«È così che ho abbracciato la Sla». Antonio Pinna, classe 1950, sardo di Oristano, preside in pensione, è un animo magnificamente inquieto. Lasciata, sulla soglia dei 60 anni, la dirigenza scolastica, s’è rimesso a studiare, aggiungendo la laurea in psicologia a quella che aveva già, in filosofia.
Racconta come è diventato il riferimento di un gruppo chiuso di Facebook, con oltre 3 mila membri, fra malati di sclerosi e i loro famigliari e di come questa vicenda si intrecci con la scrittura di un libro (edito da Cuec) e la realizzazione di un documentario, intitolato “SLA, in men che non si dica”, con un grande regista “sociale” come Antonello Carboni, che ha all’attivo lavori sui Saharawi e sulla Palestina. L’abbraccio con la SLA avvenne proprio per una vicenda familiare dolorosa, la malattia della sorella.
Pinna l’incontro con la Sla, però, non fu subito chiaro…
Infatti. Nel 2009, una mia sorella, Claudia, una maestra elementare in pensione, si è ammalata, ma non fu subito chiaro che si trattava della patologia del motoneurone. Ne aveva alcuni sintomi ma la diagnosi non era semplice.
Un calvario…
Per tre anni inseguimmo la verità di quella malattia. Andammo in giro, fra specialisti e ospedali, senza venirne a capo. Poi, nel marzo del 2012, la diagnosi, terribile e impietosa: SLA. Pensi, che quell’acronimo, SLA, si è potuto scrivere su un referto solo pochi mesi prima che mia sorella morisse, perché si trattava di una forma “bulbare”, che lasciava poco tempo. E con la morte di mia sorella ho abbracciato la SLA.
Colpisce sentirlo dire…
Lo capisco. Ma è successo questo: con tutte le mie risorse emotive e cognitive, è iniziato un percorso. La mia tesi di laurea in Psicologia è diventata anche un viaggio fra i malati, per raccontare la trasformazione delle loro vite, per descrivere soprattutto le storie di quanti hanno sperimentato la resilienza, ovvero hanno trasformato le loro esistenze, così colpite, così minate, in una potente opportunità di miglioramento delle loro vite. E di quelle degli altri.
Il titolo del libro e del film è “SLA, in men che non si dica”. Perchè?
L’ho preso da un libretto, In men che non si dica (Studio Stampa, Nuoro 2009) di uno dei pazienti che racconto, Giuseppe Punzoni, gliela leggo: “In men che non si dica la mia vita si è fermata ed il mio corpo mi ha risucchiato, lasciandomi solo due occhi vigili che spaziano, con la fantasia, oltre i confini della mia immobilità. Mi sento ostaggio, non solo della SLA ma anche della solitudine nella quale la malattia mi ha relegato”. Ed è così, “in men che non si dica” questa malattia di blocca, ti toglie la parola, ti chiuderebbe al mondo se non ci fosse la tecnologia. Per questo ho voluto inserire nel mio racconto, la testimonianza di Marco Caligari che, col suo Laboratorio di domotica e comunicazione, all’IRCCS Maugeri di Veruno (Novara), è un riferimento per molti pazienti: costruisce e adatta devices coi quali i malati possono usare meglio il computer e i programmi dedicati.
Come Aniceto Scanu, che manda avanti Radio Sardinia dal suo letto…
Ha visto che spettacolo di umanità? Era stato Marco (Caligari, ndr) a dirmi di andare a trovarlo. Ad Anicetto, la Maugeri aveva preparato sensor scan, sensore col quale poteva usare la mobilità residua, pensi, a un mignolo. Un dispositivo ad hoc.
Nel film, le immagini sono toccanti.
Aniceto è un ottimista, quella è la sua radio, l’ha fondata nel 1975, e nemmeno la malattia gliela avrebbe tolta. Ora la governa da un computer, annuncia i pezzi col sintetizzatore vocale, un portento. Marco Galli, celebre dj di Radio105, ne è ammirato, gli vuole un bene incredibile e lo cita spesso nei suoi programmi.
Si sente anche nel documentario, un suo saluto in diretta. Chi altri l’ha particolarmente colpita in questo suo viaggio?
Sono tutte figure splendide. Però vorrei ricordare anche Salvatore Usala, sindacalista della SLA, perché è morto relativamente da poco, il 16 novembre del 2016.
