Ucraina

Dall’Italia a Mykolaiv, macinare chilometri per costruire la pace

di Anna Spena

Con una delegazione del Mean, movimento europeo di azione non violenta, siamo stati a Brovary, nell’Oblast di Kiev, dove grazie alla collaborazione tra la società civile italiana e quella ucraina è nato il primo “Peace Village”. E 500 chilometri più in basso, verso Sud, a Mykolaiv, la città che è stata uno scudo umano per Odessa, dove «i russi stanno dissanguando la popolazione con l'acqua», racconta il militare Venceslao, nei villaggi occupati, distrutti e poi liberati dalle forze ucraine, nascerà il secondo villaggio

Il tempo della guerra è l’imperfetto. Era un ufficio. Era un albergo. Era una scuola. Era una casa

Qui Przemyśl

Poco meno di un anno fa la stazione ferroviaria di Przemyśl, un comune polacco nel voivodato della Precarpazia, a 15 chilometri di distanza dalla frontiera con l’Ucraina, aveva un odore preciso: l’odore di corpi ammassati. E si riempiva di due profili: i visi dei bambini messi in salvo dalle madri, per loro scappare significava la possibilità di una vita nuova, e i visi degli anziani, fermi nella loro disperazione composta, per colpa di una guerra insensata. Dalla Polonia sono passati più di nove milioni di profughi ucraini e dalla Polonia oltre 7 milioni sono rientrati nel Paese. Poco meno di un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina la stazione di Przemyśl è tornata a com’era prima dell’inizio della guerra, un luogo di arrivo e di partenza. Il treno notturno che parte da qui e arriva fino a Kiev, 500 chilomentri di distanza, è pieno, senza essere affollato.

C’erano rimaste nella testa le immagini di vagoni carichi dei rifugiati e dalla loro disperazione, che stretti gli uni agli altri riempivano le cabine e i corridoi. I treni sono sempre gli stessi, con le cabine piccole e i corridoi stretti. In due le persone non riescono a passare, c’è bisogno che almeno uno della coppia che si incrocia, si giri di profilo. I treni sono lenti, i vagoni traballano sulle rotaie. Sul punto di frontiera si fermano a lungo, i militari ritirano e controllano i documenti: bisogna registrare chi entra in Ucraina. In questo anno abbiamo imparato a riconoscere anche i passaporti ucraini. Li abbiamo visti stretti nelle mani di chi fuggiva. Il blu intenso della copertina, le scritte in cirillico, di colore giallo vivo, lo stesso della bandiera del Paese, lo stemma dell’Ucraina: uno scudo blu con il tridente d’oro. E le mani dei militari si riempiono di questi passaporti qui: gli ucraini vogliono tornare a casa.

Elena ha 43 anni, vive a Kiev, lavora per un’azienda che commercializza spezie. «Da qualche mese», racconta, «ho ricominciato le trasferte di lavoro. Parto e poi torno a casa mia». Nel vagone 27, un vagone notte, anche Lidia, 48 anni, la pelle chiarissima e i capelli tagliati a caschetto, nero corvino: «Quando è iniziata la guerra da Charkiv ho trovato rifugio a Leopoli, sono stata lì sette mesi, poi mi sono spostata a Kiev». Nella sua città natale è tornata solo una volta, lo scorso agosto: «Volevo vedere se la casa era rimasta in piedi. Tante persone sono rimaste o tornate a Charkiv dopo la liberazione della città, chi ha ancora un lavoro non lo vuole lasciare, ma io il lavoro non ce l’ho più».

In Ucraina 17.6 milioni di persone, il 40% della popolazione hanno bisogno di assistenza umanitaria. Otto milioni di persone sono rifugiate in altri Paesi, sei milioni sono diventate sfollati interni. Ma i numeri descrivono senza raccontare. Che cos’è una casa distrutta, una persona amata al fronte, la paura ad ogni allarme antiaereo, l’abitudine agli allarmi antiaerei, la contraerea ucraina che abbatte l’80% dei missili russi, il 20% dei missili che supera lo scudo, le città sotto assedio, la vita nei rifugi, le vittime militari, le vittime civili, perdere il lavoro, non avere medicine a sufficienza e quindi non curarsi, la fame, il freddo che Putin usa come arma con attacchi missilistici mirati alle centrali elettriche. E questo significa blackout diffusi in tutto il Paese, razionamento dell’energia, e ancora questo quindi significa interruzione delle forniture di acqua e riscaldamento, non avere la possibilità di cucinare un piatto caldo, restare isolati perché le comunicazioni diventano difficili. Eppure quando il treno notturno finisce la sua corsa e si arriva nella stazione di Kiev, la capitale, la vita sembra essere normale. No, non sembra, vuole: è la quotidianità strappata all’orrore della guerra.

