Nel 1999, Tim Berners-Lee, il padre fondatore del web, annunciava nelle pagine di L’architettura del nuovo Web (Feltrinelli, 2001) quale era la sua visione per il mondo digitale : «Il web è una creazione sociale più che tecnica. L’ho progettato pensando al suo impatto sociale, per aiutare le persone a lavorare insieme, e non come un giocattolo tecnico. L’obiettivo finale del web è quello di sostenere e migliorare la nostra esistenza nel mondo, immaginato come una rete»; 25 anni più tardi il bilancio che possiamo fare è meno ottimista. E possiamo dire che la promessa iniziale di uno spazio digitale umano, aggregatore e inclusivo è stata tradita.
Rimane difficile capire se il web ci abbia maggiormente avvicinato o allontanato gli uni dagli altri. In un contesto digitale dominato dalle bolle di filtraggio, il fenomeno di personalizzazione che ci imprigiona con persone e idee simili alle nostre, il rischio che viviamo è di isolarci in uno spazio in cui incontriamo unicamente persone che la pensano come noi, o allora ci troviamo vittime delle campagne di marketing e manipolazione che ci spingono alla scelta binaria tra il like o l’hatefull speech. Ovvero rischiamo di ridurre le nostre conversazioni digitali al “mi piace” o “ti odio”.
In realtà, le conversazioni che accompagnano le nostre vite – in famiglia, al lavoro o tra amici – sono spesso più complesse e meritano una riflessione a partire da una nozione sempre meno alla moda on line, nel giornalismo e nella politica: la complessità del mondo e la nuance. Per esempio, i temi etici quali la Gpa, l’eutanasia, l’accesso alle cure per i migranti o lo ius soli meritano di esserre esplorati con maggiore complessità e empatia che un semplice like o una categorica obiezione. Ma quali sono gli spazi – digitali o fisici – in cui oggi è possibile favorire l’incontro, il dialogo e la conversazione tra persone che la pensano diversamente?
My country talk, o come il Die Ziet ha creato il tinder della politica
A partire dall’esigenza di creare dialogo tra persone che la pensano diversamente e che vivono lo stesso quartiere, la stessa città o lo stesso villaggio, il settimanale tedesco Die Zeit ha lanciato nel 2017 l’iniziativa My country talks. L’idea è semplice. Una piattaforma on line permette di rispondere a 10 domande su temi polarizzanti come l’immigrazione, le pensioni o i diritti civili. Un algoritmo crea dei match (delle coppie) che hanno una visione opposta invitandoli a incontrarsi per scambiare i propri punti di vista per un paio d’ore. Da allora, quasi 300mila partecipanti si sono registrati in Germania e hanno accettato di confrontarsi con una persona che la pensa diversamente, in autonomia e senza moderazione esterna. «Nel 2017, eravamo appena usciti dal voto sul Brexit. Trump era appena stato eletto. Lo scandalo di Cambridge Analytica e Facebook aveva chiaramente evidenziato il ruolo e i rischi dei social media. È in questo contesto che la redazione di Die Zeit ha immaginato My country talks, il tinder della politica. Nel 2017, il fenomeno della polarizzazione non era ancora così chiaro! Ma attenzione, depolarizzare non significa riportare i partecipanti verso un centro politico, ma ricreare un terreno comune e un compromesso tra persone che la pensano diversamente» spiega Sara Cooper, project lead di My Country Talks. «I giornalisti hanno un ruolo privilegiato per osservare e anticipare le tendenze di domani. Per questa ragione la redazione aveva deciso di mobilitarsi e lanciare l’iniziativa». Viene da chiedersi se il ruolo di un media sia quello che far incontrare le persone. «Con l’arrivo dei social media e degli algoritmi, i media stanno evolvendo e operano nello spazio di un giornalismo partecipativo. Un media non è più solo un quotidiano dove i giornalisti scrivono e i lettori comprano, leggono e buttano il giornale. Oggi le relazioni tra i media e i lettori sono numerose e moltiplicate dai canali digitali. My Country Talks nasce all’interno di queste riflessioni».
A sette anni dal lancio dell’iniziativa, i numeri mostrano che la comunicazione tra due persone permette di sviluppare empatia e la capacità di uscire da un approccio dicotomico e binario della realtà. L’80% dei partecipanti ha dichiarato di essere soddisfatto della conversazione e il 60% è rimasto in contatto con il suo binomio dopo l’incontro. Il 90% sarebbe pronto a fare e a consigliare una conversazione con un’altra persona.
