il libro di uno dei fondatori e leader di Memorial, vincitore del Premio Nobel per la Pace 2022, Boris Belenkin, Non lasciare che ci uccidano, uscito per Rizzoli.
Come afferma lo stesso Belenkin in numerose interviste non si era posto il compito di scrivere la storia del Memorial, ma il libro si è rivelato in effetti la storia non di Memorial, ma anche del Paese.
Trentacinque anni di Memorial sono praticamente trentacinque anni della Russia moderna. E il Memorial ha vissuto questo tempo insieme al Paese, insieme alla gente, dal trionfo della democrazia alla fine degli anni ’80 inizio anni ’90 fino all’attuale catastrofe della società civile in Russia. Oltre a questo, ogni storia di qualsiasi organizzazione, e il Memorial è stata la più grande ong in Russia in tutti questi anni, è sempre una storia di persone. E Boris descrive in modo molto coinvolgente sia il suo percorso di vita che il percorso delle persone a lui vicine, che insieme a lui hanno fatto questo pezzo di strada.
L’inizio del libro è dedicato alla fine del Memorial in Russia. Boris descrive il processo extra-legale che ha distrutto la possibilità legale dell’esistenza della società del Memorial e ha portato alla sua distruzione.
Memoriali è le persone che ne fanno parte
«Se solo il lettore avesse potuto essere presente quel giorno in tribunale, sono convinto che l’impressione più forte sui presenti l’avrebbe provocata il giudice. Ce l’aveva scritto in faccia, si capiva dal suo modo di parlare, dall’intonazione della sua voce, dal suo comportamento. Era come se mi dicesse: ma perché mi fai perdere tempo, perché mi costringi a starti dietro, tanto è già tutto deciso, non lo capisci? Per quasi tutto il processo il giudice era rimasto seduto con le guance paffute tra le mani, lasciando una stretta fessura solo per gli occhi.
A essere onesti, speravamo che un caso così grande, sostenuto da decine di petizioni, ricco di materiali a discolpa messi agli atti, carico di problemi e obiezioni, non potesse essere liquidato in una sola udienza. Le nostre avvocate, inoltre, si aspettavano che il processo venisse rinviato e che per quel giorno non venisse presa alcuna decisione. Speranze vane».
Ma come accennato in precedenza, il Memorial sono, prima di tutto, le persone ad esso associate. Proseguendo, Boris svela la storia di straordinarie relazioni umane che erano, sono e saranno il fondamento su cui poggia tutto.
Dar voce alla vittime di Stalin
La creazione stessa di Memorial è un’opportunità per dare voce a persone che hanno sofferto principalmente a causa delle massicce repressioni staliniste. Durante gli anni del potere sovietico, le famiglie russe svilupparono una sorta di tabù nel parlare della sorte dei parenti stretti che morirono o soffrirono a causa delle azioni dello Stato. «Infatti, a caratterizzare, con la sua particolarità e assurdità, la situazione storica in Unione Sovietica era il fatto che milioni di persone – testimoni, vittime, complici e autori, o addirittura tutte queste cose contemporaneamente – non ebbero la possibilità di raccontare il proprio vissuto, né a livello individuale né a quello comunitario. Fu solo dopo l’avvento al potere del nuovo segretario generale del Partito comunista, Gorbačëv, nel 1985, e anche allora non subito, che il tema della repressione politica cominciò gradualmente a entrare nel dibattito pubblico. Molto gradualmente e con molte riserve e restrizioni. Fu sullo sfondo di questo permesso limitato, di questa ancora semi censura, che nacque spontaneamente in seno alla società un’iniziativa pubblica che presto si trasformò in quello che è stato chiamato Memorial.
Nella seconda metà del 1987 un gruppo di storici si convinse che fosse giunto il momento di erigere un memoriale alle vittime della repressione politica nell’Urss. Si doveva costringere le autorità a una divulgazione più radicale della verità storica, all’apertura degli archivi ancora inaccessibili ai ricercatori e alla declassificazione dei documenti riguardanti la storia delle repressioni».
Gli inizi, un archivio e un luogo per ritrovarsi
Grazie agli sforzi e all’aiuto del noto poeta sovietico Evgenij Evtušenko e dello scrittore Ales Adamovich, il Memorial ricevette i locali per un archivio, un museo e una biblioteca, nonché un luogo per incontri con parenti e vittime della repressione.
Il successivo crollo dell’Urss fu vissuto dalla popolazione come un trauma storico. Sotto molti aspetti, l’accaduto ha ancora conseguenze tragiche per la società russa. Boris Belenkin definisce in modo molto accurato il problema, che non è stato ancora risolto e che sta diventando una seria sfida per il futuro storico della Russia: lo Stato russo non ha mai fatto il punto sul tragico passato sovietico né si è assunto la responsabilità della repressione del proprio popolo.