Siamo ritornati in Ucraina con il Mean, movimento europeo di azione non violenta. In questo articolo “Il nostro viaggio e quello del Peace Village a Brovary e Mykolaiv”, il portavoce della rete, Angelo Moretti, spiega perché è necessario esserci, perché è necessario andare: “Ed è qui, in questi sentimenti, che si insedia tutta l’urgenza di un Corpo Civile di Pace Europeo: in questi cuori non sminati si potrebbe già preparare un’altra guerra, semmai finisse questa, perchè ad un popolo libero è stata strappata una porzione del suo cuore e la richiesta di giustizia per le città occupate con i missili non cesserà. Come non cessa il lamento della gabbiana ferita a cui hanno tolto i figli, nel più famoso canto popolare di questa terra”. Questa missione aveva un obiettivo preciso: firmare l’atto di donazione del primo “Peace Village", un rifugio climatico da consegnare al comune di Brovary.

Qui Brovary

Brovary dista 25 km dalla capitale, Kiev. È un comune di 100mila abitanti, a poco più di un’ora e mezza di macchina dalla città di Chernihiv, nell’Ucraina settentrionale. Una città vicinissima alla Bielorussia, prima dell’inizio della guerra ci vivevano quasi 300mila persone. Per arrivare a Kiev i russi avrebbero dovuto conquistare Chernihiv, così l’hanno bombardata. La metà degli abitanti è fuggita, e in molti hanno trovato rifugio a Brovary, che pure nei primi mesi della guerra non è rimasta illesa. «Dopo i primi attacchi», racconta Ihor Sapozhko, sindaco della città, «abbiamo evacuato le donne e i bambini. Gli uomini no, servivano per difenderci». Sapozhko non veste gli abiti militari, sembra un uomo mite, ha la voce sottile, segno di stanchezza.
«Una parte del nostro distretto è stato occupato dai russi, e quando il nemico è stato allontano, la città ha iniziato ad accogliere gli ucraini che arrivano dall’Est. Oggi ce ne sono 15mila». Poi continua: «L’armata russa si è fermata a 5 km da dove siamo ora, non siamo più gli stessi che eravamo prima, ma festeggeremo la vittoria dell’Ucraina nel Peace Village», sorride.

Il Peace Village sta prendendo forma in queste ore, e non ha una geometria qualsiasi. La mano che ne ha tracciato la forma non è una mano qualunque, ma quella dell’architetto italiano di fama internazionale Mario Cucinella. Tre strutture di 100 mq collegate al centro da un braciere. Tre strutture che legate così insieme restituiscono un’immagine precisa: il segno della pace. Non è solo una casa, non è solo una struttura riscaldata, non è solo un luogo per la comunità. È la solidarietà che diventa concreta, che si può toccare. Il Peace Village è un messaggio di nonviolenza che gli attivisti hanno chiamato "stayership", essere accanto, senza alcun giudizio o idea preconfezionata da impartire, ma solo una presenza che sta a significare: “non siete soli”. Un gesto che ha dimostrato che si può fare di più. E "più" in questo caso ha significato quattro tir carichi di materiale per montare il villaggio. “Di più” ha significato anche eccellenza nei materiali utilizzati, e infatti le strutture sono composte da pannelli in acciaio zincato, donate dall’azienda Scaff System, e che ogni pannello è ricoperto da uno strato isolante, che permette di mantenere il calore regalati dall’azienda Isopan. Un villaggio che è nato dalla capacità di “mettersi in ascolto” della società civile ucraina, di conoscersi, parlarsi, guardarsi, abbracciarsi.

Sergii Malik è un uomo di 56 anni, alto quasi due metri. Un campione di moto elettrica e presidente del club di auto storiche di Kiev, la città dove è nato e vive. È lui il punto di contatto tra il comune di Brovary e il Movimento europeo di azione non violenta. Ha le mani grandi, le dita affusolate che stringono sempre una sigaretta. Gli occhi chiari e vitrei, la barba lunga.

