Volontariato digitale

Dacca, quegli italiani che “skillano” e vogliono bene

di Ilaria Dioguardi

Una missione di Skillando Digital Volunteering in uno degli orfanotrofi bengalesi, gestito della ong "Lef for Life", a Dacca: otto professionisti che, in 10 giorni, hanno trasferito competenze digitali a 50 bambini e ragazzi, per aiutarli a costruirsi un futuro migliore e iniziare un percorso di indipendenza. «Un’esperienza indimenticabile: alla fine ci siamo messi tutti a piangere».

Dare modo a bambine e bambini, a ragazze e ragazzi di acquisire competenze tecnologiche per imparare una professione, diventare autonomi e poter lasciare l’orfanotrofio. Questo l’obiettivo della missione di Skillando Digital Volunteering a Dacca, la capitale del Bangladesh, che ha avuto luogo dal 15 al 24 marzo in uno degli orfanotrofi di Lef for Life, associazione non profit che ha lo scopo di fornire un luogo in cui abitare, cibo ed educazione a bambine e bambini, ragazze e ragazzi in stato di povertà e di abbandono.

«Dal punto di vista professionale è andata molto bene, abbiamo fatto molto più di quello che ci eravamo prefissati. Dal punto di vista emotivo è stata veramente dura relazionarsi con i ragazzi che vivono lì dentro e non hanno una famiglia», spiega Filippo Scorza, founder di Skillando Digital Volunteering, un’associazione di professionisti e imprenditori che volontariamente si dedicano a progetti di riduzione del digital divide in Italia e nei Paesi emergenti. I 120 ragazzi dell’orfanotrofio di Dacca sono suddivisi in tre sedi. Noi eravamo nella sede principale con circa 50 bambine e bambini, ragazze e ragazzi, tra i 3 e i 25 anni, che condividono gli spazi all’interno di una struttura, in piena campagna, dove hanno un’aula informatica (se così si può definire), un’aula di musica, un orto, una mucca che produce loro il latte». Tre gruppi di lavoro hanno portato avanti delle attività del project work: la costruzione della brochure e dei biglietti da visita dell’orfanotrofio, la realizzazione di una pagina web per offrire le proprie iniziative in cambio di donazioni e di un’altra pagina web per promuovere e vendere le attività del bazar, un piano editoriale per presidiare i canali social.

Noi, provocati dalle loro storie

«Ogni bambino e ogni ragazzo si porta dietro una storia che non si ha neanche il coraggio di chiedere: i più piccoli neanche conoscono il proprio passato, i più grandi sono stati abbandonati e sono stati accolti in questo centro. Sono andato via con un magone dentro. Ho una figlia di 16 mesi», prosegue Scorza, «nell’orfanotrofio c’è una bambina di 2 anni e la confrontavo sempre con la mia bimba. È un paragone che ti porti addosso, hai una sensibilità maggiore verso lo scopo per cui fai queste iniziative: cercare di dare delle competenze a questi ragazzi per cercare di crearsi un lavoro che permettano loro di crearsi una vita propria. Al di là dei problemi legati al fuso orario, alle zanzare, ai problemi intestinali, alle scomodità per me e tutti i membri del team l’emozione più forte è stata provare quel magone, una sensazione quasi di impotenza verso di loro», continua.

Il professionista è un fiume in piena, segno che l’esperienza vissuta ha comportato un grande coinvolgimento emotivo: «Io e due volontari», prosegue, «dormivamo all’interno dell’orfanotrofio, abbiamo vissuto un’esperienza totalmente immersiva che ci ha lasciato dei ricordi indelebili, che ci porteremo nel cuore tutta la vita. Quegli sguardi, quei sorrisi, quelle risate non sono comuni, abbiamo ricevuto un’accoglienza così grande, piena di abbracci, da farci sentire quasi a disagio. È stato difficilissimo andare via. Non c’è stato un ragazzo che, a parole o con lo sguardo, non ci abbia chiesto “Quando tornate di nuovo a giocare a pallone e a fare delle cose digital con noi?”. Ho promesso loro che torno con la mia famiglia a trovarli. Dopo aver vissuto tanti giorni ti senti quasi in colpa di avere una famiglia unita, felice, compatta. Si ridimensionano tutte le futilità della propria vita».

Lef sta per Love, Education e Food. «Dino Halder, founder e ceo dell'orfanotrofio, mi ha detto: “Ci ho messo il food perché io sono orfano, me lo ricordo bene quando piangevo la sera perché avevo fame. Non faccio nient’altro che provare a dare a questi ragazzi quello di cui avevo bisogno io: amore, educazione, cibo”», conclude Filippo Scorza.

Gli otto che fecero l'impresa

I volontari scelti per questa missione, tra le decine di richieste, hanno le competenze giuste da trasmettere e condividere: Eva Zurbakis, Simone Berardozzi, Sebastiano Pighi, Marco Frugiuele, Michele Bianco, Sem Ferri, Nicola Bertoli, che hanno fatto squadra con Scorza.

«Prima della partenza, ero preoccupata da due cose: dal fatto che lavorassimo con ragazzi molto giovani e dal contesto povero. Invece è andata benissimo», racconta Zurbakis. «I ragazzi erano molto svegli», ricorda, «alcuni conoscevano già i programmi informatici, volevano imparare tanto e fare il più possibile. Nella nostra missione ci hanno aiutato la loro voglia di sapere e la loro grande espansività. Non c’era alcun tipo di ostacolo culturale che temevo potesse esserci. Non nascondo che quando ho visto dove avremmo dormito sono rimasta un po’ scioccata, le condizioni igieniche non sono il massimo, ma ho superato ogni paura; vivere con i ragazzi giorno e notte ci ha aiutato a conoscerli meglio, a giocare e parlare con loro», dice la volontaria. Che rifarebbe quest’esperienza «come l’ho fatta, anche con gli stessi disagi». «Mi ha sconvolto il fatto che mi chiedessero foto di mia madre e di mio padre, non è usuale, in Italia, che mi venga fatta questa domanda», aggiunge.

Ci chiedevano le foto dei nostri genitori

Questi bambini, infatti, «vogliono vedere come funziona la famiglia, sono curiosi di questo perché non ne hanno mai avuta una. Poi mi chiedevano qual è il mio sogno, una domanda a cui è difficile rispondere»,spiega Zurbakis, «e quando siamo andati a giocare in un campo da calcio, un po’ più lontano dall’orfanotrofio, uno dei ragazzi mi ha detto: “Questo è il nostro momento di libertà”». L’orfanotrofio dà tante attività da fare e stimola, «ma per loro è anche una sorta di prigione».

Alla fine del viaggio, «ci siamo messi tutti a piangere: in 10 giorni si sono legati tantissimo a noi. Sono stata felice di quest’esperienza, l’arricchimento non è solo per i ragazzi ma anche per noi volontari. Alla nostra partenza per l’aeroporto, Dino ci ha detto una frase che mi è rimasta impressa: “Non dimenticatevi di noi”. Motivo per cui abbiamo costruito un nuovo project work con loro». Le nuove task consistono nel disegnare la maglietta, gli adesivi, la brochure di Skillando Digital Volunteering. Il team di Skillando ha dato loro una scadenza e dei corsi di approfondimento da fare on line, poi analizzerà i loro progetti e darà loro dei feedback. E non si dimenticherà mai di loro.

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