Dove stiamo andando? Difficile dirlo, le bussole sembrano impazzite. Tra i tanti lavori scritti, dedicati o semplicemente "occasionati" dalla pandemia, uno dei più importanti per implicazioni, spunti, profondità di campo e di pensiero è sicuramente quello di Pierpaolo Donati e Giulio Maspero, recentemente edito da Città Nuova: Dopo la pandemia. Rigenerare la società con le relazioni.
Pierpaolo Donati è ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nell’Università di Bologna, dove dirige il Centro studi sull’innovazione sociale (Cesis), mentre Giulio Maspero è professore ordinario di teologia dogmatica presso la facoltà di teologia della Pontificia Università della S. Croce (Roma), facoltà di cui è anche vice decano.
Un sociologo e un teologo che non solo si confrontano, ma si incontrano su un piano per troppi versi inclinato: quello del "dopo". Un "dopo la pandemia" che molti hanno dato per scontato, senza riflettere e indagare a fondo su ciò che stava "prima" e che la pandemia ha semplicemente rivelato: la rimozione delle relazioni. Possiamo (e dobbiamo) pensare un dopo radicalmente diverso, improntato a una società relazionale: su questo punto abbiamo intervistato gli autori.
Pierpaolo Donati: verso una società relazionale
Professor Donati, anche il senso comune ha registrato che la categoria della relazione è stata fortemente toccata dalle ricadute sociali del Sar-Cov-2. Ma occorre andare alla radice. Che cosa ci ha davvero rivelato, a proposito delle relazioni sociali, la pandemia? Qual è, in altri termini, la novità della pandemia?
Da sempre sappiamo che le pandemie passano attraverso le relazioni fra le persone, ma una volta esse venivano affrontate isolando i malati, mentre questa volta le relazioni sono diventate lo strumento principale del controllo sociale totale, cioè sono state usate dalla macchina di governo della società, a livello centrale e locale, per dirigere in modo sistemico tutta la popolazione in modo preventivo e coattivo. L’altra novità sta nel fatto che abbiamo dovuto prendere atto che le relazioni non sono una proiezione del nostro Io, dei nostri sentimenti, gusti, opinioni e bisogni, ma sono una realtà indipendente dal nostro Io.
Nel libro Dopo la pandemia parlo di una epifania delle relazioni, nel senso che le relazioni, pur essendo invisibili come l’aria, si sono state rivelate come il fattore decisivo della vita o della morte, perché il virus è nella relazione, è la relazione stessa quando non è consapevolmente guidata dalla riflessività personale e sociale. In breve, questa pandemia ci ha rivelato che le relazioni sono una realtà autonoma, esterna agli individui, di cui essi hanno scarsa o nulla coscienza. Si è reso manifesto il fatto che non abbiamo una cultura adeguata a gestire le relazioni.
Il tutto avviene in un orizzonte che lei ha più volte definito “dopo-moderno”. Ci aiuta a capire questo nuovo orizzonte e a definire «la posta in gioco» in questo orizzonte?
La modernità ha immunizzato le persone dalle relazioni, nel senso che ha considerato le relazioni come una limitazione dell’individuo, come una costrizione del suo Io, e quindi come qualcosa da cui staccarsi, passibile di essere modificata a piacere, per rendere gli individui più liberi. Questa modernità crolla di fronte alla pandemia, perché la pandemia ci rivela che, senza relazioni buone e sane, la vita umana diventa problematica. Perciò, dopo la pandemia, dovremo muoverci in un altro orizzonte, quello che coltiva i beni relazionali, anziché l’individuo che compete per il successo e per consumi sempre più volatili, privi di una relazionalità umana significativa. Ne ho trattato nel libro Scoprire i beni relazionali. Per generare una nuova socialità (2019), in cui chiarisco l’orizzonte dopo-(non post)-moderno, cioè in netta discontinuità con la modernità.
