«I miei film non sono profetici. Sono il frutto di un’osservazione attenta della realtà. Così ho intercettato le fratture profonde che attraversano la società americana e hanno portato all’assalto a Capitol Hill e all’elezione di Donald Trump per la seconda volta», dice Roberto Minervini, regista italiano che vive negli Stati Uniti, capace di combinare realtà e fiction in uno stile molto personale.
Minervini inizia a fare cinema nel 2008 e realizza tre film sul Texas: The passage, Low tide e Stop the pounding heart. Nel 2015 esce Louisiana. The other side, in cui mostra l’emergere di gruppi nazionalisti di estrema destra nell’America rurale. Nel 2018, What you gonna do when the world is on fire, in concorso a Venezia, anticipa ciò che sarebbe accaduto due anni dopo con l’uccisione di George Floyd e il movimento Black lives matter. Con I dannati, film in costume che unisce realismo e improvvisazione, l’anno scorso, ha vinto il premio per la miglior regia a Cannes nella sezione Un certain regard. Lo abbiamo incontrato al Pordenone docs fest, il festival del documentario di Cinemazero, dove è stato presidente di giuria dei film in concorso.

Con i suoi film, è stato capace di raccontare il malessere di alcune comunità negli Stati Uniti, come quella dei bianchi ai margini in Louisiana o degli afro-discendenti negli Stati del Sud. Da cosa nascono i suoi lavori?
Faccio l’esempio di What you gonna do when the world is on fire? (Cosa farai quando il mondo sarà in fiamme?): avevo notato un incremento dei casi di violenza impunita da parte delle forze dell’ordine nei confronti della popolazione nera, proprio durante la presidenza di Barack Obama. Da lì è iniziato un grande lavoro di ricerca sia sul campo, sia storica e d’archivio, non tanto per farmi portavoce del movimento delle Panthers, ma per osservare un fenomeno sul nascere. Il mondo della critica cinematografica, all’uscita dei miei film, li considerava una sorta di ricerca voyeuristica di situazioni estreme. Invece erano segnali di ciò che stava per accadere.
Ci è arrivato molti anni prima dell’assalto a Capitol Hill…
Sì, ma non pensavo che ci sarebbe stata una rivolta contro le istituzioni e che si sarebbe instaurata un’istituzione autarchica, che guarda al totalitarismo. Questo, probabilmente, non se lo aspettavano neanche i rivoluzionari di estrema destra che racconto in Louisiana. The other side. Nel 2013 avevo intercettato quel loro malessere di fondo, che partiva da una divisione già calcificata, storica. È da quella consapevolezza che ho deciso di realizzare I dannati, sulle origini della divisione tra tante Americhe, all’interno degli Stati Uniti.

Il merito del suo lavoro è anche farci scoprire una società fatta di tante comunità chiuse e di divisioni, molto diversa dalla nostra.
Il cortocircuito sta nella trasposizione dei poteri dal governo federale a quelli statali. In Italia, a parte le autonomie regionali, non ci sono grosse separazioni. Negli Usa, Trump vuole ridurre ancor di più l’influenza del potere centrale in alcune materie, come l’istruzione e il welfare, attribuendo competenze agli Stati e creando di fatto una federazione di realtà statali completamente diverse tra loro, con piani di studio e di welfare diversi. La frattura non è stata creata da Trump. Lui l’ha codificata bypassando il Parlamento con emendamenti e decreti legge. In quest’America chiusa, alle comunità marginali non viene data la possibilità di reintegrarsi, di occupare gli stessi spazi di quelle più ricche. In fondo, stiamo parlando di una divisione enorme tra classi, una divisione istituzionalizzata.
C’è una necessità da parte delle comunità ai margini di raccontarsi, di sentirsi in qualche modo riconosciuti, legittimati, attraverso il cinema.
Roberto Minervini, regista
Ma lei mostra anche come all’interno di queste comunità le persone trovino conforto.
Per questo l’America è un Paese che guarda indietro, che custodisce la tradizione, reazionario. Lo spirito conservatore, credo, serve anche per bilanciare l’assenza di un senso di appartenenza vero e proprio, se non si guarda al passato. È una necessità, per non perdersi nel caos del presente. Ed è per questo che la pratica del cristianesimo, in alcune comunità, diventa sempre più importante, così come abbiamo assistito alla rivendicazione dell’aspetto binario dei generi.

Come fa ad avvicinarsi così tanto alle persone da riuscire a raccontare aspetti anche molto intimi, dal forte impatto emotivo?
Non è solo questione di guadagnarsi la fiducia, essere capaci di aprirsi all’altro. C’è una necessità da parte delle comunità ai margini di raccontarsi, di sentirsi in qualche modo riconosciuti, legittimati, attraverso il cinema. È un bisogno che chi è potente e vive in una condizione privilegiata non ha. È una questione di classe. Quindi, volendo lavorare con persone in situazione di difficoltà, di base, il processo è molto più agevole. La fiducia si instaura con la massima apertura e trasparenza. E, a volte, si può anche interrompere. Lo spazio filmico in cui lavoro è aperto, libero.

Ci spieghi meglio.
Il documentario non è la verità. Restituisce un’esperienza diretta soggettiva di persone che per un periodo limitato condividono un contesto, mai una condizione. In quello spazio, la storia si crea con i personaggi, che accettano di stare con la telecamera anche a dieci centimetri dal volto. Le riprese possono durare ore. Io, come co-protagonista, sono lì a istigare una catarsi costante. Sono il primo a mettermi a nudo, divento uno specchio su cui riflettere sé stessi e le proprie emozioni. La mia non è un’intrusione nelle comunità che racconto, ma è la condivisione di un perimetro senza frontiere, da cui le persone sono libere di entrare e uscire. Così si genera un’altra realtà, attraverso un metodo molto partecipativo. Il potere del documentario sta proprio nella sua soggettività, per questo ha un grande valore democratico.
In apertura, Roberto Minervini a Cinemazero, nella foto di Elisa Caldana
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