Marcello Messori

Crisi bancaria, Deutsche Bank non può fallire

di Monica Straniero

Marcello Messori, accreditato studioso del sistema bancario e finanziario ed attualmente direttore della School of European Political Economy della Luiss, ha le idee chiare: «La banca tedesca è troppo interconnessa con il settore finanziario europeo e internazionale». Per questo un suo fallimento è molto improbabile: «L’esperienza Lehman Brothers ci dice che gli effetti sarebbero ingovernabili in termini di instabilità sistemica».

La richiesta di una maxi multa di 14 miliardi da parte del governo degli Stati Uniti ha scosso una delle più importanti banche d'affari a livello mondiale, Deutsche Bank. L’accusa è di aver venduto a ignari risparmiatori titoli tossici legati ai cosiddetti mutui subprime prima dello scoppio della crisi del 2008.

Alla fine la banca tedesca raggiungerà un accordo per ridurre la sanzione. Ma quali sono i rischi della crisi di Deutsche Bank sulle altre banche europee. A spiegarlo a Vita.it è Marcello Messori, accreditato studioso del sistema bancario e finanziario ed attualmente direttore della School of European Political Economy della Luiss. «Come emerge dalla valutazione espressa dal Fondo Monetario Internazionale ancor prima che si manifestasse la richiesta statunitense di

sanzioni, Deutsche Bank (DB) è così interconnessa con il settore finanziario europeo e internazionale da rendere assai improbabile l’eventualità di un suo fallimento. L’esperienza di Lehman Brothers segnala infatti che tale fallimento avrebbe impatti ingovernabili in termini di instabilità sistemica».


Aiuti di stato o bail in. Come si può salvare la banca tedesca?
Nonostante i suoi gravissimi problemi, DB non appare sull’orlo del default. Essa detiene un rilevante cuscinetto liquido, possiede molteplici attività che possono essere cedute senza soverchie difficoltà e ha margini per collocare sul mercato un consistente aumento di capitale. A mio avviso, facendo riferimento ai termini della normativa introdotta dall’Unione bancaria, non siamo neppure alla vigilia di un processo di salvataggio di DB basato sul meccanismo europeo di risoluzione delle crisi bancarie. Di conseguenza, non mi pare che incomba la minaccia di un bail in, il meccanismo di salvataggio bancario che coinvolge azionisti, obbligazionisti e correntisti con più di 100mila euro sul conto. Certo, DB deve apportare profonde trasformazioni al suo modello di business e deve riacquistare la fiducia dei suoi creditori; per fare questo, sarà probabilmente chiamata ad affrontare una nuova e consistente ricapitalizzazione per sanare i suoi profondi squilibri; e, nonostante la potenziale positiva domanda (non solo nazionale) di azioni di DB, non è detto che la reazione dei mercati sia sufficiente ad assorbire l’intero ammontare del nuovo capitale richiesto. Tuttavia, anche in questa eventualità negativa, non sarebbe affatto scontato l’avvio del bail in. Come noto, nel caso in cui la crisi di una o più banche comporti un elevato rischio di instabilità sistemica per il mercato finanziario, le attuali norme europee prevedono la possibilità di un aiuto di stato sostitutivo del processo di risoluzione; e, per le ragioni già menzionate, non vi è dubbio che la crisi di DB configurerebbe il caso di elevato rischio di instabilità sistemica. A quel punto, la soluzione migliore sarebbe la sottoscrizione da parte del governo tedesco delle nuove azioni di DB non assorbite dal mercato. Un tale intervento avrebbe un evidente costo di credibilità per la Germania. Ma, a quel punto, sarebbe il male minore per tutta l’area dell’euro e per gli equilibri finanziari internazionali.

Non vi è dubbio che la crisi di Deutsche Bank configurerebbe il caso di elevato rischio di instabilità sistemica

Il Fondo Monetario Internazionale nel suo "Global Financial Stability Report", presentato a Washington, ha invitato l’Italia a risolvere rapidamente i problemi del sistema bancario. Quanto è grave la situazione in cui versano le banche italiane?
Pur se per ragioni diverse dal caso tedesco (che, sia detto per inciso, non è riducibile solo alle difficoltà di DB), anche il settore bancario italiano è in una situazione molto problematica. Oltre al Monte dei Paschi di Siena (che presenta una situazione negativa estrema), in Italia vi sono vari altri gruppi bancari di grandi e medie dimensioni e molte banche piccole o piccolissime che sono appesantite da un ammontare eccessivo di crediti problematici (NPL), ossia da sofferenze e prestiti di dubbia solvibilità. Il peso abnorme dei NPL ha avuto come concausa la lunga recessione e stagnazione dell’economia nazionale. Esso è stato però anche causato dall’eccessivo volume di prestiti bancari, concesso prima della crisi finanziaria internazionale a imprese o famiglie non meritevoli sulla base di relazioni perverse perché volte a proteggere posizioni di rendita anziché ad allocare in modo efficiente le risorse. Fatto è che, oggi, gli NPL non minacciano tanto la solvibilità a medio termine del settore bancario italiano; esse impediscono soprattutto l’operatività bancaria e sono, quindi, uno degli ostacoli alla ripresa macroeconomica del nostro Paese. Ecco perché il Fondo monetario internazionale sostiene correttamente la necessità di una graduale ma rapida riduzione dello stock di NPL. Il problema è che, per liquidare l’eccesso di questo stock mediante cessioni di una parte degli NPL sul mercato (processi di cartolarizzazione), molte banche italiane dovrebbero sopportare minus-valenze così ingenti da richiedere significative ricapitalizzazioni. È però difficile individuare una positiva domanda di mercato per le nuove azioni delle banche italiane. Queste ultime hanno un’organizzazione inefficiente (eccessivo numero di sportelli con relativi costi), un modello di specializzazione superato e bassa redditività cosicché promettono una remunerazione del capitale inferiore al suo costo. A mio avviso, il quadro descritto configura un alto rischio di instabilità sistemica. Pertanto, nel caso italiano ancor di più che nel caso tedesco, la soluzione migliore (per non dire inevitabile) è un intervento pubblico per sostenere le necessarie ricapitalizzazioni di molti gruppi bancari e banche italiani. Altra questione è se tale intervento pubblico possa pesare sul nostro esausto bilancio pubblico.

