Lorenzo Tugnoli

«E se la vittima della guerra fossi io?»

di Anna Spena

A Milano arriva la mostra Traces of Lights, organizzata da WeWorld e il Festival dei Diritti Umani, che vuole raccontare la crisi dei rifugiati siriani in Libano. «Non basta il numero delle vittime dei conflitti», dice il fotografo Premio Pulitzer Lorenzo Tugnoli. «Dobbiamo raccontare la storia, la persona, che ha un nome vero e non ha una vita con meno valore della nostra»

La fotografia è un mezzo che non lascia scampo. Che ti butta lì, proprio in faccia, la realtà. O almeno, così dovrebbe essere. Il condizionale è d’obbligo visto che oggi certe immagini crude – o anche meno irruente – che dovrebbero scuoterci tutti e risvegliare le coscienze che un po’ si stanno perdendo – sembra ci scivolino addosso. Perché? L’abbiamo chiesto al fotografo Lorenzo Tugnoli (classe 1979).

Fotografo che ha lavorato in Medio Oriente prima di trasferirsi in Afghanistan nel 2010, e poi si è stabilito in Libano nel 2015. Il suo lavoro esplora le conseguenze umanitarie dei conflitti ed evolve attraverso progetti a lungo termine in Yemen, Libia e Libano. Contribuisce regolarmente al quotidiano The Washington Post ed ha pubblicato i suoi lavori su The Wall Street Journal e Time Magazine. È entrato a far parte dell’agenzia fotografica Contrasto nel 2017. Il suo lavoro in Yemen è stato selezionato nella categoria “Storia dell’Anno” del prestigioso World Press Photo Award 2019 e gli è valso la vittoria del Premio Pulitzer 2019 per la Fotografia.

Alcuni dei suoi scatti, insieme a quelli di Diego Ibarra, arrivano in Italia per la mostra “Treces of Lights” che vuole raccontare la crisi dei rifugiati siriani in Libano e fare luce sulle vite e le storie di donne, uomini e bambini che vivono nei campi informali nella valle della Beeka. La mostra, curata da Leonardo Brogioni, e nata dalla collaborazione tra l’associazione WeWorld Onlus e il festival dei diritti Umani, sarà allestita alla triennale di Milano dal 2 al 4 maggio.

Perché il Libano, perché Beirut?
Si può dire che la mia carriera di fotografo è iniziata qui. È stato uno dei primi posti in cui sono stato. C’è un legame particolare con questa terra. Poi è una città da cui si possono coprire i conflitti, come le storie, di tutto il medio oriente.

C’è un soggetto ricorrente nei tuoi lavori?
I civili, sempre. Le persone e quello che succede alla loro vita quando viene travolta da un conflitto, da una guerra. Sono stato nei campi profughi in Afghanistan, sono stato in Iraq durante l’offensiva di Mosul, conosco i campi profughi libanesi dove da anni vivono i siriani scappati dalle loro case.

Cosa accomuna tutte le persone che fotografi?
La migrazione. Interna ed esterna al Paese che abitano. Ecco Beirut, ad esempio, è una destinazione. C’è stata una forte ondata migratoria da parte degli armeni. Poi sono arrivati gli stessi libanesi che si sono spostati dal sud al nord del Paese. Alla fine ogni migrazione è diversa. Ma credo rimanga ferma la prospettiva di “tornare a casa”. A volte la migrazione di ritorno è una cosa possibile, altre, invece, no.

La fotografia è un mezzo che non lascia scampo. Ci mette in faccia la realtà dei fatti. Eppure negli ultimi anni è come se fossimo diventati impermeabili, assuefatti, dalle immagini dolorose. Perché?
Credo, e lo dico da fotogiornalista, che il giornalismo abbia una responsabilità in tutto questo. A volte la sovraesposizione alle immagini di sofferenza poi ci rende insensibili. Questa è una causa, che però da sola non basta. L’altra cosa di cui sono convinto è che il giornalismo in questi anni si concentra sulla narrazione di un solo evento invece di costruire un’analisi chiara. E vale anche per il modo in cui vengono scattate le fotografie durante certe crisi. Si usano le immagini scioccanti invece di quelle che raccontano il legame umano che viene ritratto. Dobbiamo essere in grado di ricominciare – a tutti i livelli – a ricostruire delle rappresentazioni che possano rispettare quanto sia importante, grossa e profonda la sofferenze della persone che vivono i conflitti e di questi provano a scappare. Meno scandalo, meno violenza. Fatti che dovrebbero essere all’ordine del giorno li lasciamo cadere. Le fotografie sono un mezzo potente. Ma sono anche oggetti da contestualizzare. Perché un’immagine senza un racconto dietro può avere varie interpretazioni. La fotografia è un oggetto che deve essere introdotto da un discorso. E questo discorso ha forza solo quando racconta le persone. E questo, a sua volta, può succedere solo quando diamo un nome. Non basta il numero delle vittime dei conflitti. Dobbiamo raccontare la storia, la persona, che ha un nome vero e non ha una vita con meno valore della nostra. Dobbiamo riconoscere anche noi stessi come padri, madri, fratelli, figli, come “se fossimo loro”. Non lasciamo le persone senza faccia e senza nome.

Foto di Lorenzo Tugnoli

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