Alessandro Garrone

«Credo che restituire sia giusto ma conta far parte di una comunità»

di Giampaolo Cerri

Ai vertici del gruppo Erg, che ha guidato alla riconversione green ormai 20 anni fa, presiede la fondazione intitolata al nonno Edoardo. Col progetto ReStartApp, un ambizioso programma di ripopolamento dell'Appennino, premia ogni anno molti giovani imprenditori. Investimenti per 1,4 milioni ogni anno. L'impegno personale in altri progetti filantropici come quelli della Fondazione Mus.e e di Flying Angels

Dal numero di aprile di VITA – dedicato alle fondazioni di impresa e alla filantropia corporate – e che potete acquistare sul nostro store, l'intervista ad Alessandro Garrone, presidente della Fondazione Edoardo Garrone, qui nella versione integrale.

Vent’anni fa, non ancora 40enne, aveva preso le redini del gruppo petrolifero di famiglia, la Erg Spa, e aveva guidato la transizione alle energie rinnovabili. Con l’accordo e il sostegno della vasta famiglia, i Garrone-Mondini, quella che, dal nonno Edoardo al padre Riccardo, avevano costruito un’azienda diventata marchio popolare per gli italiani. Alessandro Garrone, genovese, classe 1963, dal 2012 è vice-presidente esecutivo e presidente del Comitato strategico di un gruppo quotato da circa 4 miliardi di capitalizzazione.

Capitano di industria, insomma, anzi cavaliere del lavoro, ma anche filantropo a tutto tondo: Garrone infatti guida anche la fondazione "Edoardo Garrone", che si dedica alla formazione dei giovani e alla valorizzazione dei territori, con particolare riguardo a quelli montani col progetto Appennino (oltre 600mila euro di investimento annuo sugli 1,4 milioni investiti annualmente dalla fondazione, ndr), per rilanciare quelle aree interne attraverso la formazione di giovani imprenditori col progetto ReStartApp. Non solo è impegnato, come vicepresidente, anche con fondazione Mus.e, che opera in 16 città italiane, con progetti di arte (danza, pittura, balletto, musica) nelle scuole e con i bambini. Ed è stato fra i fondatori di Flying Angels, altra fondazione che assicura trasporti sanitari di emergenza a bambini di tutto il mondo, che non ne avrebbero i mezzi.

Garrone, chi glielo fa fare? C’entra la passione ereditata da suo padre Riccardo, Duccio per i genovesi?

Sicuramente quell’esempio c’entra ma era un po’ una caratteristica di famiglia, peraltro. Anche mio nonno Edoardo, che non ho conosciuto, lo descrivono come un uomo burbero ma che poi, per i propri dipendenti, era di una generosità fuori dal comune. Certo, si dice che un imprenditore debba restituire, e lo condivido, ma non è un automatismo. Credo conti di più il senso di far parte di una comunità.

Quando morì suo padre, un giornale scrisse: «I Garrone sono sempre stati una onlus per Genova».

Sì, sentiva Genova come la sua comunità, la sua gente, gli amici. Un giorno, vedendo che del Carlo Felice, il teatro lirico, non si riusciva a concludere una ristrutturazione che si trascinava dalla guerra, fece come Erg per una donazione da 11 miliardi di lire. Credo sia la più alta donazione privata, in Europa, per un teatro lirico. Certo aveva passione per l’opera, ma l’ha fatto per la città, di cuore. Conta molto il vivere la comunità in cui si è, perché quella comunità sono persone, amici. Magari ci sarebbe stato da fare selezione, perché mio padre, a volte, è stato generoso anche con persone sbagliate. Succede.

Si ricorda qualche episodio di questa generosità?

Non era molto espansivo, non ci diceva farò questo e quello. Le cose le scoprivamo dopo. Aiutava persone quasi senza limiti, senza dire niente a nessuno. Sembrerà assurdo, ma in questa sua generosità si è trovato a volte sovra-esposto. Pare impossibile ma accadeva. E tutto ciò in un contesto di gratitudine non immediata, almeno non sempre. Quello che contava per lui era essere dentro una comunità, era felice di intercettare un bisogno, non gli importava della gratitudine. Magari qualcuno in città pensava: “Chissà cosa gliene viene”.