«Tutto ciò accadde in un contesto nel quale, rispetto al passato, mancavano una coerente strategia politica e un’opportuna valutazione giuridica del sistema sovietico. Sotto Putin, al principio degli anni Duemila, ebbe inizio il contrattacco alla società civile, tuttora in atto. E le libertà politiche e civili fondamentali furono progressivamente limitate: libertà di parola, di riunione, di attività politica, tutto cominciò ad essere circoscritto. Il costante richiamo di Memorial alle repressioni di massa andava ormai contro la tendenza generale di normalizzare il passato sovietico. La maggior parte della popolazione sosteneva il potere di Putin oppure era completamente indifferente alla cosa. Il fatto che il tempo della relativa libertà per le organizzazioni non governative stesse passando, o fosse già passato, divenne evidente abbastanza rapidamente. Con l’aiuto della propaganda un forte potere autoritario fu venduto come uno dei valori principali della società e il simbolo più sorprendente di questo potere, Stalin, riapparve, trasformandosi, nella coscienza di massa, da organizzatore della repressione in creatore di una grande vittoria».
Tutto il lavoro successivo di Boris, insieme ai suoi colleghi, ha riguardato l’organizzazione dell’archivio del Memorial. Una parte importante di questo lavoro è stata la registrazione e la documentazione delle testimonianze dei prigionieri politici sopravvissuti e dei loro figli. Questo argomento tabù, attraverso l’educazione alla memoria, diventa la voce, o addirittura il grido, di chi prima non parlava più.
«All’inizio di dicembre 1988 cominciai a ricevere, dentro il Memorial, le vittime delle repressioni o i loro parenti. E nel farlo io stesso scoprii che tutti i parenti di quanti furono repressi o morirono nei campi si erano privati di una memoria familiare. Il loro ricordo era rimasto nascosto al mondo. Per la prima volta nella loro vita, semplicemente venendo lì, persone profondamente traumatizzate si alleggerivano del loro insopportabile dolore, di ciò che avevano occultato accuratamente per decenni, anche ai membri della loro stessa famiglia.
Quando si ruppe la diga dell’oblio
Senza il lavoro dentro Memorial, non sarei mai venuto a conoscenza del sentimento di imbarazzo, quando non addirittura di paura, provato dai familiari anche dopo la riabilitazione dei propri congiunti, morti nei campi o uccisi, avvenuta intorno agli anni Cinquanta. Quel legame familiare continuava ad apparire ai loro occhi pericoloso, tanto da sforzarsi di mascherarlo, anche a costo di non conoscere dettagli ulteriori circa la vita dei parenti, saperne di più riguardo al processo e alla condanna. Solo più tardi, grazie alla perestrojka e alla glasnost, alle pubblicazioni sulle repressioni staliniane che riempivano le pagine di giornali e riviste, alla nascita e all’attività di un’organizzazione come Memorial, molte persone decisero che era possibile portare alla luce ciò che prima era stato censurato, consegnato all’oblio. Vidi io stesso, allora, come si ruppe la diga di questo oblio. Tutto ciò suscitava solidarietà, a volte pietà, o indignazione, sentimenti che non si dovevano mostrare in nessun caso davanti all’interlocutore. Tra i traumi che ancora scottavano c’erano, per esempio, i figli delle persone represse che venivano respinti o espulsi dal Komsomol, la gioventù comunista, cosa che in seguito avrebbe influito negativamente sulla possibilità di ottenere un’istruzione superiore e un buon lavoro. La strada alternativa era quella di compilare i questionari di ammissione mentendo, nascondendo la verità. A dire il vero non mi sono mai imbattuto in casi in cui un figlio avesse abiurato un padre o una madre repressi (cosa che, in effetti, negli anni del Grande Terrore non era un evento raro), ma, credo, se una cosa del genere fosse accaduta davvero nella vita di qualche mio interlocutore, difficilmente avrebbe avuto la forza di ammetterlo».
Durante il suo lavoro di ricerca, Boris Belenkin ha scoperto un dettaglio interessante: «Nelle famiglie degli “ex” – nobili, ufficiali bianchi, membri di partiti non bolscevichi – dove c’era una certa familiarità con espressioni di dissenso, la memoria familiare si era conservata meglio rispetto alle famiglie dei funzionari del Partito comunista, dei ministeriali, dei semplici militanti comunisti e dei cosiddetti «bolscevichi senza partito», come scrisse il poeta Osip Mandel’stam in un verso del 1935 riferendosi a se stesso.
