Una psicologa dello sport a livello dilettantistico non si vede spesso. Eppure è proprio questa la scelta che ha fatto in questi giorni l’Asd Calcio Pirri, una società che richiama ragazzi di tutta l’area metropolitana di Cagliari. Pirri è il nome di un quartiere cagliaritano. Conta 30mila abitanti e da alcuni decenni tenta, invano, di ottenere l’autonomia dal capoluogo sardo. Pirri era pure il nome della gloriosa società di calcio che lo rappresentava. Giocava in un polveroso campo a due passi dall’Exmè, dove da anni la Fondazione Domus de Luna svolge un’importantissima attività in ambito sociale. Un giorno la dirigenza del Pirri compì il passo più lungo della gamba. In tribunale fu dichiarato il suo fallimento.
Tre amici, ex calciatori arrivati a calcare i campi della serie D quando questa categoria era davvero un ottimo serbatoio per i campionati semiprofessionistici, pensarono di rilevare la società e ripartire da zero. Sono loro che oggi compongono il consiglio di amministrazione del nuovo Calcio Pirri. Alessandro Casula, Roberto Mannai e Luca Pilo hanno lavorato con grande lena, giorno dopo giorno, e i risultati si cominciano a vedere. Nel corso di questa stagione sportiva è stato conseguito il passaggio alla Promozione con la prima squadra, mentre vari titoli sono stati ottenuti in ambito giovanile, un settore che ha raggiunto la quota dei 500 tesserati. «Questo è il risultato più bello», sottolineano i tre dirigenti. «Siamo partiti ufficialmente il 1° gennaio 2019, quando fu perfezionato il passaggio di testimone. Dopo il Cagliari, non esisteva in città una realtà di un certo livello, e questo ci ha spronati a partire per questa avventura con pochissimi tesserati. Ma noi abbiamo pazienza, e crediamo che si debba andare avanti secondo le possibilità economiche, senza inseguire chimere irraggiungibili e pericolose. Passo dopo passo, contiamo di completare l’assetto tecnico e societario che occorre per ottenere risultati migliori».
Un altro step fondamentale è stato messo a punto nei giorni scorsi. L’Asd Calcio Pirri ha infatti deciso di avvalersi della consulenza di una giovane psicologa dello sport. «Seguirà l’attività di base e tutto il settore giovanile, ma anche i nostri istruttori e, se occorrerà, la prima squadra. Ci siamo resi conto che diverse problematiche necessitano dell’intervento di un’esperta con le necessarie competenze: per esempio, i disagi mostrati da alcuni ragazzi dopo la brutta esperienza del lockdown e delle restrizioni per la pandemia. E poi, i comportamenti di alcuni bambini e adolescenti che manifestano alcune problematiche. Perché un bimbo che a scuola ha l’insegnante di sostegno, non deve avere un adeguato supporto quando pratica lo sport? Non possiamo trattare tutti allo stesso modo. E noi non abbiamo neppure le necessarie competenze per farlo».
La scelta è caduta su una giovane di Vicenza che un paio d’anni fa ha conseguito il Master in Psicologia dello sport. Ha 27 anni e si chiama Eugenia Caldaro, gioca ancora a basket (nel Cus Cagliari, appena retrocesso in serie B) ed è innamorata della Sardegna. Proviene dalle esperienze maturate con il Comitato regionale sardo della Federcalcio (al Centro federale di Oristano) e con alcuni atleti di varie discipline. La incontriamo negli impianti di via Monsignor Cogoni, a Cagliari, dove si svolge l’attività del settore giovanile.
«La decisione di restare a Cagliari è nata dopo un’attenta riflessione: volevo continuare a vivere a fondo l’esperienza di praticare sport agonistico a certi livelli ma vivendo in un contesto che mi permettesse di completare gli studi universitari e prepararmi a entrare nel mondo del lavoro», spiega Eugenia. «L’esperienza del campo e dello spogliatoio mi tornerà utile. E credo che la mia età non costituisca un problema, anzi: può consentire ai ragazzi di aprirsi più facilmente».
Non ha ancora iniziato ufficialmente a lavorare per il Calcio Pirri, lo farà dal 4 settembre prossimo. Però da qualche settimana la si può vedere aggirarsi tra i campi di via Cogoni. «Credo che sia molto importarsi farsi un’idea del contesto in cui si deve lavorare, ecco perché ho voluto dare uno sguardo a tutte le squadre prima delle vacanze estive. E devo dire che la prima impressione è stata ottima, perché ho respirato un clima che non è facile trovare in tutte le società sportive, e non solo nel calcio. Mi ha fatto piacere vedere che qui si guarda certamente al risultato sportivo, ma non viene messo prima dell’educazione di ragazzi, istruttori, dirigenti e genitori. Il comportamento sta in cima alle priorità del Consiglio di amministrazione. Dovrebbe essere la regola ma non lo è».