In un passaggio del suo saggio scrive che «la pandemia ci ha resi schizofrenici sul piano esistenziale perché, se la distanza fisica è in qualche modo misurabile e relativamente facile da determinare, quella sociale invece non lo è, dato che è soprattutto una qualità morale e non una mera quantità spaziale». Crede che la pandemia abbia definitivamente messo in atto quella che il filosofo coreano Byung-Chul Han definisce «l’espulsione dell’altro»? Intravvediamo altri modi e altre modalità di esperire la nostra natura relazionale dopo anni di continuo riduzionismo sui temi dell'alterità e della differenza?
Se non si vedono le relazioni, è inevitabile che le persone finiscano per assumere l’uno o l’altro di due atteggiamenti: da un lato, chiudersi in sé stesse, isolandosi dal mondo, magari usando solo tecnologie di comunicazione che isolano ancora di più, che rientrano in quella che è stata chiamata “sindrome della “tana”; dall’altro, accettare le limitazioni imposte dalle autorità solo come costrizione provvisoria da cui liberarsi al più presto, ritornando il prima possibile ai comportamenti gregari, alle riunioni del branco, alla movida.
Questa alternativa è la sola che esiste se non si pensa ai rapporti con gli altri in termini di relazioni. Non è stata ben chiarita la differenza fra la distanza fisica, certo necessaria, ma che è solo un dato spaziale (1 metro, 2 metri, ecc.), e la distanza sociale che, invece, è una relazione, dunque è una azione intenzionale reciproca fra le persone, che può avere qualità e modi diversi di essere. Le persone umane hanno bisogno di relazioni come dell’aria e del pane, ma devono imparare a distinguerle per le loro differenti qualità e poteri causali. Si può avere una relazione interumana anche senza toccarsi fisicamente, se l’anima è capace di relazionarsi gestendo il proprio corpo. Il messaggio dovrebbe essere che non si tratta di “stare lontano dagli altri”, ma di imparare a come comunicare e scambiarsi dei beni assieme, anche solo dei piccoli gesti o degli sguardi, osservando la distanza fisica.
Le proposte per superare la pandemia sono state, e in gran parte ancora sono, di natura sanitaria o economica. Anche la società civile sembra aver compreso poco la natura della posta in gioco, accordandosi (in parte, ovviamente) al refrain sul ritorno alla normalità. Lei ha definito questa tendenza «la “formula di salvezza” della modernità» (p. 41) che induce a una «coazione a ripetere» vecchi modelli di risposta a problemi in parte nuovi. Come uscirne? Quale paradigma, per quale società?
Nel libro scritto con Giulio Maspero, noi sosteniamo che non si tratta di ritornare ad una supposta ‘normalità’, non si tratta di ricostruire quello che è andato perduto o distrutto, ma di ri-generare la società, cioè di generarla ex novo con una conversione profonda del nostro modo di vivere, un modo che mette al centro le relazioni umane e sociali. Conversione viene dal latino cum-vertere, che significa cambiare direzione assieme. Verso dove?
La pandemia si combatte certamente con i vaccini, ma prima e dopo è ancor più utile saper gestire le relazioni che evitano la diffusioni di tutti i tipi di virus, non solo quelli sanitari, ma anche quelli ideologici e culturali che non sanno confrontarsi con la realtà delle relazioni sociali, e quindi generano sempre nuove pandemie
Pierpaolo Donati
Io parlo di una “società relazionale” (ad esempio nel mio Sociologia relazionale. Come cambia la società), ma che può essere raffigurata se si comprende quanto scrive Papa Francesco nella enciclica Fratelli Tutti, là dove dice che occorre dare “il primato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell'altro, alla comunione universale con l’intera famiglia umana, come vocazione di tutti” (n. 277). Naturalmente io faccio proposte molto concrete su che cosa questo significhi e comporti nella concreta organizzazione della società, quindi nella famiglia, nel lavoro, nella scuola, nella società civile, nell’economia e nella politica. In grande sintesi, occorre adottare un paradigma relazionale, che ci aiuti a vivere in modo ‘relazionalmente’ adeguato tutti gli ambiti di vita e di lavoro. Innanzitutto, la famiglia come una specifica relazione di piena reciprocità fra uomini e donne e fra le generazioni.