Il segreto assoluto sui religiosi
C’era poi un’altra categoria dove il segreto familiare restava oscuro perfino ai nipoti: quella dei religiosi. Tutto ciò che si riferiva al parente represso (occupazione, luogo di servizio e addirittura arresto) veniva nascosto in maniera totale. Ai figli dei religiosi erano precluse tutte le strade che portavano a una buona istruzione e a un impiego dignitoso. Accadeva più di frequente che con il genitore-pope ancora in vita il figlio ripudiasse pubblicamente non solo la fede, ma il padre medesimo. E se per qualche motivo ciò non era avvenuto con il padre in vita, dopo la sua morte (di regola consumatasi in un campo di lavoro o nei sotterranei di un carcere), i figli cercavano con ogni mezzo di celare la loro origine. Di conseguenza, i nipoti erano completamente all’oscuro della loro relazione con l’uomo di chiesa che aveva subito l’arresto o la fucilazione, perché tutte le cose che lo riguardavano (foto, documenti di vario genere che ne indicavano l’origine e potevano far pensare a una qualche relazione) erano state distrutte. Nella memoria familiare dei nipoti erano rimasti solo incomprensibili accenni e sospetti. Di regola, dunque, venivano da noi, a Memorial (e hanno continuato a venire fino a poco tempo fa addirittura i pronipoti!), con il sospetto che l’antenato fosse stato un religioso, ma conoscendone di fatto solo nome e cognome. In Memorial, il mio culto della memoria ha trovato nuova linfa, alimentato dalle storie di quanti sapevano poco o nulla dei loro cari e venivano da noi, disperati, con la speranza di trovare almeno qualche informazione; si è quindi espanso, riverberando in echi collettivi dinamiche che prima credevo solo intime».
La perdita irreparabile di Sacharov
La figura del fondatore di Memorial, il premio Nobel e accademico Sacharov, e soprattutto la sua morte, ci fanno riflettere sulla questione. Perché dopo la morte di Sacharov, negli anni ’90, non è apparsa alcuna figura di calibro paragonabile?
Boris Belenkin scrive: «La morte di Saсharov, avvenuta il 14 dicembre 1989, la notte successiva all’apertura dei lavori del II Congresso dei Deputati del popolo, sorprese tutti. Il Paese perse non solo un premio Nobel e una figura pubblica eccezionale, soprattutto perse una possibilità. Se ne andò uno straordinario leader politico. La più grande disgrazia fu che allora, all’interno del campo democratico, non ci fosse nessuno che in termini di peso politico e autorevolezza potesse anche lontanamente avvicinarsi alla figura di Sacharov. Tutta la vita politica dopo la sua morte e fino ai primi anni Duemila è trascorsa sotto il segno della sua assenza. L’esito ignominioso – il regno di Putin – è anche il risultato di questa assenza».
La Giornata del ricordo
In quello stesso periodo, il 30 ottobre 1990, Memorial ha promosso la celebrazione della Giornata in ricordo delle vittime della repressione politica, diventata ormai tradizione. Questa tradizione esiste ancora oggi ed è un evento importante nell’educazione della memoria. «In occasione della Giornata in ricordo delle vittime della repressione politica (celebrata per la prima volta nel 1974 dai dissidenti imprigionati), Memorial organizzò una manifestazione in piazza della Lubjanka. Dopo il tramonto migliaia di persone formarono un anello intorno alla sede del Kgb tenendo in mano una candela. Il significato simbolico di quella sera fu enorme e ancora oggi ho la sensazione di aver partecipato a qualcosa di straordinario, che non si era mai visto prima e che le autorità non cercarono in alcun modo di impedire».
I capitoli centrali del libro sono dedicati ai singoli colleghi di Boris Belenkin, senza i quali Memorial non esisterebbe.
Prima di raccontare le storie di queste persone, l’autore descrive la vera e propria “missione” di Memorial: «Memorial è la memoria del passato rivolta al futuro. E una combinazione di diversi progetti che, come tanti affluenti, sfociano in un unico ampio fiume. Memorial si occupa di diritti umani, ne monitora il loro rispetto e le loro violazioni. Il fatto è che i diritti umani sono sempre stati violati in Russia, soprattutto nei secoli XX e XXI. Ciò significa che Memorial è anche una storia di violazioni dei diritti umani, e tutte le violazioni odierne piantano le loro radici nel passato. Memorial, con la sua storia e le sue finalità, è una casa aperta a tutti coloro i quali ne condividano i valori. Una casa in cui coesiste una comunità unica di intellettuali, persone dal grande talento e spessore culturale. Lavorare e avere un rapporto costante con tutti loro è un vero piacere. I membri di Memorial non sono, però, persone fatte in copia. Hanno gusti diversi, una formazione diversa: ci sono tecnici, letterati, biologi e filologi, storici e avvocati, chimici e matematici, e perfino un astronomo, e un esperto di cinema».
