Una piccola piazza che si affaccia su Corso Italia a due passi da Piazza Missori. Pieno centro di Milano. È qui che abbiamo appuntamento con il prof. Philippe Daverio. Nella corte storica del palazzo si affacciano le finestre sia dello studio che dell’abitazione privata del critico d’arte. Suoniamo alla porta dello studio ed escono due collaboratori. «Il maestro non c’è». Doccia fredda. Dopo qualche convulsa chiamata si scopre che ci attende nel suo appartamento. «La prossima volta non organizzatevi con lui, chiamate noi. Altrimenti finirete sempre triturati dalla sua agenda infinita», ci ammonisce uno dei collaboratori. Cambiamo scala e finalmente arriviamo alla porta giusta. La casa è in un disordine organizzato di libri e oggetti di ogni tipo. Philippe Daverio, come ci avevano anticipato allo studio, non è solo e ha da fare. È in compagnia di Stefano Gazzillo, mastro sarto casertano con atelier a Carrara, con cui c’è un apprendista, il nipote Niccolò. In lavorazione, poggiati su letti e poltrone una decina di vestiti di fogge, colori e tagli di ogni tipo.
L'atelier di Stefano Gazzillo
«Potete aspettare per questa cosa?» ci chiede subito Daverio, guardando con la coda dell’occhio l’altra stanza con i sarti al lavoro. Poi lo sguardo gli cade sulla telecamera. È un attimo, un guizzo dello sguardo, e la decisione è presa: «Gazzillo mi scusi, ha altri appuntamenti vero? Non le dispiace se le chiedo di andare da questi altri clienti e tornare poi qui da me. Avrei da fare un’intervista».
Mentre si prepara la videocamera c’è tempo per guardarsi intorno e chiaccherare. Dalla massa di oggetti, opere e libri spiccano un busto romano alla cui base sono adagiati una falce e un martello incrociati, a richiamare il simbolo comunista. «Chi è la statua?», chiedo. «È Scipione. Gli attrezzi invece li ho comprati in Svizzera, ad un mercatino, c’è su ancora il cartellino con il prezzo in franchi». Dall’altro lato, poggiato su una scrivania, un bel quadro astratto. «Di chi è Maestro quell’opera?». «Di un artista che si chiama Gunter. Il cognome non lo ricordo. Io compro solo lavori di persone con cui ho avuto un rapporto, che ho conosciuto». Per dimostrarlo mi accompagna in un salone. Tra poltrone d’epoca, colonne, strumenti da lavoro ormai desueti e quadri spicca un bellissimo lampadario di vetro rosso. «È di Micheletti, un bravissimo mastro vetraio di Murano». L’attrezzatura è pronta, bisogna solo decidere dove metterci: «Direi che l’unica possibilità è lì in mezzo al disordine, non ci sono alternative. Daverio si accomoda alla sua scrivani e aspetta che si accenda la luce rossa della telecamera, poi inizia lo show».
L’argomento è ampio e complicato: il passato come tesoro italiano. Con Philippe Daverio però diventa tutto facile.
Si comincia da quella che il critico d’arte definisce il «dato stabile che nasce proprio dalla storia del borgo italiano: la partecipazione del singolo ai destini della comunità». Più semplicemente il volontariato.
«La questione è abbastanza semplice», chiarisce Daverio, «perché noi siamo tutti convinti che fundraising e charity siano cose inglesi, per via delle parole con cui vengono identificate. Ci dimentichiamo che a metà del 1400 a Milano fu fatta la Festa del Perdono come raccolta fondi per la costruzione della Cà Granda e che Papa Pio II Piccolomini diede un’indulgenza per chi partecipava. E allora in realtà la tradizione del fundraising non è una tradizione anglosassone. Nasce proprio in fondo alla nostra civiltà. Così come ci dimentichiamo che la Croce Rossa che è stata fondata alla fine del 19 secolo in realtà aveva un’antenata che era la Misericordia fiorentina e che funziona tutt’ora con migliaia e migliaia di volontaria fu fondata a metà del ‘200». Insomma «il volontariato è una delle caratteristiche italiane più diffuse. Non per niente tutt’ora il numero di volontari che non agiscono con denaro ma col proprio lavoro nel campo sia interno assistenziale che internazionale è il più elevato d’Europa. L’Italia ne dovrebbe andare più fiera e troppo spesso se ne dimentica» aggiunge.
