Elena Lina Cai

Cucinare è un atto d’amore. Anche tra culture

di Veronica Rossi

Cucina Origami, il libro di Elena Lina Cai, divenuta famosa per i suoi video in cui insegna a preparare alcune famose pietanze cinesi, appena pubblicato si è attestato al nono posto nella sezione Varia della classifica Gfk Italia. L'autrice, di origini cinesi, si è chiesta se la sua identità culturale sia più vicina a quella italiana o a quella del Paese di provenienza dei suoi genitori; l'appartenenza, tuttavia, non è esclusiva e le due realtà si somigliano più di quanto ci si immagini, soprattutto attorno a un tavolo

La cucina è un potente mezzo per abbattere pregiudizi e stereotipi, scoprendo che anche culture che sembrano lontanissime in realtà non lo sono poi così tanto. La pensa così Elena Lina Cai, la creatrice del blog di ricette Cucina Origami, ora diventato un libro edito da Vallardi, arrivato, appena pubblicato, nono nella sezione Varia della classifica Gfk Italia. «Ciao, mi chiamo Elena Lina Cai e sono una ragazza italiana di origini cinesi», scrive nella presentazione sul suo sito. «Come per molti ragazzi di seconda generazione, la questione identitaria è stata il centro intorno a cui ruotavano tutti i miei dubbi: sono italiana o sono cinese?» La risposta a questa domanda è arrivata, per la scrittrice, con un lungo percorso, fatto di amore, buon cibo, sensazioni e ricordi: forse, alla fin fine, non è necessario scegliere una identità o l’altra, come se si escludessero a vicenda.

Quando nasce il progetto Cucina Origami?

Formalmente nell’aprile del 2021, anche se nella mia testa un progetto di divulgazione c’era già da tanti anni, ma non riuscivo a convincermi di essere in grado di portarlo a termine. Poi nel 2020 c’è stata la pandemia; soprattutto nelle prime fasi c’era la convinzione che se mangiavi cinese ti prendevi il Covid-19. Questo mi ha portato a chiedermi se non ci fosse un po’ di ignoranza. Molti piatti sembrano lontanissimi, strani, quando in realtà non lo sono per nulla. Così ho iniziato a fare dei video in cui spiegavo come preparare cibi iconici, demistificandoli, dimostrando che si può far la spesa qua come si fa in Cina. Si tratta di ricette molto semplici, un po’ per retaggio familiare, perché a casa mia era così, provenienti dalla zona di Wenzhou, nello Zhejiang, che è la regione delle prime comunità cinesi arrivate in Italia.

Il suo è un progetto di divulgazione che ha un interesse più ampio rispetto a quello meramente gastronomico. Come mai ha deciso di affrontare la questione del dialogo tra culture utilizzando la cucina?

Ho sempre saputo che mi piaceva cucinare per altri: è un gesto d’amore, che mi sono resa conto, soprattutto scrivendo questo libro, che è una cosa che mi è rimasta dentro perché l’ho vista fare. Io sono nata nel 1989, nei primi anni ‘90 eravamo tra le uniche famiglie cinesi a Milano; vivevamo in un negozio, diviso a metà da un armadio: nella parte frontale mia mamma vendeva borse e pelletteria, dietro cuciva e lì abitavamo. Non c’era una vera e propria cucina, c’era un cucinino, non c’era nemmeno un bagno, c’era la tinozza e usavamo i bagni condominiali. Io, quindi, passavo gran parte della giornata da mia zia, che abitava in un bilocale là sopra e che cucinava per me, per le mie cugine. C’era sempre la tavola un po’ piena e un’aria di festa. Credo di aver iniziato ad associare in quel momento il fatto che qualcuno cucinasse per me a un atto d’amore.

Ma poi vi siete trasferiti.

Abbiamo avuto una parentesi fiorentina di due o tre anni. Vivevamo in un capannone, nei primi piani c’erano dei laboratori, dove si facevano borse o capi di abbigliamento, poi c’erano due grandi cucine e due grandi bagni a uso comune e l’ultimo piano era adibito a dormitorio. Stavamo tutti quanti lì: a Milano ero una bambina cinese e tutti gli altri erano italiani, lì ero una bambina cinese e tutti gli altri bambini erano cinesi, nati in Italia o appena arrivati dalla Cina. Mi sentivo anche un pesce fuor d’acqua a volte, per esempio quando arrivava il camioncino degli snack cinesi, loro erano super contenti, mentre io non sapevo nemmeno cosa fossero tutte quelle caramelline.

