Era la notte tra il 30 settembre e il primo ottobre del 1975. L’estate s’attardava ancora nell’aria di Roma, le finestre delle case stavano ancora tutte aperte. Anche in via Pola, zona Nomentana, nel condominio dove abi- tava la signora Fabris. Fu così che l’anziana donna ad un certo punto poté avvertire rumori insoliti salire dalla strada. Spaventata la signora chiamò subito il figlio Stefano. I colpi provenivano da dentro il baule di una Fiat 127 parcheggiata lì sotto. Dall’interno si sentiva una flebile voce femminile. Il ragazzo cercò di tranquillizzarla nell’attesa dell’arrivo dei carabinieri. Quando poco dopo il baule venne aperto, la scena che si presentò era da lager nazista: il corpo di una ragazza morta e quello di un’altra ragazza nuda e con la faccia tutta coperta di sangue e occhi sbarrati dal terrore. Quegli occhi che foravano la notte romana vennero immortalati dall’unico fotografo arrivato sulla scena: un’immagine che segnò la storia d’Italia, al pari di quella che tre anni dopo immortalò un altro corpo ritrovato in un baule, quello di Aldo Moro. Rosaria Lopez, la ragazza uccisa, e Donatella Colasanti, la sopravvissuta, erano le vittime dei mostri del Circeo, tre ragazzi “pariolini” che le avevano deportate nella villa di famiglia di uno di loro, Alberto Ghira, in uno dei punti più esclusivi del promontorio, la Punta Rossa, oltre il faro. Per due notti le ragazze erano state in balia della follia sadica e omicida, oltre che del padrone di casa, di Angelo Izzo e Gianni Guido. Vennero divise, violentate a ripetizione, costrette ad ogni tipo di rituale erotico, prima di venire una assassinata con la testa immersa nella vasca da bagno, mentre l’altra ferita con una bottiglia di champagne in testa, si salvò fingendosi morta.
Fascisti e pariolini
Quella era una stagione di violente contrapposizioni ideologiche in Italia. Per questo all’indomani la vulgata s’indirizzò sostanzialmente unanime vedendo in questo episodio feroce un rigurgito di violenza e prepotenza neofascista, per mano di tre giovani pariolini. Tutti i tasselli s’incastravano alla perfezione: le due ragazze di borgata, ancora vergini, erano cadute nella trappola di tre “mostri” che incarnavano tutto il peggio del maschilismo di destra. La ricchezza delle famiglie coinvolte, il tono sprezzante con cui gli imputati si atteggiavano, quel senso di impunità che sembrava garantito da apparati dello stato compiacenti, completavano il quadro. Sembrava una lettura di smentite, a cui tutti, con varie sfumature, si erano adeguati. Sino a quando l’8 ottobre, sulle colonne del Corriere della Sera, apparve un articolo clamorosamante dissonante. Era firmato Pier Paolo Pasolini. Nel titolo non sembrava affatto riguardare il feroce caso del Circeo: “Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio”. In televisione era stato trasmesso infatti il suo primo grande film girato nel 1962, circostanza che a Pasolini dava spunto per una riflessione sul terremoto antropologico avvenuto in quell’arco di tempo. Ricordava: «Non c’era un solo istante della giornata – nella cerchia delle borgate che costituivano una grandiosa metropoli plebea – in cui non risuonasse nelle strade una “invenzione linguistica”».
Pasolini scrisse che a livelli sociali diversi, i comportamenti dei giovani erano identici. Pariolini e borgatari erano contagiati dalla stessa brutalità
Ora invece cosa stava accadendo a quel sottoproletariato urbano? «Sono anche bravi ragazzi. Ma non sono più simpatici», scriveva Pasolini. «Sono tristi, nevrotici, incerti, pieni di un’ansia piccolo borghese; si vergogna- no di essere operai; cercano di imitare “i figli di papà”, i “farlocchi”. Sì, oggi assistiamo alla rivincita dei “figli di papà”. Sono essi che oggi realizzano il modello-guida». Ma era questo il passaggio destinato a scatenare la polemica: «Il lettore confronti personaggi come i pariolini neo-fascisti che hanno compiuto l’orrendo massacro in una villa del Circeo, e personaggi come i borgatari di Tor Pignattara che hanno ucciso un automobilista spaccandogli la testa sull’asfalto: a due livelli sociali diversi, tali personaggi sono identici: ma “i modelli” sono i primi, quei figli di papà, che così a lungo – per secoli – sono stati sfottuti e disprezzati dai ragazzi di borgata, che li consideravano nulli e pietosi. Mentre erano fieri di ciò che essi stessi erano: della loro “cultura”, che dava loro gesti, mimica, parole, comportamento, sapere, termini di giudizio».