Certo l’origine del volontariato è mista e corrisponde fino in fondo a ciò che è l’Italia: «Una parte è legata alla partecipazione del mondo della Chiesa, una parte alla partecipazione del mondo del borgo. In questo incrocio fra tradizione ecclesiale e civica sta oggi la forza che spinge ancora gli italiani a partecipare. Ecco perché sono pronti a dare e a lavorare. Ed è un peccato che lo Stato non se ne sia ancora reso conto».
E in effetti solo oggi ci sono nuove normative che cominciano ad immaginare le prime vere defiscalizzazione. Ma Daverio non sembra impressionato: «È un primo passo avanti. Però tra questa normativa e quella americana la distanza è abnorme. Da noi entra in una quota sulla dichiarazione fiscale che è una sorta di epsilon rispetto alla dimensione che possono assumere le donazioni nel mondo anglosassone. Laddove siamo grandiosi e gloriosi è nel volontariato umano, quello fisico non economico. Lì battiamo tutti. E forse anche qui una presa di coscienza maggiore dell’importanza di questo settore nella nostra vita pubblica andrebbe presa in alta considerazione». «Calcolando anche che non si deve pensare che il volontariato sia del tutto privo di coinvolgimenti economici. Si può essere pagati molto meno che nel lavoro di ufficio ma non vigono le regole drammatiche del mercato del lavoro italiano, innegabilmente il più arretrato del mondo. Viviamo un momento di grandissimo disordine prospettivo, cioè il mercato del lavoro è qualcosa che possono capire solo esperti di alchimia medioevale e il rapporto tra sindacato e impreso riguarda ancora i rapporti del feudalesimo. Siamo totalmente fuori dalla realtà contemporanea europea».
In questa potente dicotomia tra un mondo che ha una volontà partecipativa storica, fisiologica e cromosomica e una mondo in parte anchilosato si pone dunque per Daverio la questione di oggi. E la funzione del volontariato diventa sempre più importante.
Anche per quello che riguarda il tema più amato dal nostro intervistato. «Sulla questione del patrimonio artistico la faccenda si fa ancora più complicata. Oggi esiste una piccola defiscalizzazione per chi contribuisce alla manutenzione del patrimonio artistico. Ben venga. Però bisogna anche tenere conto di un dato oggettivo. Negli Stati uniti il massimo delle imposte che paga un individuo è il 33%. Qui in Italia è circa il 90%. Allora se pago il 90% perché sono abbiente, porca miseria, non servirà solo a fare le feste al Consiglio regionale del Lazio e ad avere le auto blu. Servirà anche al patrimonio. Quindi da noi la partecipazione del privato al patrimonio pubblico è molto complicata. Vogliamo fare come gli americani, che chi dona viene defiscalizzato? Bene allora dobbiamo anche pagare le tasse come fanno gli americani. Altrimenti questi trip nuovo del legislatore che chiama il singolo a contribuire ulteriormente rispetto al contributo che ha già lasciato con il suo pagare la tasse ha il sapore della beffa. L’art bonus è in qualche modo una presa in giro dell’imposizione fiscale italiana». In ogni caso questa partecipazione, che affonda le proprie radici al cuore della nostra civiltà e che rappresenta la nostra caratterizzazione genetica, rischia di venire smarrita. «Pensiamo a cosa sono le Scuole veneziane attorno alle Chiese come luogo di aggregazione laica e di formazione della comunità. L’Italia ha un passato straordinario che tende a dimenticare perché in fondo la realtà di oggi ha preso una direzione opposta. Il Paese della partecipazione è diventato il Paese degli egoismi. Una mutazione che è in corso».