Il trailer del film
Facciamolo…
Beh, Usala era un uomo straordinario. Sa era stato un operaio chimico alla Rumianca di Cagliari. Poi diventato assistente informatico di un liceo della sua città. Quando andai a trovarlo, a Monserrato, vidi subito alla parete appesa la maglietta col Che Guevara. Era stato un militante di Rifondazione Comunista, molto legato a Paolo Ferrero, che gli era amico.
Nel documentario, la telecamera indugia su libri di Antonio Gramsci e sul Capitale di Karl Marx. Come mai?
Questa sua passione politica l’ha portato a vivere la malattia come un impegno sindacale. Ha guidato personalmente 17 presidii negli anni in cui si annunciavano tagli al fondo per l’autosufficienza. E forse l’ultima di queste manifestazioni gli è stata fatale, perché poi le sue condizioni hanno cominciato a peggiorare. Salvatore, tanto per capire, ha guidato i malati fino a Roma, davanti alla sede del ministero dell’Economia e delle Finanze. Un combattente, che telefonava ai giornali col sintetizzatore vocale, alla Rai, ma che sapeva anche fare progettazione sociale.
Ossia?
Immaginava un’assistenza domiciliare fortemente supportata dai caregiver, con équipe appositamente formate.
Torniamo al film. Quanto è stato difficile realizzarlo?
È stato faticoso, perché ha richiesto un grande lavoro, ma la straordinaria professionalità di Antonello Carboni ha reso tutto più facile. Con un altro regista non sarebbe stato possibile, forse.
Perché?
Perché Antonello è entrato subito nella storia, l’ha capita, l’ha amata. All’inizio pensava di concentrarsi su un solo malato e raccontare solo lui. Abbiamo discusso, l’ho convinto che era meglio il viaggio.
Infatti la si vede andare e indietro in auto. È un viaggio vero…
Antonello dà, con quella strada percorsa e da percorrere, il senso positivo di questo lavoro. Non ci si ferma, si va avanti. Alla fine, le storie di questi uomini, sono esattamente questo: gente che va avanti.
La resilienza di cui parlavamo prima?
Anche la scena finale di Salvatore Figus, nella sua casa di Busachi (Nu), che festeggia il compleanno, immobile e muto nel suo letto, con una torta che non potrà mangiare, ma circondato da una decina di amiche, parenti, volontarie. La festa possibile, malgrado la Sla.
Un gineceo affettivo e solidale, in cui si staglia la figura, toccante, della anziana madre…
Ecco una cosa che ho imparato, in questo viaggio, è il ruolo potente delle donne. Si vedono solo mogli, sorelle, madri, volontarie, badanti accanto ai pazienti.
Lei presenta a Torino, il 6 ottobre, alla Fondazione Giorgio Amendola (ore 17, Via Tollegno 52), con medici, economisti e politici, ma quanto è stato difficile realizzare questa opera?
All’inizio, per partire, l’abbiamo autofinanziata, poi ci hanno dato una mano, con dei piccoli contributi, alcuni enti sardi, in cui vivevano alcuni dei malati raccontati, e la Fondazione Salvatore Maugeri di Pavia, con un sostegno più importante. Stiamo rientrando delle spese, insomma, ma il bello viene adesso.
Vale a dire?
Far vedere quest’opera il più possibile, raccontarla, parlare e far parlare della Sla. Anzi, mi piacerebbe cogliere l’opportunità che Vita rappresenta per fare un appello ad associazioni, circoli, parrocchie: io andrò ovunque.
Per contattare Antonio Pinna email: ap950@libero.it
Prossime proiezioni
- 12 ottobre Sassari, Università degli Studi aula di via Zanfarino;
- 19 ottobre auditorium Biblioteca “Satta” con Cittadinanzattiva e Coop. Progetto Uomo;
- 20 ottobre, Ghilarza (Or), Villaggio san Serarfino, con il giornalista Serafino Corrias;
- 26 ottobre, Cagliari, Sala Società Umanitaria, con Giancarlo Ghirra (Ordine dei Giornalisti) e il neurologo Vincenzo Mascia;
- 31 ottobre, Abbasanta (Oristano), con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale e la collaborazione dell’Università della Terza Età,
- 7 novembre, Monza, Associazione ConSlancio e con Julius Neumann, malato di SLA;
- 8 novembre, Viareggio 8 Novembre con AISLA;
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