Calvino, Moravia & amici
Apriti cielo! La presa di posizione di Pasolini produsse un vero terremoto nel mondo della cultura italiana, in particolare quella di sinistra, abituata in realtà a confezionare tesi ideologicamente compatibili anche con gli interessi del grande capitale. Da quell’8 ottobre iniziarono per Pasolini settimane di fuoco, che sarebbero poi state le ultime settimane della sua vita. Un crescendo drammatico di prese di posizione, di attacchi ricevuti an- che da amici di una vita, come Calvino e Moravia, che sono stati ricostruiti in un libro appassionato, firmato da Fabio Pierangeli, docente all’università di Tor Vergata e grande conoscitore dello scrittore friulano. Un libro che ha un titolo emblematico: “È finita l’età della pietà”. Infatti sin dai giorni successivi sui giornali, in particolare quelli di sinistra, si scatenò una vera offensiva per stigmatizzare e a volte quasi irridere le tesi di Pasolini sul Circeo. «Elisabetta Rasy, per fare un esempio, fu durissima, con un intervento su Paese Sera», racconta Pierangeli. «Liquidò Pasolini e i suoi ultimi articoli, come patetici rimpianti, paradossi giornalistici senza alcun senso, un gradino più in basso di Cuore». Calvino da parte sua uscì con un commento lo stesso 8 ottobre e incredibilmente sulle stesse colonne del Corriere della Sera, stigmatizzando la frangia criminale della destra neofascista, pericolosamente diffusa in Italia e in Europa. Nel frattempo, in una lettera privata a Carlo Cassola, sempre Calvino lamentava il fatto che certi scrittori come Pasolini impazzassero sui giornali. «Intervengono troppo e inflazionano quello che hanno da dire», scriveva. Ricostruisce Pierangeli: «Lo sgomento calviniano per i fatti del Circeo, come in molti articoli dei giornali progressisti, si accentrava sul dilagare della violenza giovanile fascista, specie a Roma, in un clima di permissività assoluta che, però, non è quello della falsa tolleranza di cui diceva Pasolini, ma quello scaturito da un ambiente che gode di larghe impunità, sostanzialmente legate al passato fascista non definitivamente annientato». Calvino come precisa sempre Pieran- geli, «partiva dalla identica constatazione di una atonia morale, per poi circoscriverla però all’alta borghesia vicina al fascismo». Queste le parole dello scrittore ligure: «…il pericolo vero viene dall’e- stendersi nella società di strati cancerosi: c’è una parte della borghesia italiana che vive e prospera e prolifica senza il minimo senso di ciò che appartenere a una società significa… Dire che non c’è che un passo dalla atonia morale e dalla irresponsabilità sociale alla pratica del seviziare e massacrare le ragazze con cui si esce alla sera può sembrare una del- le solite generalizzazione esagerate dei moralisti, però abbiamo sotto gli occhi il curriculum e il linguaggio di questi giovani, campioni rappresentativi – si dice – della clientela di un bar molto frequentato dalla gioventù del loro censo».
L’offensiva di Pier Paolo
Pasolini aspettò una settimana a rilanciare la sua lettura sui fatti del Circeo. Lo fece prima su Il Mondo il 16 ottobre, poi di nuovo sul Corriere il 18, e lo stesso giorno sul settimanale Epoca, in appoggio a una ricostruzione della biografia dei tre violentatori firmata da Sandra Bonsanti.
