Sono uomini e donne. Sono mariti, mogli e figli. Sono padri e madri. Fratelli e sorelle. Sono ricchi e poveri. Deboli e forti. Ignoranti e laureati. Nella storia che vogliamo raccontare, queste categorie non trovano posto. Perché il racconto mette al centro le persone.
L’intento di questo reportage è quello di sollecitare alcune riflessioni, di fotografare la complessità dell’evento “reato” in tutte le sue molteplici implicazioni: quelle psicologiche, quelle sociologiche, ma anche quelle emotive. Il reato infatti riguarda tutti i soggetti coinvolti sia precedentemente, sia durante, sia successivamente l’atto criminoso. Coinvolge sia chi è dentro sia chi è fuori dal carcere. Per questo al centro della nostra narrazione ci sono i per corsi di giustizia riparativa (restorative justice), esperienze che interessano tutte le parti in causa: vittime, rei esocietà civile. La direzione del nostro racconto è quella verso cui la giustizia riparativa indirizza tanto chi è vittima dello strappo, quanto chi è reo di quel gesto: verso il bisogno che dal dolore nasca qualcosa. E questo sforzo va orientato in una direzione che non può essere quella dell’odio perché nel tempo, si capisce che la prigione dell’odio consuma la vita di una persona e di una comunità intera. Senza restituirle nulla. E in questo la società svolge un ruolo fondamentale di mediatore perché nella società si riconoscono allo stesso tempo vittima e reo.
Giustizia riparativa: un nuovo concetto di giustizia?
I percorsi di giustizia riparativa sono un modo per dare impulso al riconoscimento di un’umanità di fondo che irrora vittime e rei. «La giustizia è una visione, un insieme di pratiche e un orizzonte culturale – ci spiega Bruna Dighera, psicologa giuridica e psicoterapeuta –. Una visione perché immagina qualcosa che non c’è, immagina un mondo diverso, un mondo contrassegnato da valori che non riscontriamo oggi. La giustizia riparativa è anche un insieme di pratiche che nella società in cui viviamo mirano al benessere di tutti. La giustizia riparativa è infine un orizzonte culturale perché appoggia su pilastri fragili, non ancora così unilateralmente riconosciuti, come il rispetto, l’equità, l’inclusione, la partecipazione e lo stare insieme anche se il vivere insieme in una comunità significa scontrarci e strappare legami».
Nell’immaginario collettivo infatti, e per una questione di scarsa informazione, non c’è nessuna idea del fatto che in carcere si possa fare anche un percorso di riabilitazione, che si debba fare un percorso. Che la pena è questo. Che non è un caso che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.
L’obiettivo della giustizia riparativa è quello di rispondere all’esigenza di restituire attenzione alle dimensioni umane, personali e sociali che investono il crimine. Dimensioni senza le quali la pena altro non sarebbe che un’afflizione per il condannato.
La giustizia riparativa viene messa a tema per la prima volta alla fine degli anni ‘80 in Nord America e nasce come un modello sperimentale in cui viene proposta una sorta di equazione per la quale «Il crimine è una violazione delle persone e delle relazioni interpersonali; le violazioni creano obblighi; l’obbligo principale è quello di rimediare ai torti commessi».Questo è unnettocambiamento di paradigma rispetto alla giustizia retributiva,ovvero quella visione della giustizia secondo la quale chi trasgredisce deve essere sottoposto ad una pena in conseguenza della violazione alle regole sociali costituite. Le persone – vittime e rei, con le loro esperienze, il vissuto, le esigenze e le relazioni – nonrimangono del tutto marginali come nel paradigma precedente, ma diventano centrali.
La profonda novità della giustizia riparativa è la maggiore attenzione al reo. Anche l’autore di reato è considerato portatore di interesse e di dignità, parimenti bisognoso di riconoscimento e di reintegrazione nel tessuto sociale della comunità. La rivoluzione che introduce la giustizia riparativa è che le vittime di un reato non si risarciscono con la punizione del reo. Dalla punizione non si riceve la riparazione della dignità.