Poi il lavoro come relazione sociale in cui la socialità è più importante del sinallagma fra prestazione e contro-prestazione (di qui la necessità di promuovere i contratti relazionali tra famiglia e impresa). Poi la scuola come luogo della formazione delle nuove generazioni alle relazioni sociali propriamente umane, e non solo alla trasmissione di una istruzione. Tutta la società civile come insieme di reti di relazioni e non come una arena pubblica impersonale di individui concepiti come atomi sociali (secondo la visione individualista resa celebre dalla famosa affermazione di Margaret Thatcher secondo cui “la società non esiste, esistono solo gli individui”).
In particolar modo l’economia, come la più morale di tutte le scienze, e la politica come impegno a costruire beni comuni, cioè beni relazionali, per la polis. Questo scenario si concretizza in un nuovo modo di ‘fare società’, la società relazionale, a partire da un nuovo modus vivendi delle persone e delle loro reti sociali fino all’assetto di uno Stato sociale relazionale.
La pandemia si combatte certamente con i vaccini, ma prima e dopo è ancor più utile saper gestire le relazioni che evitano la diffusioni di tutti i tipi di virus, non solo quelli sanitari, ma anche quelli ideologici e culturali che non sanno confrontarsi con la realtà delle relazioni sociali, e quindi generano sempre nuove pandemie.
Giulio Maspero: la matrice trinitaria della relazione
Professor Maspero, lei propone una lettura teologica della crisi. Una lettura che, partendo dalla matrice culturale giudaico-cristiana (trinitaria) che sembra(va) perduta, al tempo stesso rivela come la pandemia abbia fatto cadere alcuni tra gli idoli post-moderni che sembravano più solidi. Lei si serve inoltre della figura-limite del deserto per leggere quanto è accaduto. Proprio in questa situazione estrema, non solo l’uomo, ma anche la tecnologia e la scienza hanno incontrato questa figura del limite… È dunque questo limite –nel nostro caso: la pandemia – a riportare alla luce la radice metafisico/teologica della relazione?
Penso che basti citare l’inizio di uno dei libri di tendenza negli ultimi anni Homo Deus. Breve storia del futuro, pubblicato in Italia da Bompiani, di Yuval Noah Harari della Università Ebraica di Gerusalemme, autore consigliato anche da Bill Gates: “Tuttavia, all’alba del III millennio, il risveglio dell’umanità è accompagnato da una stupefacente constatazione: la maggior parte delle persone di rado ci riflette, ma da qualche decennio siamo riusciti a tenere sotto controllo carestie, pestilenze e guerre. Di sicuro questi problemi non hanno ancora travato una soluzione definitiva, ma da incomprensibili e incontrollabili forze della natura sono stati trasformati in sfide che possono essere affrontate. Non abbiamo bisogno di pregare alcun dio o santo che ce ne liberi. Possediamo infatti conoscenze sufficienti riguardo a ciò che occorre per prevenire carestie, pestilenze e guerre – di solito riusciamo nell’intento” (Milano 2017, p. 8).
Il passo è sintomatico, nel senso tecnico psicopatologico del termine, perché dichiara il superamento del limite creaturale. Al di là della fede, è evidente che l’uomo postmoderno si è illuso di controllare il futuro, ricercando una dimensione post-umana, mentre la pandemia lo ha posto di fronte alla sfida di continuare ad essere umano. Ovviamente non mi rallegro per quanto sta succedendo, né lo interpreto come castigo divino, penso che sia sufficiente anche solo un po’ di coscienza ecologica o di mero buon senso per cogliere che la perdita del senso del limite non può durare. Infatti siamo limitati e viviamo in un mondo limitato, eppure abbiamo un desiderio di infinito.
