Aggiornamento 25 novembre 2023, la Corte d’Appello di Roma ha disposto la sospensione della pena all’ergastolo di Beniamino Zuncheddu, che è stato liberato oggi. Inizia nei prossimi giorni il processo di revisione.
Il caso di Beniamino Zuncheddu, servo pastore di Burcei (un paese di montagna a una quarantina di chilometri da Cagliari), rischia di diventare simile a quello di Enzo Tortora, tragicamente consumato negli anni Ottanta. Pochi anni dopo la sua scarcerazione (con l’assoluzione definitiva sancita dalla Corte di Cassazione nel 1987), e poco meno di tre anni dopo la scomparsa del giornalista, la Sardegna fu scossa da un triplice omicidio. Era l’8 gennaio 1991 quando, nel territorio di Sinnai (Cagliari), furono uccisi tre pastori. Una quarta persona rimase gravemente ferita ma si salvò: furono proprio le accuse di quest’unico superstite a far dichiarare Zuncheddu colpevole, con la condanna in via definitiva all’ergastolo. All’epoca aveva 26 anni, oggi ne ha 58. Trentadue anni spesi dietro le sbarre. Più di tre anni fa il suo avvocato Mauro Trogu ha presentato un ricorso per il processo di revisione, tuttora in corso presso la Corte d’appello di Roma. Un cammino giudiziario complesso che procede a rilento. Del caso si sta occupando anche Irene Testa, Garante dei detenuti per la Sardegna, sarda di nascita ma romana d’adozione. La giornalista, che per Radio Radicale conduce da anni la trasmissione “Lo Stato del diritto”, si dice pronta a scommettere sull’innocenza di Zuncheddu.
Per voi radicali questo caso giudiziario riapre una ferita mai rimarginata. Impossibile non tornare al ricordo di Tortora.
«Stavolta è anche peggio: non soltanto per i tanti anni trascorsi in stato di detenzione, ma anche perché, come ebbe modo di dire il povero Enzo, c’è chi ha i mezzi per difendersi e chi è meno fortunato. Ecco, Zuncheddu fa parte di questa seconda schiera di persone», commenta Testa.
Da quanto si sta occupando di questa vicenda?
«Devo dire la verità, non la conoscevo sino a pochi mesi fa, cioè sino a quando ho ricevuto una segnalazione sullo stato di salute precaria di Zuncheddu. A quel punto ho iniziato a interessarmene. Ho avuto modo di parlare a lungo con lui e con il suo legale di fiducia, poi ho letto attentamente le carte del processo. Di fronte a un caso del genere, non ci si può girare dall’altra parte e fingere di niente. Esistono forti dubbi sulla sua colpevolezza, e non da oggi. E se anche ci fosse soltanto un dubbio, credo che una persona che ha fatto 33 anni di carcere da innocente meriti un approfondimento. Bisogna accelerare i tempi della giustizia, spero che si arrivi prestissimo alla sua piena assoluzione».
La sentenza potrebbe essere emessa alla prossima udienza, fissata per il 13 ottobre a Roma.
«Saranno ascoltati gli ultimi testimoni, poi si dovrà arrivare a un verdetto. Nella sua innocenza crede tutto il paese di Burcei, al punto che poche settimane fa una trentina di burceresi, con a capo il sindaco Simone Monni, si sono recati a Roma per partecipare a un sit-in promosso dal partito Radicale. Poi hanno riempito l’aula della Corte d’appello. Siamo pronti a scendere di nuovo in piazza il 13 ottobre, a Cagliari. Chiediamo giustizia attraverso la riparazione condizionale della pena».
Che uomo si è trovata di fronte durante i colloqui?
«Una persona mite e semplice, come sottolineano anche tutti gli operatori del carcere di Uta (alle porte del capoluogo sardo, ndr). Beniamino viene definito un detenuto modello. Non è un affabulatore, non è dotato di grande dialettica: è una persona semplice. Sostengo la posizione dell’avvocato Trogu perché credo che, a volte, la giustizia possa fallire. I dati ci dicono che in Italia, ogni anno, un migliaio di persone sono ingiustamente detenute. Se date uno sguardo ai dati del Mef, il ministero dell’Economia e delle finanze, vi rendete conto dell’ammontare delle richieste di risarcimento danni a carico dello Stato. Se l’errore è umano, ritengo anche che si possa correggere. Ci sono giudici che sbagliano ma c’è anche una magistratura sana, come quella che ha riaperto il processo di revisione di Zuncheddu».
Ma davvero esiste una forma riparatoria per risarcire una persona come Zuncheddu, se verrà riconosciuta innocente?
