Sarà che Dynamo Camp ha sede in un’oasi verde nel cuore delle colline pistoiesi, ma guardando alla sua realtà la prima immagine che viene in mente è quella di un grande albero che si è radicato nel terreno e che ora allarga sempre più i suoi rami carichi di frutti.
Un’immagine bucolica certo, ma come non pensarci in occasione del decennale – che viene celebrato a ottobre con un open day speciale a Limestre per ricordare come dice il titolo dell’evento “10 years of happiness” ovvero dieci anni di felicità – guardando a quante realtà sono “gemmate” dall’esperienza di Dynamo: la Radio, l’Accademy, Pro Dynamo e Oasi Dynamo.
Pensando a questi primi dieci anni per Serena Porcari, Ceo di Fondazione Dynamo, più che festeggiare è importante capire «a che cosa sono serviti questi dieci anni per prepararci ai prossimi».
E il ragionamento sul futuro di Serena Porcari non può che ripartire dall’inizio, dallo spirito che «ci ha sempre contraddistinto: fare le cose che sembravano impossibili. Ci dicevamo “perché no?”. Anche importare in Italia un progetto come il camp di Terapia ricreativa dagli Usa, allora sembrava un’idea folle. Ci si chiedeva se avrebbe funzionato anche da noi». Ascoltando il racconto degli inizi ciò che colpisce è proprio la portata della sfida che Dynamo Camp ha rappresentato, soprattutto se si ragiona sul fatto che prima è nata l’organizzazione e la raccolta fondi e solo in un secondo momento si è iniziato a far funzionare il camp vero e proprio.
Ci ha sempre contraddistinto fare le cose che sembravano impossibili. Ci dicevamo perché no?
«Alla base c’è stato un grosso lavoro di progettazione che ha preso il via nel 2004. Fin dall’inizio», sottolinea Porcari, «si è scelto di dar vita a una non profit che funzionasse come un’impresa. Si è partiti con una campagna di raccolta fondi che coprisse i primi tre anni di funzionamento del camp. Vendevamo un sogno sulla carta. Uno potrebbe chiedersi, perché invece non abbiamo semplicemente raccolto fondi per realtà che già operavano?». Già, perché? «Il nostro modello di riferimento era regalare una vacanza gratuita a un bambino malato o disabile ed è stato anche un modo per far lavorare tante persone».
Oggi il Camp ha 47 dipendenti, si era partiti con 8, mentre lo staff conta ben 76 persone, sessanta in più delle 16 assunte all’inizio. «Come Gruppo Dynamo siamo gli unici che possono dire di aver provato tutte le forme di impresa sociale e continuiamo ad assumere persone. Nel nostro piccolo siamo un miracolo occupazionale: siamo il principale datore di lavoro nella Valle pistoiese e lo siamo proprio in quanto impresa sociale che mette in circolo il profitto».
Tante le attività che i bambini e i ragazzi possono fare al Camp: dall'arrampicata, al disegno a sport originali come il tiro con l'arco
Un’esperienza in crescita che conta oggi 4.500 volontari presenti sul territorio italiano e non solo al Camp. In questi dieci anni la vacanza secondo il metodo della terapia ricreativa «ha trasformato la vita di 5.700 bambini» rimarca Porcari che sottolinea anche un altro aspetto fondamentale per Dynamo: la bellezza. Quella dei luoghi e quella dell’arte. «Il luogo è bellissimo (un’oasi naturalistica affiliata al Wwf – ndr.). Lo abbiamo ricevuto già così, anche se aveva delle aree da ristrutturare e lo abbiamo fatto con l’idea di farlo ancora più bello, adatto a tutti i bambini e anche agli adulti. Nel 2007 non pensavamo certo di fondare l’Accademy».
L’arte, come lo sport, giocano un ruolo importante nelle attività del Camp «Dynamo ha dentro di sé il motore del miglioramento continuo. Siamo partiti dalle attività con la ceramica e siamo arrivati a una galleria d’arte, abbiamo iniziato a fare musica e inserito l’esperienza della radio grazie al suggerimento di un nostro donatore che ci ha parlato di un’esperienza simile in Gran Bretagna. Insomma teniamo le antenne ben ritte e così tramite l’arte e la musica siamo riusciti a portare tante eccellenze al Camp. E questo fa sì che anche la qualità delle attività sia altissima. Sono gli stessi ragazzi a comprendere la differenza tra il bello e il brutto. I bambini durante il camp si considerano una squadra di performing art».
Dieci anni in crescendo, anche se ci sono stati momenti in cui si è dovuto aggiustare il tiro «come quando tra il 2008 e il 2009 avevamo fatto un errore nella selezione delle persone. Era come se avessimo dato in outsourcing la ricerca del personale, non si cercavano persone in grado di riflettere sulla malattia ma professionisti» ricorda la Ceo di Dynamo. «A quel punto abbiamo aggiustato il tiro chiedendo aiuto ad alcune imprese e anche a realtà che si occupano di bambini come Fiagop e Aieop. Grazie a questo abbiamo trovato nuove risorse, cambiato la formazione e selezionato lo staff così da integrare gli stessi volontari. Prima del 2010 l’organizzazione al camp cambiava ogni anno e per il bambino l’esperienza non era quella che noi ci aspettavamo. Dal 2010 abbiamo capito chi fossero le persone giuste per noi e iniziato una nuova via».
Un aspetto da non trascurare è che i bambini ospiti di Dynamo camp sono piccoli malati o disabili e la sicurezza dal punto di vista sanitario è sempre garantita.
Rispetto però al modello americano in Italia si è scelta un’altra via, come spiega Porcari: «Negli Usa c’è un direttore medico che viene assunto dal camp. Ci si è resi conto che in Italia questo modello non funzionava. Abbiamo scelto un modello a rete per il direttore medico – scientifico. La direzione medica cambia ogni due, tre anni, gli stessi medici e infermieri ruotano. Certo il meccanismo a rete è più complesso da gestire, ma in questo modo tra persone, professionisti che stanno negli ospedali di tutta Italia nascono contatti, collaborazioni e in questo modo si riescono a superare i limiti territoriali delle strutture e avere medici a livello nazionale».
Cosa riserveranno i prossimi dieci anni? «Non un altro Camp», si schernisce Serena Porcari, ma sono tante le iniziative per il futuro come quella riservata agli studenti nell’alternanza scuola/lavoro che vede protagonisti Unicoop Firenze e l’Accademy di Dynamo, «i ragazzi potranno fare esperienza sul campo di un’impresa sociale» conferma.
Le radici sono ben piantate nel terreno e i frutti non mancheranno.
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