Calvino invece vedeva il pericolo nell’estendersi nella società di strati cancerosi, favoriti dall’atteggiamento di una certa borghesia malata di «atonia morale»
Su Epoca Pasolini entrò nella cronaca viva, additando una condizione antropologica italiana generale, partendo dalla evidenza che la metà, forse più dei giovani italiani fossero bravi ragazzi ma «grigi, nevrotici, introvertiti. E l’infelicità, come dice Spinoza, è “uno stato di inferiorità del cuore umano”. L’altra metà sarebbero stati invece criminaloidi, il prodotto del fallimento della tolleranza, o meglio, sia chiaro», precisava Pasolini, «di una falsa tolleranza. Un fenomeno prettamente italiano, che a Roma diviene impressionante, addirittura tragico per chi deve constatare che quella che era la città più simpatica del mondo ora è la più ripugnante». «Non è vero, se non qualunquisticamente, che una coltellata valga un’altra coltellata», scriveva Pasolini concludendo quell’intervento su Epoca. «Le coltellate della malavita napoletana del dopoguerra sono ben diverse dalle coltellate neofasciste dei pariolini o dei nuovi sottoproletari romani, e queste a loro volta sono ben diverse dalle coltellate dei portoricani di New York. Si può ipoteticamente scegliere. E sono certo che essere accoltellati da un neofascista pariolino o da un teppista di Tor Pignattara sarebbe l’ipotesi tenuta in più bassa considerazione». Il 19 ottobre Paolini interveniva nuovamente sul Corriere. Il titolo prende ancora da lontano la situazione: “Le mie proposte per scuola e tv”. Tornando a fare riferimento in un inciso sui fatti del Circeo, ribadiva la sostanziale uniformità di azione dei giovani, la gran parte dei quali «ignora il tradizionale conflitto tra bene e male: la sua scelta è l’impietramento, la fine della pietà e ciò quasi per partito preso, aprioristicamente: sia che si tratti di delinquenti, sia che si tratti di bravi ragazzi, infelici – l’infelicità non è una colpa minore, dicevo». Passano quattro giorni e, sempre dalle colonne del Corriere, gli risponde un altro amico di sempre, Alberto Moravia. «Più che reazionario, a Moravia il discorso di Pasolini appariva preraffaellita: profondo, affascinante, ma a ben guardare parte integrante di quella stessa rivoluzione a cui si opponeva», spiega Fabio Pierangeli. «Il delitto del Circeo è un delitto sadico…», scriveva Moravia. «È sadico perché è un delitto di classe, cioè il delitto di chi detiene il potere ai danni di chi non ha il potere. Rosaria Lopez è stata uccisa soprattutto perché era una borgatara. D’altra parte, il delitto del Circeo è un delitto di gente repressa (la repressione va ravvisata soprattutto nella pianificazione cioè nella presenza di un elemento ritardante di crudeltà contemplativa)».
La donna mercificata
Pasolini ci tiene a marcare le distanze: il suo non è un racconto teorico, conosce bene la realtà dei fatti: scrive di conoscere di persona il fratello di Rosaria Lopez, ragazzo molto angosciato e angosciante, imitatore perfetto degli aguzzini della sorella, con la sua macchina da corsa rossa. Vorrebbe fare l’operatore cinematorgrafico. Il 22 ottobre è la volta di Dacia Maraini, allora compagna di Moravia, affrontare Pasolini in un confronto che Pierangeli paragona ad un vero incontro di pugilato. Sono amici di vecchia data. Oltretutto condividono con Moravia una casa a Sabaudia, non distante da quella famigerata del delitto del Circeo. Il tema è di quelli ad altissimo “voltaggio”: il corpo femminile. Pasolini non fa sconti, dice che la cultura borghesse della “falsa tolleranza” ha svenduto il corpo femminile.
Pasolini sfidò anche l’amica Dacia Maraini, in un dibattito «La falsa permissività in seno ad una falsa democrazia è ancora peggiore della repressione banale…»
«Per lui», spiega Pierangeli, «i borghesi erano abituati a considerare la donna come oggetto sensuale, dotato di una normativa e di un codice a cui è stata asservita». «La falsa permissività in seno ad una falsa democrazia è ancora peggiore della repressione banale e sen za eufemismi…», dice Pasolini nel confronto con Dacia Maraini. La sua, precisa, non è affatto una condanna ai ripetuti atti sessuali (continua a definirli così, nel senso puramente carnale) delle donne in cui non c’è alcun male «non sono qui per fare del moralismo». Radicale la sua conclusione: «La tolleranza è l’aspetto più atroce della falsa democrazia. Ti dirò che è addirittura molto più umiliante essere “tollerati”che essere proibiti e che la permissività è la peggiore delle forme di repressione». C’è ancora tempo per un’ultima polemica. Dalle pagine del Mondo, il 30 ottobre Pasolini pubblica una “Lettera luterana a Italo Calvino”. La conclusione è cupamente premonitrice. «Ebbene, i “poveri” delle borgate romane e i “poveri” immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito che è oggetto della tua “descrittività”… L’impunità di questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di borgata». Tre giorni dopo il 2 novembre, Pasolini sarebbe morto, per mano di un gruppo di ragazzi di borgata.
Con il piede nella staffa
C’è un altro fatto che segnò personalmente Pasolini in quel drammatico ultimo mese di vita: il 27 ottobre morì don Giovanni Rossi, il sacerdote della Pro Civitate di Assisi che per lo scrittore era stato un riferimento importante, anche a livello personale, ai tempi del Vangelo secondo Matteo. Don Rossi era stato consulente per il film ma anche depositario delle sue inquietudini. Con lui Pasolini aveva intrattenuto una fitta corrispondenza e il 27 dicembre 1964 gli aveva fatto questa profetica confidenza: «Sono bloccato, caro Don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. (…) Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il corpo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio».
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