«La forza della giustizia riparativa è nel perdono, inteso nel recupero della relazione che si era abbandonata senza che ciò neghi l’esistenza del reato che l’ha interrotta», scrive Gherardo Colombo ex magistrato italiano nel suo libro “Il perdono responsabile”.
A Lecco si progetta una comunità riparativa
Se nel modello retributivo il concetto di giustizia gode di una definizione a priori, nella giustizia riparativa la giustizia è dichiarata in funzione del percorso compiuto o da compiere da parte delle persone coinvolte. Non è il rispetto della regola o di una procedura formale a fare giustizia, ma l’accesso a un’esperienza che permette di vedere l’altro con occhi diversi. «In ogni caso – sottolinea Bruna Dighera – occorre tenere presente che quest’aria di libertà che la giustizia riparativa introduce non abbandona affatto l’orizzonte di legalità e di etica condivisa che è alla base di tutto il diritto. La giustizia riparativa non abolisce la legge. Essa propone piuttosto un diverso accesso alla comprensione della legge nonché un modo alternativo di farla rispettare».
É possibile che l’orizzonte culturale della giustizia riparativa si allarghi a tal punto da rendere la comunità stessa riparativa?
La risposta è sì, e il loro nome è comunità di relazioni riparative. Si tratta di un modello in via di sperimentazione in cui la comunità è il luogo nel quale si possono promuovere stili di vita e di relazione orientati al benessere della persona e della collettività e alla pace. Un esempio è quello della cittadina di Tempio Pausania, in Sardegna, la prima città d’Italia che ha deciso di promuovere e sperimentare pratiche riparative in grado di coinvolgere tutta la comunità: casa di reclusione, scuola, famiglia, forze di polizia, tribunali, comuni, associazioni, sul modello delle città riparative inglesi.
Nella sua visione più ampia, gli approcci e le pratiche riparative infatti non riguardano soltanto i comportamenti a rilevanza penale, ma i diversi conflitti che possono generarsi nella comunità.
Dal 2012 e in modo informale, come sono nate le prime pratiche di giustizia riparativa, è nato il Tavolo per la Giustizia Riparativa di Lecco che sta lavorando per costruire un territorio riparativo. «Questo Tavolo, di cui fanno parte persone appartenenti alle istituzioni come Comune e Casa Circondariale o a molte associazioni, si è dato come missione quella di sensibilizzare, informare e raccontare alla cittadinanza, alle scuole, cos’è la giustizia riparativa», spiega la dottoressa Bruna Dighera.
A fronte di una società complessa e generatrice di conflitti, dove la criminalità è solo in parte socialmente nota, così come non tutti i conflitti sfociano in reati pur contenendone le potenzialità, ilTavoloè interessato in modo particolare a raccogliere la sfida dello scenario della giustizia riparativa e di quello ancora più avanzato della comunità riparativa. «Nel 2018, attraverso il Bando Volontariato del CSV per il territorio lecchese, dal Tavolo per la Giustizia Riparativaè partito un progetto che si chiama “Innominate vie: ascoltare il dolore, schiodare il rancore, riparare i legami” e sperimenta nelle scuole, nel carcere e nella comunità pratiche di giustizia riparativa».
La comunità lecchese è allora una parte attiva, deve essere una parte attiva nel creare le condizioni affinché abbiano luogo i percorsi di giustizia riparativa. «La comunità è al contempo anche una comunità che non è mai innocente per i danni e le ferite che in essa si generano. Perché chi le genera e chi le subisce vive in quesa comunità».
Anche a Lecco si sta cercando di replicare il modello sardo di Tempio Pausania, un contesto di comunità di relazioni riparative.
Lo sforzo che i progetti lecchesi invitano a compiere, allora, è quello di indirizzare chi patisce il dolore del reato, il reo e la società tutta verso il bisogno che dal dolore nasca qualcosa. Questi progetti insegnano che lo sforzo va orientato in una direzione che non può essere quella dell’odio perché nel tempo si capisce che la prigione dell’odio consuma la vita di una persona e di una comunità. Senza restituirle nulla. L’orizzonte ultimo, sociale e culturale, dev’essere quello che ogni comunità diventi riparativa di se stessa.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.