Paradossalmente lo stesso Harari è testimone di tale tendenza insopprimibile nell’uomo. Il deserto è stato nell’esperienza umana, dai Padri del deserto a Saint-Exupéry, luogo di grazia, di incontro con il fondamento “grazioso” della propria esistenza, poiché i limiti stessi abbattono le rappresentazioni mentali con le quali cerchiamo di rispondere alla sete di infinito e ci fanno scoprire che proprio all’interno del limite si apre la via a quella pienezza che tanto agogniamo. La mia lettura della crisi spiega perché Il piccolo principe è il libro più tradotto dopo la Bibbia e non sarà dimenticato, mentre Homo Deus avrà, a mio parare, un’altra sorte.
Nel libro lei insiste matrice trinitaria della relazione. Ci aiuta ad andare a fondo di questa dimensione?
Ogni uomo, seppur inconsciamente, è un metafisico e un teologo, perché, anche senza voler occuparsi direttamente delle discipline corrispondenti, con le proprie scelte esistenziali indica un senso dell’esistenza, addita ciò per cui vale la pena vivere, al quale dedica tempo ed energie. Così tutti hanno i propri dèi, anche coloro che si proclamano atei. Il punto fondamentale è che noi tendiamo ad assumere la forma delle nostre divinità. Anche la Walt Disney ce lo dice: Paperon de’ Paperoni vive in un deposito bunker e i suoi occhi assumono la forma del dollaro quando si esalta. Se uno vive per il body building, il suo corpo rifletterà questa scelta. Così i grandi compositori hanno dedicato la propria esistenza alla musica, tanto da diventare musica.
Oggi il postmoderno ha paura delle differenze, e quindi delle relazioni vere, perché la modernità ha generato conflitti muovendosi proprio a livello meramente logico, per la secolarizzazione ad essa intrinseca che l’ha portata a negare la matrice trinitaria. Ma negare le differenze vuol dire escludere la possibilità delle relazioni, perché la relazione reale porta sempre a percepire una differenza reale, e condannare le persone alla loro solitudine
Giulio Maspero
Per questo quando si ascolta un certo brano BWV … diciamo “è Bach”. Ho preso coscienza con forza di cosa significhi questo dal punto di vista della fede ebraica e cristiana quando una signora cinese che ha sposato un italiano mi ha confidato che da fidanzati, quando il suo futuro marito la portava in spiaggia, non capiva cosa facevano tutti questi italiani stesi al sole come bistecche. In fondo noi riposiamo perché il settimo giorno il nostro Creatore ha riposato. Ancor più in profondità, il Dio di Gesù Cristo è Padre, Figlio e Spirito, cioè l’Amore del Padre e del Figlio.
Così i nomi delle tre Persone divine indicano relazioni. Ma questi tre si identificano totalmente con l’unica natura eterna e assoluta che è Dio. In tal modo la rivelazione neotestamentaria ha introdotto una novità radicale nel pensiero dell’uomo, perché ci ha fatto conoscere delle relazioni assolute, eterne, più forti della morte, più grandi di ogni limite. Ancor di più, la Sacra Scrittura ci rivela che noi ci sposiamo, amiamo, generiamo, cerchiamo amici, perché siamo stati creati ad immagine di questo Dio, sicché le nostre relazioni cambiano significato alla luce della Trinità.
Papa Francesco ha ripetuto quello che diceva San Giovanni Paolo II, cioè che l’immagine trinitaria dell’uomo è nella famiglia, nel suo essere uomo e donna che diventano una carne sola nell’amore per generare. La nostra capacità di relazione è, quindi, radicata nella Trinità stessa. Ciò è ben diverso dal motore immobile di Aristotele, che è dio proprio perché non ha bisogno di nessuno e pensa da solo il pensiero.
La perdita della matrice relazionale (trinitaria) della società, scrive, “genera mostri”. Eppure, il nostro sistema sembra vivere in modo autopoietico, con relazioni che non rimandano ad altro che a sé e si trasformano in “comunicazione”. La domanda è: sono ancora relazioni? Che rischio corriamo se non recuperiamo una comprensione profonda della matrice relazionale della società?