La prima persona di cui parla Boris è Arsenij Roginskij. Come leader di Memorial, ha creato un’organizzazione senza leader. Nel film di Lyudmila Gordon, Il diritto alla memoria, Arsenij formula tre principi del lavoro del Memorial, il primo ha dato il titolo al libro:
«Non lasciare che ti uccidano! E questo è il primo punto, che con sé porta molte conseguenze, sia comportamentali, sia retoriche, nel modo cioè di assumere posizione. Ne consegue un secondo: non lasciandosi uccidere, è assolutamente importante preservare la dignità dell’organizzazione! Dignità è la parola chiave qui. E c’è un terzo principio: nonostante tutte le difficoltà, si deve continuare a lavorare!»
Parla poi di numerose altre persone: la matematica Elena Žemkova, autrice della campagna “La restituzione dei nomi” che si svolge dallo scorso anno anche a Milano, Jan Račinskij, programmatore, autore del database Memorial, Nikita Petrov, autore della fondamentale ricerca Chi ha guidato l’Nkdv-Mgb-Kgb , Susanna Pečuro, prigioniera politica scampata miracolosamente all’esecuzione, membro dell’Unione di lotta per la rivoluzione, di cui l’Occidente ha parlato nel “Bollettino di Parigi del Movimento russo degli studenti cristiani”, tra i cui ideatori vi fu la santa ortodossa, madre Maria (Kuzmina-Karavaeva), Aleksandr Daniel’, figlio del famoso dissidente Julij Daniel’, che ha svolto ricerche sul Samizdat (una magnifica storia di amici e conoscenti nella giovinezza di Boris Belenkin, associato alla copia illegale del romanzo di Vasilij Grossman Tutto scorre), Aleksandr Gur’janov, che si è occupato della tragedia di Katyn, Feliks Svetov e Zoja Krahmal’nikova, famosi scrittori e dissidenti, lo scrittore Aleksandr Šarov, i cui libri sono stati pubblicati anche in Italia, Irina Ščerbakova, responsabile dei programmi educativi di Memorial, i leader del Centro per i diritti umani presso Memorial, Aleksandr Cherkasov e Oleg Orlov, recentemente rilasciati durante lo scambio di prigionieri politici russi con spie e hacker russi condannati in Occidente, Aleksandra Polivanova, organizzatrice di eventi commemorativi, con la partecipazione di bambini e giovani. E molti altri. Tutti i personaggi del libro sono descritti con grande affetto e con ammirazione per le loro qualità professionali.
Uomini nonostante tutto
Interessante è la riflessione di Boris Belenkin sugli oggetti che rimangono nelle famiglie dei repressi e talvolta non hanno alcun valore artistico, ma certamente hanno un valore storico, come ricordo associato a una persona specifica, in circostanze storiche specifiche, spesso tragiche. A questo proposito Memorial aveva organizzato una mostra, alla quale Boris era direttamente legato: Uomini nonostante tutto, dedicata alla memoria delle donne del Gulag, che raccoglieva reperti e oggetti della vita del campo, lettere e disegni ai figli dei prigionieri e lettere di risposta e disegni dei bambini ai loro genitori. La mostra è stata presentata a Rimini, in occasione del Meeting 2022.
Memorial ha preparato anche molti eventi interessanti, come uno spaccato della realtà sovietica attraverso musica, barzellette, cronache, giornali, cinema e fotografie. Interessante a questo proposito è l’esperienza della partecipazione di Boris Belenkin alla preparazione di un discorso a San Pietroburgo sul destino di uno dei capi del periodo stalinista, anch’egli vittima della repressione. Il fatto è che la morte dei leader sovietici a causa della repressione politica è stato deliberatamente taciuto nei manuali e nella letteratura ed è stato costantemente censurato dal governo sovietico. Così, la morte, per così dire, era esclusa dalla narrazione della vita, una forma di insensibilità morale che caratterizza anche la società moderna.
Il capitolo dedicati ai viaggi di Boris in Italia evoca una vicinanza particolare, calda. In uno dei capitoli iniziali, Boris Belenkin afferma che gli sembra che l’interesse degli italiani per la Russia sia stato causato dalla popolarità di cui ha goduto in Italia il romanzo Il Maestro e Margherita negli anni ’90. Una simile affermazione dell’autore suscita il sorriso. L’autore ha viaggiato molte volte in tutta Italia e parla di Roma con grande amore.