Parlavate in cinese?

No. La mia prima lingua è sempre stata l’italiano. In casa si parlava dialetto, ho imparato il cinese a lezione e guardando la televisione. Con questi bambini parlavo il dialetto, ma molto più frequentemente l’italiano perché così parlavamo a scuola. Non sapevo però loro che istituto frequentassero, perché nel mio continuavo a essere l’unica; quindi la mattina ero circondata dai miei amici italiani, poi tornavo e mi dicevo «Adesso sono cinese, mi comporto in modo diverso». È un po’ complicato, non riuscivo a capire se ero una cosa o ero l’altra; non che nessuno mi abbia mai fatto pesare niente, però c’è una frase emblematica di mio padre: «Tutta l’aria che sta bevendo e tutta l’aria che sta respirando la stanno facendo trasformare in una straniera». Ora mi fa ridere, ma all’epoca mi pesava molto, perché mi dicevo «Sono straniera se sono italiana, sono straniera se sono cinese, sono straniera sempre».

Poi siete tornati a Milano.

Si, negli anni a cavallo del 2000, in cui si stava sviluppando la realtà della Chinatown milanese. Sono tornata nella scuola che frequentavo da piccolissima, ma c’erano più studenti cinesi. Mi sentivo bene, perché sapevo che non ero né carne né pesce, ma nemmeno il mio contesto lo era. Poi abbiamo dovuto trasferirci fuori da Chinatown e ho ricominciato a essere l’unica cinese. Allora, complice il fatto di essere diventata adolescente, ho pensato di non voler assolutamente sembrare strana: questo nella mia testa si è tradotto nel cercare di essere più italiana possibile. Nel frattempo mio nonno si è accorto che avevo oggettivamente bisogno di imparare il cinese, così il sabato andavamo a scuola, dove c’erano tanti ragazzi come me di seconda generazione che non parlavano il cinese e che avevano il mio stesso risentimento. Ci chiedevamo perché dovessimo andare a lezione, quando ci trovavamo così bene a essere dei ragazzi italiani. Dopo l’esame di maturità i miei genitori hanno deciso di tornare in Cina, mi hanno chiesto cosa volessi fare. Io mi ero costruita una vita totalmente italiana, non avevo intenzione di andare in un posto che non conoscevo e di cui sapevo male la lingua. Ho deciso di rimanere in Italia. Non c’era più nessuno che mi dicesse cosa dovessi essere dal punto di vista cinese, così ho deciso di essere totalmente italiana. Mi è sempre piaciuto far da mangiare, ma cucinavo lasagne, tiramisù, soprattutto.

Com’è stato per lei vivere così giovane così lontano dalla tua famiglia?

Io ero molto giovane, molto inconsapevole. Loro se ne sono andati, portando anche mia sorella più piccola con loro e io all’inizio l’ho vissuto come una liberazione. Poi mi sono resa conto che questo periodo mi ha portato anche una forte rabbia, non sapevo perché, pensavo anche di essere in qualche modo sbagliata. Avevo il mutuo dei miei genitori da pagare, perché loro hanno comprato casa e se ne sono andati. Mio padre mi ha detto: «Se ce l’ho fatta io a 16 anni puoi farcela tu a 18», ma non con cattiveria, non sono mai stati presuntuosi né hanno mai voluto nuocermi. Mi hanno lasciata libera di scegliere e di questo li ringrazio, perché altrimenti la mia vita sarebbe completamente diversa. Però c’è stato un momento in cui mi sono detta che mi avevano abbandonata, che non avevano lottato per me, anche se ora so che semplicemente mi hanno lasciata prendere una decisione per me stessa; questo mi ha portata a crescere in fretta, perché mi sono trovata fin da subito tutte le preoccupazioni degli adulti.

Come ha riscoperto la cultura cinese?