«Da quando è iniziata la guerra ho alzato la bandiera ucraina in tutte le competizioni internazionali che ho potuto».
«Come hai fatto?, non potevi lasciare il Paese…».
«La guerra non è iniziata un anno fa, combattiamo dal 2014».

Sergii ha ragione, per noi la guerra ha una data precisa: il 24 febbraio 2022. Quella che c’era prima abbiamo fatto finta di non vederla. «Al 24 febbraio 2022», racconta, «ci siamo arrivati per strati, per tensioni che si sono accumulate, e poi sono scoppiate, come scoppiano le bombe. Ma noi ucraini non abbiamo mai attaccato, ci siamo difesi, e ci difenderemo».

Sergii dal 2014 ha iniziato a portare aiuti umanitari nel Donbass, poi ha aperto la Fondazione Free Spirit of Ukraine per organizzare meglio gli aiuti quando, dopo il 24 febbraio del 2022, il bisogno umanitario si è allargato a tutto il Paese. L’invasione lui l'ha sentita così: «è come se qualcuno avesse aperto la porta delle tua cucina, avesse mangiato il tuo cibo, fosse entrato nel letto con tua moglie». E adesso più delle bombe ha una paura che si è trasformata in ossessione: «Il 60% della popolazione, e i dati secondo me sono al ribasso, soffre di disturbo post traumatico da stress. Anche se sopravvivi adesso, come fai a continaure a vivere dopo una guerra così?». Che vivere e sopravvivere sono due cose diverse.

Sergii Malik è anche un militare volontario, nelle città sotto assedio non c’è stato solo per portare gli aiuti umanitari, ma anche per combattere al fronte. «Pure mia moglie si è arruolata come volontaria», dice. «Ma sono stanco. Stanco di vedere i brandelli di carne strappati dai corpi. Dai corpi degli ucraini, dai corpi dei russi». Prende il cellulare, scorre tra le foto, lo gira. L’immagine che restituisce lo schermo è quella di un corpo umano morto: «era un militare russo, sulla divisa si può leggere ancora il nome, il cognome. E questo ragazzo ha una madre che lo sta cercando».

«Sergii, come si va avanti?».
«La provvidenza. Ogni giorno che rimani vivo, hai vissuto una mini vita tutta in quel giorno la».

Sergii Malik non è da solo a coordinare la gestione dei lavori, con lui Olexander, 50 anni, originario di Donetsk. Nel 2017 non ce l’ha fatta più a vivere sotto l’occupazione russa e ha trovato rifugio in un’altra città del Paese. È un ingegnere edile, ma adesso lavora come magazziniere. È di poche parole Olexander, dice: «Voglio tornare a casa mia, ma una casa senza l’occupazione russa. Io lo sapevo già dal 2014 che sarebbe stata una grande guerra».

Qui Mykolaiv

Il comune di Brovary è a otto ore di macchina dalla città di Mykolaiv. In un viaggio quasi perpendicolare che taglia il Paese, ripassa da Kiev e poi scende diritto verso Il Sud, arriva al confine con la Moldavia e si sposta appena di poco verso l’Est. Precisamente 617 chilometri se si passa per la statale E95. Ma le distanze si allungano sulle strade rovinate, sui ponti provvisori – quelli che c’erano prima gli ucraini li hanno fatti saltare per rallentare l’avanzata dei russi – tra i checkpoint fatti di sacchi di sabbia e cavalli di frisia. Mykolaiv si trova al centro: 130 chilometri da Odessa e 60 dall’Oblast di Cherson.
Una città di 500mila abitanti, prima della guerra, che è stata sotto l’attacco feroce dei bombardamenti dei russi per mesi, e i russi la volevano per un motivo preciso: «Conquistare Mykolaiv», racconta Venceslao, prima dell'inizio della guerra era un imprenditore, poi si è arruolato come militare volontario, «avrebbe voluto dire prendere Odessa, se i russi avessero preso Odessa avrebbero tolto all’Ucraina l’accesso al Mar Nero».