«No, credo proprio di no. Nessuno potrà ricompensarlo per aver passato metà della sua vita in carcere. Né lui, né i suoi familiari, che hanno dovuto affrontare grandi sacrifici anche dal punto di vista economico. Sono stati sorretti dall’affetto dei compaesani ma soprattutto da una grande fede: è stata questa a tenere in vita la speranza di giustizia. Beniamino non si è mai piegato in alcun modo, ha tirato dritto con dignità, quando avrebbe potuto ottenere dei benefici ammettendo la sua colpa. Confido nella magistratura: in fondo, 33 anni fa c’erano strumenti diversi. Le nuove intercettazioni hanno fornito elementi inconfutabili».
Come trascorre le sue giornate Beniamino Zuncheddu?
«Da un paio d’anni beneficia dell’articolo 21, dunque la mattina lavora in un bar all’esterno e alle 14 ritorna in carcere».
Qual è la situazione carceraria in Sardegna?
«È grave, come in tutto il resto d’Italia. Registriamo un tasso di sovraffollamento più basso rispetto al resto del Paese. Ma abbiamo una popolazione prevalentemente malata, molti ragazzi tossicodipendenti e parecchi casi psichiatrici. Quasi la metà dei detenuti arriva dalla penisola: circa mille detenuti in regime di massima sicurezza con il 41bis o comunque in alta sorveglianza. La legge prevede che non si debba scontare la detenzione a oltre 200 km di distanza dalla residenza, eppure due ragazzi su sette provengono dalla penisola».
Proprio all’istituto di Uta, da anni, la Caritas di Cagliari porta avanti alcuni progetti (come “Orti in carcere”) che tengono impegnati i detenuti. Non si può replicare un intervento simile ovunque, almeno per i detenuti non pericolosi? Allo Stato costerebbe molto meno, grazie al contributo del Terzo settore. E forse si eviterebbero molte recidive.
«Sono d’accordo. In Sardegna abbiamo tre colonie agricole (Isili, Is Arenas e Mamone, ndr) che sono preziose sia da un punto di vista rieducativo, sia economico perché si praticano con successo attività agricole produttive, compresa l’apicoltura. Però non si riesce a moltiplicare questo modello positivo, che potrebbe consentire a molti imprenditori di assumere le persone più meritevoli. Si preferisce vederli trascorrere le giornate in branda, anziché impegnarli attraverso pene alternative, per esempio in una comunità di recupero. Le persone più fragili difficilmente si recuperano. Ci sono persone molto malate, alcune non ricordano il proprio nome: casi psichiatrici gravi, per i quali il carcere è deleterio. Infatti, molti detenuti cercano in tutti i modi di togliersi la vita».
Un quadro tragico.
«L’anello più debole riguarda proprio la sanità penitenziaria. Pochissimo personale e spesso strutture obsolete e inadeguate, che costano tantissimo alla collettività. All’istituto di Lanusei sono rinchiusi soprattutto detenuti con reati di aggressione fisica, che hanno una grande necessità di percorsi psicologici. Eppure, uno psicologo può dedicare cinque o dieci minuti a ciascun detenuto. Che cosa può fare? Altri istituti non hanno il servizio di guardia medica notturna. Una situazione di abbandono e di sospensione del diritto».
Il Terzo settore fa la sua parte, ma ovviamente non basta. Perché la società civile non riesce a influire sulle scelte politiche che dovrebbero portare a una illuminata riforma penitenziaria?
«Le cause sono molteplici. Da una parte c’è la buona volontà degli operatori, che spesso fanno molto più di quanto sia dovuto. Ma il sistema fa buchi da tutte le parti, e la gente solitamente non è ben informata. Arrivano molti messaggi sbagliati, fuorvianti. E il cittadino comune, temendo per la propria incolumità, si fa influenzare negativamente. Se va bene, si disinteressa del problema. Invece parliamo di esseri umani, che hanno i loro diritti ma sono trattati come numeri. I casi psichiatrici devono essere curati in strutture adeguate perché sono malati. Quando lo faccio presente, a volte mi sento rispondere: “Va bene, dottoressa: li porti a casa sua”. Non comprendono che, se si lavora in un certo modo, quando escono dal carcere sono messi nelle condizioni di non nuocere. Che cosa di guadagna, dunque, la società? Niente. È un mondo complicato anche a causa della sordità delle istituzioni nazionali».
Alcune strutture sono state costruite ex novo, ma la maggior parte di esse ha parecchi decenni di vita.
«Il gran caldo di questa estate è stato un problema in più. Negli istituti di pena non si respirava. Ho sollevato la questione, così gli avvocati e i magistrati di Cagliari si sono quotati e hanno fatto una colletta: grazie a loro, sono stati acquistati 600 ventilatori. Un bellissimo gesto, ma non possiamo gestire la situazione in questo modo. Come sempre, l’Italia si basa sui gesti di generosità e sul volontariato. Troppo comodo. Occorre che ognuno si assuma la propria responsabilità».
Tutte le foto sono state messe gentilmente a disposizione dalla Garante dei detenuti per la Sardegna
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