Una lezione nei fatti.

Siamo sei fratelli e siamo un po’ tutti così. L’unica cosa forse abbiamo imparato a stare un po’ più attenti, a selezionare i progetti e attraverso la Fondazione, o personalmente, qualcosa di bello l’abbiamo fatto. Come con Mus-e, anche quella ereditata da papà. O con Flying Angels, creata con altri sei amici. Hanno tutte sede nell’edificio che ospita Fondazione Garrone.

Anche nei bandi di progetto Appennino, la Fondazione Edoardo Garrone lavora sempre con altre fondazioni: una regola della casa insomma.

Un modo di vivere le cose assieme. Una fundraiser di Fondazione Garrone ha lavorato per esempio a lungo per Flying Angels, “prestata” per così dire. Per me significa un’alleanza operativa e di idee, una cultura del fare rete, dello scambiare, del crescere insieme. Un modo di imparare gli uni dagli altri. E un imprenditore può dare a queste realtà anche una crescita a livello gestionale, organizzativa, delle persone stesse: dal fare un budget, una previsione. Pur lavorando con una “testa da onlus”, la macchina deve funzionare.

Facciamo un esempio?

Mus-e, per esempio, che era strutturata in 12 città con tante “Mus-e autonome”, ognuna con propri consigli di amministrazione, seppure coordinate da Genova. Alla fine, con la crescita, era diventata ingestibile: lo scorso abbiamo deciso di costituire la Fondazione Mus-e Italia, in cui sono confluite tutte; mentre a livello locale restano dei comitati che si rapportano alle scuole e ai territori, la gestione e il lavoro sui progetti europei sono stati accentrati sulla fondazione.

Perché per Appennino avete puntato sulle giovani imprese?

Quella dell’Appennino era un’ossessione di mio padre, che ha aveva la capacità di leggere la crisi della montagna, quando non era affatto un tema all’ordine del giorno. Avevo fatto una sorta di libro bianco, un suo “Progetto Appennino”, per il quale si era fatto supportare da esperti e specialisti e si era confrontato con il mondo politico allora già impegnato su questi temi.

Dopo la scomparsa di suo padre, è arrivato lei.

La Fondazione Garrone l’ho rivista. Prima faceva eventi culturali, anche di qualità, su Genova ma abbiamo voluto cambiare progettualità: ho commissionato uno studio sull’Appennino e il suo potenziale economico, e siamo partiti. Sapevamo che sarebbe stato un progetto lungo ma, per quello che abbiamo creato finora, siamo davvero molto soddisfatti. La prima edizione la facemmo proprio a Grondona (Al), dove avevo vissuto da bambino e poi, lungo la dorsale, siamo arrivati fino in Irpinia.

Che cosa c’era a Grondona, una casa di famiglia?

Grondona è in una valle molto bella ma chiusa, dove la strada finisce. Un posto dove quando passi la gente si affaccia alle finestre. Una valle che era stata abbandonata e che ha ispirato mio padre: l’aveva vista vissuta, popolata, coltivata. E poi l’aveva vista deperire, anno dopo anno. Sì, a Grondona siamo arrivati, scappando da Genova a metà degli anni ’70, nel momento della nascita delle Brigate Rosse. In un covo, trovarono infatti un piano per colpire mio padre quando, da casa, andava in ufficio. Io ero in collegio a Torino mi ci trasferii e mia madre ci vive ancora. Fare lì il primo ReStartApp è stato un ritorno a casa. Lo facemmo nello spazio di un amico che studiava alle elementari con me.

Nel 2014.

Uno degli imprenditori che, dopo il campus, dopo la fase di formazione, vinse il primo premio, fu Giorgio Masio di Sassello (Sv): faceva ingegneria ambientale a Savona, vide la locandina di ReStartApp in ateneo e si iscrisse. Fece il percorso formativo e, alla fine, vinse il premio. Oggi, col suo birrificio artigianale, Altavia, è un imprenditore dinamico e di successo. In Appennino abbiamo creato lavoro, ricchezza, rigenerazione dei luoghi.

Cose belle da vedere.

