, fanno vedere solo un millesimo di quello che veramente accade in certi luoghi del mondo. E lo fanno perché quel tipo di immagini disturba. Carneficine e mattanze che possono disturbare la sensibilità delle persone. Ci sono diverse scuole di pensiero: non far vedere, lasciare solo intuire…Io dico che non dovremmo far vedere la faccia spappolata di un bambino, questo no. Però il mestiere del giornalista è far vedere la verità nuda e cruda.
Nel primo video si vedono sei ragazzi neri, seduti per terra, con polsi e caviglie legati con delle fascette di plastica. Dal naso, dal labbro, dall’occhio e dall’orecchio: tutti grondano sangue. Un miliziano gli urla contro: «Topi!», come Gheddafi chiamava i suoi nemici e, a uno a uno, gli spara in fronte con una pistola a tamburo.Nel secondo video quattro thuwar sono in piedi intorno a un tavolo su cui è sdraiata, svenuta e nuda, una ragazza nera di non più di quindici anni. I miliziani hanno ancora le braghe abbassate. Si stanno rivestendo tra una risata e una pacca sulla spalla. Uno di loro afferra una bottiglia di plastica vuota e ne avvicina il collo a un braciere acceso. Altri due thuwar tengono aperte le gambe dell’adolescente. Non appena la plastica comincia a sciogliersi, il quarto miliziano, probabilmente superiore in grado, afferra con prepotenza la bottiglia dalla mano del compagno e la spinge con un gesto secco nella vagina della vittima. Poi urla di dolore e suppliche. E più lei grida, più i suoi carnefici sembrano divertirsi. Le immagini si interrompono qui. Terzo video. Una donna nera sulla trentina. È nuda anche lei. Ha le mani e i piedi legati alle gambe di un tavolo di ferro. Sembra in stato di trance: la testa rivolta all’indietro, gli occhi sbarrati puntati verso l’alto. Le cosce sporche di sangue secco. Lo stupro deve essere avvenuto da tempo. Le si avvicina un miliziano con un seghetto da legno. Osserva la donna dubbioso, non sa da che parte cominciare. Ha deciso: la prima parte che asporterà sarà un pezzetto del polpaccio. La donna emette un grido e sviene. Fortunatamente viene a mancare anche il Motorola di Abdul-Kareem, batteria scarica. «A quella puttana tawergha – dice soddisfatto il palestrato – hanno tagliato tutte le dita delle mani e dei piedi. Poi le braccia e le gambe. È morta dissanguata. Di video e fotografie come queste ne abbiamo a bizzeffe, sono i nostri trofei».
Dalla Guerra – Cronache di ordinaria oppressione (Libia)
Hai scelto dieci tra i reportage realizzai in questi anni. Dall’Africa al Sud est Asiatico, passando per il Medio Oriente. Quale tra questi ti è rimasto più impresso?
Forse Congo, Repubblica Centrafricana e Libia. Perché in questi tre racconto degli stupri ai danni delle donne che nei luoghi di guerra sono sempre le più vulnerabili. La gente non sa quanto in questi posti è davvero facile morire.
Raccontare la frontiera ci aiuta a capire meglio i fenomeni migratori?
Assolutamente sì. Per capire realmente quello che succede bisognerebbe stare fisicamente in questi Paesi. Vivere i contesti che abitano queste persone.
Luca Salvatore Pistone (Milano, 1983) è un giornalista, fotografo e videomaker freelance. Laureato prima in Teoria Politica e poi in Relazioni Internazionali, ha un master in Studi afro-asiatici e uno in Giornalismo di guerra. Da diversi anni lavora come inviato in zone di guerra e di crisi per diverse testate e organizzazioni internazionali. L’Africa occidentale e le due ruote sono la sua grande passione.
Immagini di Luca Pistone
1 Repubblica Centrafricana. Una dimostrazione di cosa accadrebbe a un miliziano Séléka nel caso in cui finisse nelle mani dei miliziani Anti-Balaka
2 Libia. A Bir Dufan, in Tripolitania, un gruppo di miliziani di Misurata si prepara a un'offensiva contro Bari Walid
3 Repubblica Democratica del Congo. Una giovane originaria della zona di Masisi, nel Nord Kivu, rimasta incinta in seguito a uno stupro da parte dei ribelli Mai-Mai
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