Oggi l’Italia segue l’indicazione di Ingmar Bergman quando diceva che “Il segreto della felicità è una buona salute e una cattiva memoria
Daverio sa rendere molto bene l’idea di quello che intende. E per far capire il “dramma” italiano lancia una citazione che porta la mente a Passpartout: «Oggi l’Italia segue l’indicazione di Ingmar Bergman quando diceva che “Il segreto della felicità è una buona salute e una cattiva memoria”». E infatti: «La sanità in Italia, almeno nel nord, è estremamente buona. La memoria invece è nulla. Noi non ci ricordiamo niente. Tutto il nostro Paese è una nebulosa indistinta della quale sono responsabili in gran parte le aree di comunicazione del Paese. L’università non ne parla quasi per niente. La tv fa trasmissioni di gossip più che storiche. Sappiamo tutto sulle faccende private e i pettegolezzi del ventennio e della famiglia Mussolini e abbiamo dimenticato la nostra radice storica. È stata annullata. L’Italia non è più in grado di percepire cos’era prima dell’unità. Nessuno si ricorda di dati banali. Come che la prima abolizione della pena di morte nel mondo è una questione fiorentina del 18esimo secolo. Siamo stati pionieri nei diritti civili e nella partecipazione».
Il borgo medioevale
E ad essere dimenticato soprattutto è quello che Philippe Daverio identifica come la fonte e il motore che ha plasmato il gene dell’italianità. «Nessuno sa più cosa sia il borgo medioevale. Su cui andrebbe aperto un capitolo a parte. Il borgo si da delle regole che sono la mutazione delle regole della vita monastica. Le prime società fra persone che si organizzano nel crollo dell’Impero Romano e nel disfacimento della struttura amministrativa sono quelle monastiche. La regola, da Benedetto e Gregorio Magno, è una regola che applicherà una serie di indicazioni comportamentali. Non è una regola di fede ma di cosa si fa per stare insieme. Di come bisogna fare per non litigare. Il testo di San Benedetto è straordinario, un decalogo di comportamento che avrà nel giro di poco tempo conseguenze molto importanti nel recupero della tradizione greco-orientale e che va a determinare cosa siano i vizi capitali».
I vizi capitali e l’accidia
Per Daverio infatti la regola della vita urbana italiana inziale è in qualche modo relativa ai vizi capitali. «Stabiliva, in sostanza, cosa non bisogna avere, come inclinazione caratteriale, per consentire ad una comunità di esistere. Un esempio semplice è la superbia. Per un cavaliere germanico dello stesso periodo la superbia era un elemento necessario del suo lavoro. Non fosse stato superbo non sarebbe partito col proprio ronzino per menare il vicino. Così come l’ira è uno strumento fondamentale. Un cavaliere senza ira e superbia non è un guerriero». E allora perché da noi nel borgo italiano vengono definiti vizi capitali e considerati sbagliati? «Perché entrambi diventano handicap per la convivenza. Perché l’accidia è un vizio capitale, anche se la gente non sa più neanche a cosa si riferisca? Non si tratta di pigrizia, quella non è grave, se uno è pigro non fa nulla, quello che conta è che sia partecipante. L’accidia invece è la fotografia del Parlamento italiano, dove tutti sono pagati per fare qualcosa ma fanno altro e non sono presenti. L’accidia diventa vizio fondamentale nel borgo medioevale perché significa non partecipare alla vita comune e alle sorti del borgo. E si tratta di un crimine. Perché mette a repentaglio la vita stessa del borgo. Su questi valori ancestrali si forma la mutazione rispetto al mondo antico romano. L’elogio di Orazio per la pigrizia, per l’otium, viene abolito e si forma un’etica nuova. Noi siamo figli di questa etica anche se non la pratichiamo. Fa parte del nostro Dna antropologico».