Per Deutsche Bank, come per molte altre banche europee ed internazionali, la sanzione non è che l’ultima di una lunga serie di illeciti. Nulla sembra cambiato dal 2008, i banchieri continuano a comportarsi in modo avventato e pericoloso. Di chi sono le responsabilità?
La possibilità, che si verifichino nel prossimo futuro comportamenti illeciti con forma diversa ma di natura simile a quelli alla base della crisi finanziaria internazionale del 2007-’09 e oggetto delle attuali sanzioni, non si è affatto azzerata (né avrebbe potuto esserlo). Ciò non significa, però, che nulla sia cambiato. Innanzitutto, vi sono stati progressi nella regolamentazione e nella vigilanza del settore bancario sia negli Stati Uniti che in Europa. La nuova regolamentazione sui requisiti e sui cuscinetti di capitale, che è stata introdotta con Basilea 3 e che sarà forse rafforzata da Basilea 4, presenta aspetti critici; essa costituisce comunque un indubbio passo avanti rispetto al sistema di Basilea 1 largamente vigente negli anni che hanno preparato la crisi finanziaria internazionale. Per giunta la nuova vigilanza, introdotta in Europa grazie al processo di Unione bancaria, e la nuova disciplina di risoluzione delle crisi hanno certo punti di debolezza; esse rappresentano tuttavia straordinari passi avanti rispetto ai difformi regimi nazionali preesistenti. In secondo luogo, vi sono stati radicali e positivi cambiamenti nella gestione della politica monetaria; e si è tornati a porsi il problema dell’economia ‘reale’ e degli strumenti di politica economica idonei a sostenerne la crescita. In sintesi: non è vero che nulla sia cambiato; resta tuttavia vero che molto resta da fare soprattutto sul terreno dei comportamenti individuali e collettivi.

La possibilità che si verifichino nel prossimo futuro comportamenti illeciti, con forma diversa ma di natura simile a quelli alla base della crisi finanziaria internazionale del 2008 e oggetto delle attuali sanzioni, non si è affatto azzerata

Può la cosiddetta biodiversità bancaria, ovvero più banche etiche e corporative, rappresentare una risposta ai problemi del sistema bancario ancora dominato dalle “banche troppo grandi per fallire”?
Le mie ultime considerazioni mostrano che la risposta è fortemente positiva. Credo che i principi etici abbiano un ruolo cruciale da svolgere anche, se non soprattutto, in campo finanziario. Inoltre, come atteggiamento culturale generale, sono favorevole alla coesistenza di molteplici strutture proprietarie e di governance nell’ambito di uno stesso sistema economico; specie se adeguatamente regolamentata, la diversità è infatti una ricchezza insostituibile per ogni economia di mercato. Questa mia risposta necessita, però, di tre caveat. Primo: l’appello alla ‘biodiversità’ bancaria non deve diventare il ‘cavallo di Troia’ per legittimare strutture proprietarie opache e autoreferenziali oppure rapporti di prossimità finalizzati alla protezione e al rafforzamento di posizioni di rendita o di appartenenza. Secondo: la critica all’eccesso di dimensione (banche ‘troppo grandi per fallire’) o di interconnessione (banche ‘troppo interconnesse per fallire’) non deve scadere nell’ideologia del ‘piccolo è bello’. Se il piccolo serve a coprire i comportamenti devianti (pro-rendita) paventati nel punto precedente, esso diventa un minus e non un plus; il problema non è la dimensione delle singole banche, ma la loro capacità di combinare efficienza ed efficacia nelle loro scelte finanziarie. Inoltre, il settore bancario italiano nel suo complesso è distorto a causa di un numero eccessivo e non di un numero insufficiente di banche; occorre pervenire a un sistema, in cui trovino spazio banche di diversa dimensione (grandi, medie e piccole). Terzo: l’etica non deve diventare sinonimo di scelte che si sostituiscono i meccanismi di mercato, bensì di scelte che vincolano e sostanziano i rapporti di mercato. Ciò significa che il riferimento all’etica è complementare e non sostitutivo al criterio di efficienza nell’allocazione delle attività bancarie verso l’economia “reale”. In sintesi, questi miei tre caveat hanno due implicazioni. Innanzitutto, l’etica va intesa come una componente cruciale di un’economia di mercato, non va utilizzata come strumento per costruire aree protette rispetto al funzionamento del mercato. Inoltre, grazie all’intrinseca connessione fra etica e mercato, il mercato non può essere ideologicamente ridotto a un meccanismo automatico ed efficiente ma va considerato un’istituzione complessa e fallibile che interagisce con altre istituzioni economiche e meta-economiche (ossia Stato e varie istituzioni intermedie) sulla base di un’efficace regolamentazione.

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