È un grande privilegio. Quando vado in aula, a portare la mia esperienza, vedo giovani di qualità, che fanno un lavoro “in direzione ostinata e contraria”, per dirla con Fabrizio De André, facendo una fatica immane, pur di fare impresa lassù.

C’è qualche storia che l’ha colpita, in particolare?

Quella di una giovane che ha fatto tutto il campus anche se, alla fine, il suo progetto, costruire un agriturismo sull’Appennino emiliano, non fu fra i tre vincitori. Chiara Battistini, originaria dell’Emilia-Romagna, lavorava nel marketing di Moleskine, una bella posizione: alle selezioni parlò di questo casale sull’Appennino romagnolo, dove i partigiani facevano base. Raccontò del suo progetto di fare un locale curato, in cui si cucinava, si faceva ospitalità. E si licenziò! Era il nostro primo campus e la cosa destò qualche preoccupazione. Invece è stata anche quella una bella storia: l’agriturismo Casa Vallona ospita oggi turisti da tutto il mondo, a Monte S. Pietro (Bo). Un caso di successo. Quando ne avrò il tempo, voglio fare il tour di queste imprese.

Si capisce che c’è un’idea di filantropia che si lega a quella di competenza.

In quel progetto, più che altrove. In un’ottica manageriale, facciamo una selezione di idee, con la call for ideas, li facciamo studiare, lavorare per due o tre mesi, fare business plan, piani finanziari, di marketing. Cose che nelle imprese oggi spesso non si fa a quel livello e con quell’intensità. Ma non basta.

Vale a dire?

Vorrei trovare altri soggetti finanziari che, usando il nostro lavoro di selezione come una due diligence, investissero in queste realtà. Il prossimo passo deve essere questo. Certo, sono giovani che si arrangiano per conto loro ma se avessero più forza dal lato finanziario la crescita andrebbe via veloce. Una Casa Vallona che potrebbe avere altre due o tre gemelle. Ecco, mi piacerebbe creare un network del genere, magari con le altre fondazioni. Sono vicepresidente di Associazione italiana aziende famigliari – Aidaf e magari mi confronterò anche con quell’ambito. Dalla cultura condivisa, dal confronto, possono nascere nuovi percorsi, nuovi progetti.

Qual è la dinamica delle fondazioni di impresa? Nasce la consapevolezza della responsabilità sociale di impresa e si va verso la fondazione?

C’è chi queste attività le ha sempre fatte e poi, a un certo punto, comincia a scriverle su un bilancio sociale. Altre aziende che acquisiscono una consapevolezza nuova, quella di un mondo che va verso una direzione che tiene conto degli Esg e di una responsabilità di impresa. E che decidono di intraprendere una strada e lo fanno bene sino in fondo, creando organismi ad hoc, come le fondazioni, appunto. Anche questo, a me pare, fa aumentare la presenza di organizzazioni di questo genere.

Torno alla domanda inziale, Garrone. Chi ve lo fa fare? Perché farlo nell’Italia di oggi?

Non ho una risposta. Potrei farne a meno, l’azienda non ha bisogno di visibilità, di consenso: abbiamo fatto la riconversione alle energie rinnovabili oltre 20 anni fa. Forse per carattere, per storia famigliare, mi viene naturale. Ci viene naturale come famiglie. Perché siamo alla quinta generazione, qualcosa come 47 persone, e fra 10 anni, secondo la mia proiezione, saremo un centinaio, fra Garrone e Mondini. E ci troviamo sempre d’accordo in famiglia, per l’azienda, ma anche nel fare qualcosa di sensato per gli altri.

Certamente. Le capita, qualche volta, di imbattersi in persone o progetti beneficiati che invece le confermano di essere nel giusto?

Certo. Succede quando partecipo a Progetto Appennino, quando sto in aula con questi giovani aspiranti imprenditori, quando vedo e sento la loro passione, per fare impresa lassù, da dove magari venivano i loro nonni. O quando vedo mia figlia Maria guidare Mus-e e la passione con cui si dedica a questi progetti coi bambini. O quando guardo i report mensili di Flying Angels e vedere i numeri dei bambini trasportati, che spesso vuol dire salvati. In quasi 11 anni, sono stati oltre 2.500. Ecco allora mi viene da dire: sì, facciamo bene.

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