Le relazioni sono di due tipi: quelle logiche e quelle reali. L’idolo si muove sempre a livello logico, di rappresentazione, dove si dà solo l’identità o l’antitesi dialettica. Dio, invece, il Dio uno e trino, ci attira costantemente verso la realtà, dove ogni relazione tra due rinvia ad un terzo, in modo tale da non poter mai chiudersi in forma autoreferenziale.
Faccio un esempio: l’arbitro è sempre cornuto e i tifosi della squadra avversaria cattivi, mentre i compagni della propria curva sono buoni, ma questo funziona perché riduciamo queste persone reali ad un’etichetta, una categoria indicata da una tag, come si dice in inglese. E facciamo lo stesso con noi: pensiamo di andare bene se soddisfiamo delle caratteristiche che le aspettative attorno a noi ci presentano, oppure di essere sbagliati e inadempienti se ciò non avviene. I due atteggiamenti sono sbagliati, non nel senso morale, ma nel senso oggettivo del termine, perché noi non abbiamo posto il nostro essere da soli, per cui non ci definiamo da soli, ma la nostra identità è data dalle relazioni fondanti con Dio e con i nostri simili.
Quando l’uomo non sa più pensare la differenze, la sua umanità è a rischio
Giulio Maspero
Oggi il postmoderno ha paura delle differenze, e quindi delle relazioni vere, perché la modernità ha generato conflitti muovendosi proprio a livello meramente logico, per la secolarizzazione ad essa intrinseca che l’ha portata a negare la matrice trinitaria. Ma negare le differenze vuol dire escludere la possibilità delle relazioni, perché la relazione reale porta sempre a percepire una differenza reale, e condannare le persone alla loro solitudine. Per questo oggi viviamo un double-bind culturale profondamente patologico che ci dice di essere unici adeguandoci a dei paradigmi a noi estrinseci, come se fosse possibile non essere soli da soli (e il tentativo di superare da soli la solitudine è l’essenza ontologica del peccato).
Se nel 1989 abbiamo assistito al crollo, non solo simbolico, di un muro, con la pandemia è crollato un secondo muro. Il primo muro definiva il profilo di un mondo collettivista, il secondo i confini di un mondo individualista. Cosa ci aspetta? Che sfide si aprono nella prospettiva di una riflessione teologica sulla matrice relazionale della società "dopo la pandemia"?
A mio avviso, come in modo magistrale e quasi profetico aveva preannunciato Donati, ora emergono gli elementi antirelazionali insiti sia nel comunismo sia nel liberismo. Entrambi negano, infatti, la matrice trinitaria, riducendo la società ad una somma di individui o gli individui ad una funzione della società. Dopo i diversi tentativi di correggere un eccesso con l’opposto, la pandemia ha catalizzato la fine di un modello politico-economico di alternanza. Così ora la necessità di confrontarci con la crisi feroce che ci attende in questo ambito ci obbligherà a mettere mano alla vera crisi, già in atto da tempo, che è quella antropologica.
Quando l’uomo non sa più pensare la differenze, la sua umanità è a rischio. Per questo mi sento di prevedere una convergenza di forze sociali, economiche e politiche verso un serio ripensamento cooperativo del nostro mondo occidentale, che oggi, per il consumismo, è sistematicamente costruito contro il nono e il decimo comandamento, quindi sistematicamente votato all’idolatria. Il rischio terribile è che le tensioni tra i nuovi poveri esplodano. Il sistema nel quale l’occidente opulento attira le migliori forze dai paesi più poveri e corrompe loro insieme ai propri figli non potrà continuare. Il deprezzamento del prezzo del petrolio mette in crisi le rimesse dei lavoratori nei paesi arabi più ricchi, aprendo una panorama di forte destabilizzazione del mediterraneo.
Politicamente le alleanze di parte sono tutte saltate e bisogna abbandonare le polarizzazioni per aggregarsi in forme nuove attorno ai problemi reali e non alle ideologie, termine non a caso prossimo a idolo. La speranza è che i giovani possano essere attirati ad un impegno economico e politico che sia veramente a servizio dell’uomo e, quindi, delle sue relazioni.
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