Si ferma, guarda diritto, ci pensa un attimo perché vuole trovare le parole giuste: «Siamo stati lo scudo umano di Odessa». Venceslao è in divisa mimetica, magrolino, di piccola statura, sul viso si vedono le cicatrici recenti. Sembra un uomo mite, difficile immaginarlo con un mitra stretto tra le mani. Ma la scelta di indossare la divisa è stata volontaria ed obbligata insieme: «Che dovevo fare? È casa mia. Nei primi istanti della guerra la città è stata completamente accerchiata. Il nemico non è riuscito ad entrare, siamo stati l’unico comune non occupato della zona». Ad essere stati occupati sono stati i villaggi attorno a Mykolaiv, ora liberati dalle forze ucraine. «Hanno colpito tutto», dice. «Distrutto tutto». A Mykolaiv, manca l’elettricità, come in gran parte del Paese, ma quando c’è i cittadini rimasti si sono auto limitati nel consumo. Ma ancora di più manca l’acqua che arrivava dall’acquedotto e depuratore di Cherson che è stato bombardato.

Se l’elettricità non c’è l’acqua non arriva, le pompe non hanno la forza per tirarla su. I rubinetti rimangono secchi. Ma quando l’elettricità c’è e l’acqua arriva in pratica non serve a niente: né a cucinare, né a lavarsi e neanche può essere bollita. Arriva quasi marrone, è acqua sporca. «I russi ci stanno dissanguando con l’acqua», queste sono le parole esatte di Venceslao, “ci stanno dissanguando con l’acqua”. Il bisogno di acqua era ed è così feroce che l’amministrazione ha provato a far arrivare in città acqua salata: «ma il sale ha distrutto tutte le tubature di passaggio».

La città ha il 40% della popolazione sfollata ma a sua volta ospita i rifugiati delle città dell’Est dove la guerra oggi è più feroce. Le strade sono semideserte, le finestre e le porte di quasi tutte le strutture sono coperte da pannelli di legno, in qualche luogo distrutto i vetri saltati in aria si trovano ancora sui cigli delle strade. Ecco le strade di Mykolaiv sono un percorso dentro quello che era stato e non c’è più. Perciò il tempo della guerra è l’imperfetto: era un ufficio, era un albergo, era una scuola, era una casa. «Questa era una scuola», dice Venceslao, mentre la indica. La facciata anteriore distrutta, sulle pareti i disegni dei bambini. «Nell’attacco sono morti 10 insegnanti e sono stati 60 i feriti. Ma qui attorno non c’è nessun obiettivo militare».

1/6

Vitalij Kim è il governatore dell'oblast di Mykolaiv dal 2020, prima ancora un imprenditore edile. È scampato alla strage del Palazzo della Regione dopo che un missile russo ha letteralmente spaccato in due la struttura. É un uomo popolare e amato dagli ucraini, lo chiamano "Zelensky del Sud". La delegazione del Mean lo incontra in città: «Grazie», dice. «Grazie per l’attenzione alle zone complesse dell’Ucraina».

Il progetto del Peace Village l’aveva già ricevuto e studiato. «Dopo la liberazione del fiume Bug lo scorso novembre siamo un poco più tranquilli», racconta. Più tranquilli in guerra significa vivere tutto il giorno con il suono delle sirene antiaere, con la possibilità che un missile cada, ma con una linea del fronte un poco più lontana. «Alcune zone però sono completamente distrutte, costruiamolo lì, insieme, il villaggio della Pace. Ci sono più di 100mila profughi in città, facciamolo subito, ma non solo un rifugio, ma un posto dove le persone possono ricominciare a stare bene».

Le strade che collegano la città ai villaggi verso l’Oblast di Cherson sono deserte e distrutte, in certi punti i campi sono minati. Il secondo Peace Village nascerà qui, nei luoghi che prima erano occupati dai russi e poi sono stati liberati.

L’anno passato dal 24 febbraio 2022 non ci restituisce solo un catalogo degli orrori, ma anche un’infinità di bene, di azioni che hanno il merito non solo di sostenere le vittime ma anche di indicare la via per un futuro desiderabile, non più di guerra ma di pace e perciò di fraternità. Una fraternità intravista come almeno desiderabile anche se ancora lontana. L'editoriale del numero del magazine da oggi in edicola. E un appuntamento il 20 febbraio).

Credit Foto Luca Daniele

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