Su questi valori ancestrali si forma la mutazione rispetto al mondo antico romano. L’elogio di Orazio per la pigrizia, per l’otium, viene abolito e si forma un’etica nuova. Noi siamo figli di questa etica anche se non la pratichiamo. Fa parte del nostro Dna antropologico
Il borgo oggi
Una realtà quella del borgo di cui oggi non rimangono molte tracce architettoniche, «è ormai una decorazione dimenticata in mezzo alle campagne o massacrata dalle costruzioni fatte secondo la normativa vigente». Ma continua a vivere da un punto di vista culturale e di tradizione. «È da lì che nasce la parola borghesia. Non è vero quello che dice Max Weber che la borghesia è nata con il capitalismo, dallo spirito protestante. Questo sarà vero per i tedeschi. Ma la prima borghesia d’occidente vera, che si articola con la sua capacità di essere in costante conflitto di dibattere fino in fondo, di avere un partito contro l’altro, ma trovare un’unità sull’interesse comune, è la borghesia del borgo italiano medioevale». Una partecipazione alla vita della comunità che oltre alla borghesia genera anche la nostra identità di cittadini. «Si va a definire un distinzione fondamentale tra quello che diventa cives, in quanto partecipe del borgo, e quello che sta fuori dal borgo: il contado, i contadini. Chi è “schiavo” della nobiltà, il contado, è fuori dalla compartecipazione di interessi del borgo. Ecco spiegato perché il borgo è un pezzo fondamentale dell’italianità e solo dell’Italia».
Il modello antropologico italiano
Ma cosa c’entra questo con noi. Cosa c’entra il borgo con l’Italia di oggi? Per Daverio è lapalissiano:«Il passato esiste in ognuno di noi. Nel momento in cui cominciamo a parlare, dialoghiamo con i parenti poi con gli amici. Certe sensibilità sono stabili. Gli italiani hanno un’intelligenza del polpastrello che non hanno gli altri. L’italiano, se tocca una stoffa o un mobile, ha una percezione che un cinese fatica ad avere. Perché ha un’altra visione del mondo». Una visione che gli viene da quel borgo, da quella partecipazione da quella borghesia, dall’essere cives. «Questa fisicità del fare e del lavoro è una grande risorsa dell’Italia. Ed è quella che dovrebbe stimolare il Paese ad immaginare il proprio futuro. Il vero dramma di oggi è che nessuno immagina e pensa che esista il futuro», spiega Daverio, «tutti pensiamo che quest’anno sarà come quello successivo. Se io chiedo oggi ad un politico come vede l’Italia nel 2030 è come se gli chiedessi come la vede nel 2330. Anche se si tratta di soli 15 anni. Siamo un paese totalmente a tempo piatto. Il progetto su che tipo di funzione possa svolgere questa penisola nel Mediterraneo nei prossimi decenni dovrebbe partire dalla nostra cultura storica e dal patrimonio enorme che ha ereditato. E invece questa ricchezza si sta sbriciolando. Nessuno se ne occupa. Quello che dovrebbe e potrebbe essere un luogo che gioca una funzione di traino nell’economia mondiale di domani rimane dimenticata. La questione è tutta qui».
Polpastrelli in azione
«Un mio amico che non c’è più era a capo della più grande seteria di Como. Quando salutava un amico non dava la mano. Toccava la cravatta. Perché toccando duecento cravatte al giorno teneva allenato il suo polpastrello». Uno dei tanti racconti che Daverio butta sul tavolo per dire che non tutto è smarrito. Che ancora oggi ci sono i polpastrelli italiani. «Se giro fra chi si occupa di design, tra le aziende che fanno prodotto, dalla moda fino al mobile, vedo quanto ancora questo dna sia vivo. E a dirla tutta c’è anche un polpastrello nuovo, che si occupa di gusto: la cucina. Gli italiani sono ancora dei maghi in questo campo».
Il problema riguarda i numeri. «I polpastrelli sono in una quantità ridotta rispetto ad un paese che chiede un’assistenza perenne e non ha più voglia di lavorare. Diciamocelo: in Italia non lavora più nessuno. Fanno prodotto circa 8/9 milioni di italiani su 60. In Germania son 30 su 90. Un Paese con una partecipazione così scarsa non riesce a stare in piedi». E qui si torna all’incipit: «Per fortuna esiste il volontariato. Un’area della non competitività ma della competizione. Chi sta nel volontariato infatti non deve dimostrare di essere il migliore ma di esserci». Che la risposta stia in tutte quelle forme ibride tra terzo settore e impresa?
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