Al via in Repubblica Democratica del Congo il primo progetto dell’Associazione con i Fatebenefratelli per i Malati Lontani-Afmal per migliorare l’accesso alle cure mediche per la popolazione, coadiuvando e integrando il lavoro già attivo nella regione dell’Alto Katanga. Dieci anni fa la prima missione medica per migliorare le condizioni delle persone colpite da crisi epilettiche in Senegal
Dare la possibilità si curarsi a ogni malato, in qualsiasi parte del mondo. È questo il principio che guida l’Associazione con i Fatebenefratelli per i Malati Lontani-Afmal e che lo scorso luglio ha portato un’équipe medica in Repubblica democratica del Congo per la prima missione sanitaria nel Paese per individuare i casi di epilessia presenti nell’area di Mabaya, provincia rurale di Lubumbashi. Qui Afmal ha aperto con l’associazione Amka il centro di salute di Kanyaka.
Nell’équipe partita dall’Italia era presente Anastasja Gach, tecnica di neurofisiopatologia che lavora all’Ospedale San Pietro di Roma e che da dieci anni partecipa alle missioni sanitarie con l’ong dei Fatebenefratelli in Africa. Gach nell’ultimo decennio è stata in Senegal, sempre per realizzare screening sulla popolazione e individuare così i casi di epilessia.
La missione in RdC
Nella Repubblica democratica del Congo Gach e l’équipe hanno trovato una situazione un po’ diversa da quella riscontrata in dieci anni di missioni in Senegal.
«In quella parte del Congo la conoscenza dell’epilessia tra la popolazione è veramente scarsa, quando abbiamo detto loro che si poteva curare non ci credevano. Lì viene ancora trattata come una malattia psichiatrica, oppure credono che le persone colpite dalle crisi epilettiche siano indemoniate. Alcuni temono che sia una malattia contagiosa», osserva Gach.
Che aggiunge «In Senegal, soprattutto a Dakar abbiamo trovato una maggiore conoscenza della patologia, certo anche lì nelle zone rurali tutto viene curato con la medicina tradizionale».
Credono ancora che le persone colpite dalle crisi epilettiche siano indemoniate. Alcuni temono che sia una malattia contagiosa
— Anastasja Gach, Afmal
L’importanza della formazione
Per questo è fondamentale nei progetti che vengono portate avanti da Afmal non solo realizzare screening in occasione della presenza dei sanitari in missione, ma soprattutto fare formazione al personale sanitario locale. Senza tralasciare di formare quelli che sono i relais communautaire (i portavoce dei villaggi) e i familiari per informarli sui sintomi e la gestione delle crisi.
Uno dei nostri compiti è anche quello di spiegare che si tratta di una malattia di cui non vergognarsi
— Anastasja Gach, Afmal
Al centro di salute di Kanyaka, finanziato da Afmal sono stati fatti oltre 135 screening con l’elettroencefalografo e sono stati riscontrati 35 tracciati positivi all’epilessia. «Un’incidenza molto elevata», osserva Gach che sottolinea anche come da un lato le persone che sono state esaminate erano casi sospetti.
La soddisfazione dei pazienti
«Uno dei nostri compiti è anche quello di spiegare che si tratta di una malattia di cui non vergognarsi, spesso alla prima crisi i parenti hanno paura di essere contagiati, le persone vengono in qualche modo nascoste». A colpirla anche le molte ragazze con il volto ustionato perché «quando sono state colte dalla crisi epilettica erano davanti al fuoco», ma soprattutto in positivo «la soddisfazione dei pazienti per aver ottenuto una diagnosi».
Un’emergenza nascosta
A missione conclusa, Anastasja Gach, quarantenne romana, tornando con la mente e i ricordi alle giornate in Congo, sottolinea come «Il problema principale per questa patologia è l’assenza di farmaci». Per cui il primo impegno con Afmal sarà «realizzare delle campagne di raccolta fondi per poter inviare le medicine indispensabili per tenere sotto controllo le crisi. Ma soprattutto continuare lo screening»
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L’epilessia in Africa è «un’emergenza nascosta» spiega. «In Paesi dove i parti sono sono difficili e poco assistiti si nota un’incidenza in aumento dovuta a traumi perinatali, ma ci sono anche altri fattori come le meningiti o i traumi». Ma una volta individuati i casi, il passo successivo, insiste «è procurare le medicine»
Dopo la missione sul campo
Al rientro dal Congo, l’ong dei Fatebenefratelli ha realizzato un video dell’intervento a Kanyaka per organizzare anche delle cene di raccolta fondi «La prima l’abbiamo già fatta», sottolinea Gach.
«Questo prima missione in Congo ci è servita per capire se ci fosse la necessità del nostro lavoro, adesso spero proprio che si possa proseguire, purtroppo il tempo che noi trascorriamo sul campo è breve», osserva.
Per Gach questi dieci anni di andate e ritorni in Africa hanno un punto di origine, o meglio come la definisce lei una molla. «Mia sorella, fisioterapista, faceva delle missioni con il Bambin Gesù. Quando è venuta a mancare ho cercato di capire qual era l’origine delle emozioni che mi raccontava».
All’inizio, ammette «parti con l’idea di essere utile, ma poi non riesci più a smettere perché le emozioni che si vivono in questi progetti le porti a casa, l’Africa ti travolge. Perché molte di quelle emozioni sono negative: ti imbatti in zone davvero povere, dove le condizioni igieniche sono terribili».
Un’esperienza contagiosa
A rendere positiva l’esperienza «è il riscontro di molti colleghi di lavoro che negli anni hanno chiesto di partecipare a queste missioni. Il racconto che io e altri abbiamo fatto ha spinto molti a partire con Afmal», conclude.
Nell’immagine in apertura il Centro sanitario di Kanyaka realizzato da Amka con il sostegno di Afmal in RdC – foto di Andrea Ranalli
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