Mi sono innamorata di un ragazzo che era molto attratto dal fatto che io fossi cinese; nessuno lo era mai stato, mi ero completamente dimenticata di avere gli occhi a mandorla. Questo ragazzo mi ha detto «Andiamo al ristorante cinese?» e io l’ho portato in un ristorante bruttino, in cui le persone avevano dei modi veramente sbrigativi. Però appena sono entrata mi sono detta che mi mancava quell’odore, quel modo di mettere il piatto in tavola della signora, lo stesso di mia madre e di mia zia, che per gli italiani può essere scortesia, mentre per i cinesi è un voler bene, perché ti sto dando da mangiare. Tornata a casa ho provato a fare i ravioli, poi ho provato a preparare qualcos’altro, a assaggiare altro. Mi sono accorta, così, che il mio risentimento era sparito. È rimasta in me la voglia di riscoprire e ricordare quello che prima avevo voluto buttare via. Abbiamo fato un viaggio in Cina, diverso dal solito per me, per scoprire il Paese, girare, assaggiare, guardare le persone. Quando sono tornata ho continuato a riproporre le ricette, a ricercare, perché ogni piatto che cucino mi ricorda una sensazione di quando ero piccolina.

In cucina si possono abbattere quindi pregiudizi e stereotipi?

Assolutamente. Quando qualcuno mi fa una mezza polemica sul fatto che in Cina si mangiano ingredienti strani, come le orecchie di maiale, io gli chiedo: «Hai mai mangiato la coratella? È buonissima, sono tutte interiora». Quindi che differenza c’è tra questo e quello, è solo che una cosa la si conosce e l’altra no, basta scoprirla per accoglierla e apprezzarla. La cucina avvicina le persone, tutti mangiamo, tutti stiamo seduti attorno a un tavolo.

Al momento, aspetta una bambina. La crescerà seguendo entrambe le culture?

Sicuramente io mi sono ritrovata a pensare se sono più italiana o cinese, ma mi sono risposta che sono tutte e due le cose; invece di incasellarsi, si può costruirsi un’identità in cui partecipino entrambi i mondi. La mia bambina crescerà così, contaminata. Mangerà pasta al pomodoro perché è buona e riso saltato perché è altrettanto buono. Le mie cugine hanno compagni non cinesi, un belga, uno spagnolo e un calabrese, è bellissimo vedere i bimbi crescere in un ambiente così ricco. È questo il valore che vorrei trasmettere: la multiculturalità è un fatto, i bimbi non percepiscono di essere diversi, percepiscono che tutto fa parte del loro modo di vivere e di essere.

Pensi che quindi anche chi è di seconda generazione come lei oggi abbia un vissuto diverso da quello che ha avuto lei?

Credo che la generazione più giovane sia più inclusiva, anche se forse inclusivo è una parola che stona, perché per loro è naturale, probabilmente. C’è una naturalità nell’abbracciarsi e basta. Altra cosa sono le politiche, perché le fa qualcuno che è di una generazione che fa fatica a comprendere la multiculturalità, perché non l’ha vissuta sulla sua pelle.

C’è uno scollamento, quindi, tra il vissuto quotidiano dei ragazzi e le leggi a cui sono sottoposti?

Si. Io ho fatto una scelta molto facile. Quando sono arrivata alla maggiore età potevo scegliere se prendere la cittadinanza italiana o tenere quella cinese. Ho optato per la prima, per una questione di facilità nel vivere: se hai una cittadinanza europea hai molte più porte aperte. È anche una cosa che ti senti, di essere cittadino del luogo in cui sei nato e cresciuto, anche se qualcuno può avere delle sensazioni diverse. Purtroppo, le politiche le fanno persone che ragionano più di principio che di vissuto; la norma deve esistere, ma a volte non attinge dall’esperienza concreta.

Per concludere, tornando al libro, che emozione le dà tenere il libro in mano?

È una soddisfazione pazzesca. Ho sempre voluto fare la scrittrice. L’idea di vedere un mio libro sugli scaffali della libreria mi ha reso veramente felice. Poi è entrato in classifica, non me l’aspettavo assolutamente; quel giorno ho pensato: «Caspita, forse mia mamma è fiera di me». È stata una vittoria anche per me, mi sono data una pacca sulla spalla, ho riconosciuto di aver fatto bene. Sono anche contenta che mi abbiano scritto tanto per parlarmi della parte introduttiva, che di solito nei libri di cucina si salta a piè pari.

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