Inoltre Memorial, insieme a Russia Cristiana, ha preparato una grande mostra dedicata al centenario della Rivoluzione d’Ottobre, e Boris Belenkin l’ha presentata anche al Meeting di Rimini nel 2017. Boris racconta il suo rapporto speciale con Memorial Italia e la sua direttrice Francesca Gori.
Quel giorno a Taiga Info
I drammatici eventi successivi alla dichiarazione di Memorial come “agente straniero” nel 2016 e all’attacco fisico pubblico lanciato dallo Stato nell’ottobre 2021, in occasione di uno degli eventi di Memorial, mi hanno restituito il ricordo di un fatto simile, accaduto a Novosibirsk. Nel novembre 2019 la redazione del portale siberiano Taiga Info aveva organizzato un evento sul patto Molotov-Ribbentrop. In quell’occasione ci trovammo di fronte esattamente allo stesso scenario di provocazione, al tentativo di interrompere l’evento, dovetti accompagnare fuori dalla sala i collaboratori del canale di propaganda statale e, dopo la fine dell’incontro, fu necessario far uscire gli ospiti moscoviti dall’ingresso di servizio. Nonostante le pressioni dell’Fsb, il servizio di gestione e sicurezza del cinema dove si era svolto l’evento ci ha aiutato molto. Dopotutto, la Siberia, la “terra dei martiri”, ha una mentalità molto diversa dalla parte europea della Russia, una maggiore indipendenza e un minor timore compiacente nei confronti delle autorità. Il direttore del Museo storico statale, che partecipava a degli incontri televisivi propagandistici con propri interventi, mi telefonò, per avvisarmi di ciò che stava per accadere e per scusarsi per il proprio intervento sul nostro incontro, che doveva necessariamente essere in linea con la trasmissione.
Il finale del libro è un trionfo della speranza; la colossale esperienza e autorità che Memorial ha accumulato in tutti gli anni del suo lavoro non possono essere distrutte. Puoi liquidare un’organizzazione, portare via un edificio, disperdere le persone, ma le persone troveranno sempre, nonostante le autorità, opportunità di cooperazione e, sulla base dell’esperienza precedente, continueranno ad agire.
Fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo minuto di libertà, svolgemmo il nostro lavoro. Non c’era sconforto, non c’era alcun cedimento, ma solo voglia di fare, allo scopo di riuscire a conservare al meglio quanto raccolto durante i nostri anni di esistenza. Non avevo dubbi sul fatto che la scelta di liquidare Memorial era stata presa immediatamente dopo la decisione di privare l’Ucraina della propria indipendenza. Prima dell’inizio dell’aggressione si dovevano liberare le retrovie dalle organizzazioni non governative ostili al Cremlino, dai resti della società civile non controllata dalle autorità. E tutto questo per favorire la completa e definitiva instaurazione di un regime totalitario».
Dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la Pace 2022, Boris Belenkin pronuncerà le seguenti parole: «Subito dopo essere rimasto sbalordito dalla notizia che Memorial aveva ricevuto il premio Nobel per la pace, mi sono posto la domanda: che non era “perché Memorial”, ma “quale Memorial?”. Quello che ha funzionato trentatré anni prima di essere liquidato dall’ingiusta decisione di un tribunale russo? Il premio è stato assegnato a Memorial che sarà.
I giovani hanno sentito che Memorial rappresentava un’alternativa al putinismo, alla Russia di Putin, e hanno visto in Memorial il luogo in cui avrebbero potuto realizzare se stessi
Boris Belenkin
Uno degli argomenti principali a favore del fatto che Memorial continuerà a compiere la sua missione è il crescente interesse per il nostro lavoro nel corso degli ultimi anni. I giovani hanno sentito che Memorial rappresentava un’alternativa al putinismo, alla Russia di Putin, e hanno visto in Memorial il luogo in cui avrebbero potuto realizzare se stessi. Guardateli, conosceteli, parlate con loro… Nelle lezioni del Nobel è consuetudine citare uno dei grandi del passato. Citerò Dostoevskij, le ultime cinque parole del romanzo L’adolescente: “perché è dagli adolescenti che nascono le generazioni”. Naturalmente voi giovani membri di Memorial non siete più adolescenti. Ma siete la nuova generazione, quella Russia del futuro di cui il mondo intero non dovrà più vergognarsi».
La foto di apertura è di AP Photo/LaPresse
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