Per coinvolgere pubblici diversi, sono state messe in atto strategie locali. «Il segreto è stato lavorare con un consorzio di media regionali per coprire tutto il Paese. Bisogna anche mettere in conto i fattori culturali. In Germania hanno partecipato molti più uomini, al contrario in Francia hanno aderito più donne. Ma si può capire: quando ti propongono d’incontrare uno sconosciuto che la pensa diversamente, forse le donne si sentono più minacciate. Per questa ragione organizziamo delle giornate e degli eventi per creare un quadro più sicuro, anche se gli incontri devono avvenire senza mediazione e in maniera autonoma». Armin Falk, docente di economia all’Università di Bonn, ha condotto uno studio per misurare l’impatto dell’iniziativa in Germania : «Anche solo due ore di conversazione tra le persone con posizioni opposte politicamente permettono di ridurre la polarizzazione». Secondo questa analisi, la polarizzazione può essere ideologica o affettiva. Quando è affettiva ci porta a pensare che qualcuno che la pensa diversamente sia un nemico, una persona da combattere e da evitare. «Ma quando incontri questo qualcuno le convinzioni e i preconcetti crollano o si attenuano. L’incontro permette di scardinare i pregiudizi rispetto alle persone che hanno un’opinione diversa».
Faut qu’on parle!
L’iniziativa ha continuato la sua corsa ed è stata esportata in una decina di Paesi europei e internazionali. In Francia, questo ottobre i media La Croix e Brut si sono uniti per adattare l’iniziativa lanciando Faut qu’on parle (Dobbiamo parlaci, in foto). «Questa estate la Francia ha attraversato un momento di euforia grazie alle Olimpiadi e una fase di crisi politica a seguito delle elezioni europee e legislative. La posizione dei media sta cambiando. A La Croix, abbiamo la convinzione di avere un ruolo di mediatore, di agente sociale e di cambiamento. I lettori richiedono una maggiore partecipazione e delle esperienze immersive!» spiega Céline Hyon, direttrice generale del fondo di dotazione Bayard (editore del quotidiano La Croix). «Informarsi significa uscire dal proprio quotidiano e da se stessi. Il sistema educativo francese favorisce un sistema individualista, aggravato dai social media… Per uscire dalla polarizzazione è necessario facilatare l’incontro e il confrontro con gli altri. L’alterità è rigenerante e arricchisce l’animo umano. Oggi è necessario favorire una cultura della complessità!».
In Francia, l’iniziativa è stata lanciata in ottobre e in un mese si sono iscritti 6.500 partecipanti. Le prime testimonianze dimostrano che accogliere le opinioni degli altri significa «accettare le proprie vulnerabilità, esplorare le proprie convinzioni e, spesso, uscire da una conversazione meno radicali e capaci di mettersi in discussione» sottolinea Céline Hyon. La sfida per il 2025 sarà di coinvolgere delle persone con opinioni più estreme, con una particolare attenzione alla ruralità e alle periferie. «Per uscire dalla nostra bolla, dobbiamo trovare un modo per integrare delle persone che hanno una visione più lontana dalla nostra linea editoriale. Forse integrando dei media radicalemente diversi e la stampa regionale?» s’interroga Béatrice Buniol, responsabile del servizio cultura del quotidiano La Croix. Se nel mondo, l’iniziativa ha mobilizzato maggiorment gli uomini, in Francia il 56% dei partecipanti sono donne. «Abbiamo proposto un tempo di conversazione e scambio, puntando sull’umano e l’alterità. E non, come in Germania, sul conflitto politico» spiega Buniol.
«Il nostro giornale si è sempre opposto alla cultura dell’isolamento e del conflitto, ma riconosciamo che anche i media hanno la loro responsabilità. In questo contesto noi giornalisti abbiamo tre missioni: per prima cosa, dobbiamo seplicemente fare il nostro lavoro. Dobbiamo informare. La situazione americana durante le presidenziali lo dimostra in maniera dirompemnte. Per dibattere correttamente bisogna fornirne un’informazione che rispetti la deontologia giornalistica. Purtroppo questo non è sempre il caso… basti pensare a certi commentatori televisivi o ai titoli della stampa online. Poi è necessario far vivere la conversazione. Rispettare le opionioni degli altri, accettando le regole di un dibattito pacato anche nel contradditorio. Bisogna essere capaci di trattare i punti di vista divergenti senza alimentare la polemica. Al contrario, crediamo che spiegare le polemiche senza caricature, può evitare la polarizzazione. Per ultima cosa, dobbiamo essere attori della società, non semplici commentatori».Di fronte all’emergenza di un vocabolario politico, mediatico e digitale che cerca lo scontro, è urgente instaurare una cultura del dialogo per tutelare la coesione sociale e i valori democratici necessari alla società per essere più resiliente rispetto alla tentazione illiberale.
Foto: La Croix
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