Entrare in relazione con gli altri, in punta di piedi. Eugenia è molto giovane ma questa regola l’ha imparata subito. «E devo dire che mi sta aiutando molto in questa professione», spiega. «Occorre del tempo, la fiducia non si conquista in due giorni. Qui c’è rispetto per i rispettivi ruoli, strutturati in un certo modo, e questo aiuta nelle relazioni. Si guarda molto ai valori ma anche alla formazione continua, ognuno nel suo campo specifico. E questo aiuta a fortificare le ambizioni e a fornire un servizio educativo di spessore. Avverto una forte motivazione orientata al benessere e alla salute, che poi è il fine dello sport. Senza nulla togliere alla competizione».
La dottoressa Caldaro riconosce che «il lockdown ha inferto un duro colpo alle persone più fragili, in particolare a bambini e anziani, ma le conseguenze sono visibili soltanto in parte: certo, depressione e ansia le avevamo messe nel conto sin dai primi mesi del 2020, ma ancora bisogna studiare a fondo alcuni aspetti che emergeranno col passare del tempo. La sfera relazionale è stata intaccata in maniera importante, parecchi ragazzi si sono rifugiati in casa. Ma anche molti che praticano lo sport, mostrano i segni di questo disastro sociale. Tocca a noi sostenerli e aiutarli. Hanno perso tante occasioni di apprendimento sociale, anche a scuola, ma possono recuperare. Saper stare in una squadra non è scontato. E questo vale anche per gli sport individuali, perché anche lì c’è una squadra composta dallo staff e dalla società. Troppi ragazzi si sono rifugiati nei social network, bisogna stimolarli a dovere per superare incertezze e insicurezze. Non è facile, ma si può fare».
Lo sport insegna che bisogna rispettare le regole sociali. «E questo aiuta a capire che sei in un contesto diverso dalla famiglia, dove le regole sono stabilite dal papà e dalla mamma. I compagni non sono i fratelli e le sorelle. La ritengo una esperienza straordinaria che aiuta ad affrontare la vita», commenta Eugenia. La quale, riprendendo il pensiero del maestro dello sport Ermanno Iaci, sostiene che «sarebbe importante poter praticare uno sport individuale e uno di squadra, perché ti permette di affrontare dinamiche diverse ma ugualmente importanti. Non solo: bisognerebbe fare anche uno sport di resistenza, come l’atletica leggera, e uno sport in cui si cade e ci si rialza, per esempio le arti marziali. Ogni attività offre lezioni di vita ma ti aiuta anche ad affrontare lo stress, a saper stare in gruppo, a condividere le responsabilità e a saper superare certi processi sociali».
Eugenia osserva un gruppo di bambini che corre dietro a un pallone. E sorride. «L’obiettivo dello sport è quello di divertirsi, e spesso ci si dimentica di perseguirlo. È capitato anche a me, talvolta, perché magari ero presa dagli obiettivi del risultato. È un po’ come la ricerca della felicità: non è tanto importante raggiungerla, quanto la strada che percorri per ottenerla. Anche in questo lavoro voglio godermi la strada della co-costruzione insieme alla società che mi ha coinvolta. Bisogna poi includere due componenti di cui spesso ci si dimentica: i dirigenti e i genitori. A questi livelli, spesso i dirigenti sono pure i genitori dei ragazzi di una squadra. E anche con uno sguardo possono condizionare i figli, magari senza volerlo. Vanno educati a lasciare i figli liberi di sbagliare e di apprendere. Devono imparare a essere tifosi dei propri figli in maniera corretta, non condizionante. Spesso riversano le proprie frustrazioni, e questo è un errore grave. Dobbiamo farli sentire importanti, perché sono i genitori che decidono se far praticare o no uno sport ai propri figli. Devono sentirsi protagonisti da tifosi in senso positivo, per trasmettere i valori in linea con quelli della società. Non dimenticherò mai gli sforzi fatti dai miei, quando giocavo nelle giovanili dello Schio».
C’è un altro aspetto al quale Eugenia Caldaro tiene molto: la gestione del fallimento. «Sono tanti quelli che praticano sport, per esempio in una scuola calcio. Ma sono pochissimi quelli che riescono ad arrivare ad alti livelli. È normale che sia così, la selezione fa parte dello sport ma non tutti riescono ad accettarla. Tutti vorrebbero giocare in serie A ma, se non ci arrivi, devi metabolizzarlo in maniera corretta. Mi rifaccio a quanto ha detto un cagliaritano doc poche settimane fa. Mi riferisco a Nicolò Barella. Il quale, dopo la sconfitta nella finale di Champions League, ha fatto una riflessione interessante: su è detto dispiaciuto per aver perso ma anche gratificato dal fatto di aver avuto la possibilità di arrivare in finale e giocarsela alla pari contro un grande avversario. Perché è consapevole che non è qualcosa che capita a tutti. Il fallimento non può essere letto soltanto nella sua accezione negativa, gli obiettivi non raggiunti si trasformeranno automaticamente in malessere interiore. Nella vita, come nello sport, bisogna sempre cambiare gli obiettivi da raggiungere e cercare di migliorarsi. Cercherò di aiutare i ragazzi del Calcio Pirri a comprendere questo aspetto».
Di queste e altre tematiche inerenti i giovani e lo sport si parla nel nuovo numero del magazine di Vita (cliccare qui per scaricarlo in formato digitale dello store), in edicola da fine settimana.
Credits: le foto di Eugenia Caldaro sono di Andrea Chiaramida
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