Conoscere se stessi non è facile come sembra: la nostra identità è formata da tanti tasselli, piccoli e grandi, che non finiamo mai di scoprire. Lo sa bene Riccarda Zezza, imprenditrice sociale e scrittrice, che qualche giorno fa ha dichiarato in un post sui social di aver ricevuto una diagnosi di autismo a 52 anni.
Qual è il senso di cercare una diagnosi in età adulta?
Perché conoscersi è sempre utile; non bisogna avere paura di conoscersi meglio. Una diagnosi a 52 anni ha un senso sia per il passato, che per il futuro e il presente. Aiuta a comprendere certi avvenimenti della tua infanzia e della tua adolescenza, ma anche a porti in modo diverso nel presente: le mie caratteristiche, che pensavo dipendessero dall’essere strana, ora hanno un nome. La diagnosi, quindi, serve a fare pace col passato e avere relazioni migliori nel presente con gli altri e con te stesso.
Cosa l’ha fatta pensare di poter essere autistica?
I miei figli sono neurodivergenti, hanno un alto potenziale cognitivo. L’ho scoperto nel 2016; ho cominciato, quindi a frequentare questo tema e ho capito di avere delle caratteristiche in comune con loro. Però non pensavo di essere autistica, non mi è mai nemmeno venuto in mente. Poi una persona, un’altra Ashoka fellow (imprenditori sociali innovativi, membri dell’organizzazione Ashoka. ndr), ha iniziato a dirmi che avrei potuto essere autistica e a consigliarmi di fare una valutazione.
La diagnosi serve a fare pace col passato e avere relazioni migliori nel presente con gli altri e con te stesso.
È meglio, quindi, ricevere una diagnosi da adulti?
Dipende. Io ai miei figli ho sempre parlato della loro neurodivergenza, fin da piccoli, perché essere ad alto potenziale cognitivo è un’etichetta che non spaventa. L’autismo invece si porta ancora dietro tanti stereotipi e tanta fragilità agli occhi della gente. Non dico che non si debba saperlo, ma forse per i bambini potrebbe dar luogo a interpretazioni troppo strette. Credo che l’autismo oggi non sia rappresentato ancora in maniera corretta, soprattutto per le donne. Non è giusto che si porti dietro un’etichetta così disabilitante. La neurodivergenza è uno spettro molto ampio, che racchiude caratteristiche di vario tipo, con fragilità e punti di forza: la società non è ancora in grado di cogliere tutta questa complessità.
Cosa risponde a chi dice che siamo tutti un po’ autistici?
Che è vero (ride). In realtà quando te lo dicono per un momento ti irriti anche un po’, perché ti sembra che stiamo sminuendo qualcosa di molto specifico. È l’opposto della discriminazione, è un po’ un “buttarla in caciara”. In realtà, se poi ci pensi, è una bella prospettiva: sicuramente esiste uno spettro ampio che riguarda il funzionamento del cervello umano, che ci rende tutti diversi. Ciascuno di noi ha dei tratti particolari e più li riconosciamo meglio stiamo, noi e gli altri. Diverse persone, dopo aver parlato con me, hanno detto «Voglio fare anche io la valutazione». Vuol dire che ne parlo nel modo giusto, perché non la faccio sembrare una cosa pesante. Magari viene fuori che non hai i tratti dell’autismo, ma scopri parti di te che è interessante conoscere. Ti fanno, per esempio, anche la valutazione del Qi (Quoziente intellettivo, ndr), che secondo me è parzialissima – si basa tutta su menti razionali e maschili – ma in ogni caso ti porta a sapere come processi le informazioni, in cosa sei più veloce e in cosa più lento.
Ciascuno di noi ha dei tratti particolari e più li riconosciamo meglio stiamo, noi e gli altri.
Lei scrive anche che userà questa diagnosi “come scusa”. In che senso?
Meno male che sono autistica, perché faccio un sacco di “incidenti diplomatici”. Pensavo dipendesse dalla mia incapacità di fondo nelle relazioni umane, ho delle caratteristiche per cui vado in ansia in determinate situazioni oppure non riconosco le persone. E se le riconosco non so che dire, ho problemi enormi nel parlare del più e del meno. Se discutiamo di qualcosa che mi piace posso andare avanti a parlare e ascoltare per ore e ore, se invece dell’argomento non mi importa nulla faccio molta fatica a sembrare interessata. Mi domando sempre come facciano gli altri. Di queste caratteristiche ho dovuto scusarmi per tutta la vita, adesso mi scuso, certo, ma almeno ho una giustificazione. Quando mi chiedono di sedermi in mezzo alla platea ora dico di no, perché mi viene l’ansia.
Non sarebbe bello che non servisse una diagnosi per dire una cosa come questa?
Assolutamente si. La società però funziona per regole sociali condivise, che sono quelle che fanno sentire al sicuro la media delle persone. Se non ci fossero, dovremmo continuamente spiegare tutto a tutti. Credo ci siano dei momenti in cui è importante sapere che puoi spiegare le tue differenze e non considerarle un limite, però penso anche che le regole sociali servano. Però devono aggiornarsi, diciamo, con l’aggiornamento degli esseri umani, perché ogni volta che crei una regola, immediatamente stai creando anche un’esclusione. L’importante è essere in grado di mettere in discussione queste norme, arricchirle; il problema nasce quando rimangono indietro rispetto alla società, come accade oggi per noi.
La diagnosi le permetterà anche di essere più indulgente con sé stessa?
Una novità è che mentre prima mi limitavo, adesso capita che canti a voce alta per strada, quando cammino ascoltando musica. Sicuramente ci sono delle cose che mi affaticano e cercherò di farle meno, ma ci sono anche delle cose che mi fanno sentire libera e mi fanno stare bene, che vorrei provare a far di più. Si dice che le persone, quando ricevono la diagnosi, sembrano più autistiche. La verità è che ti senti libero di fare delle cose che prima non facevi.
dice che le persone, quando ricevono la diagnosi, sembrano più autistiche. La verità è che ti senti libero di fare delle cose che prima non facevi.
Per esempio?
Perdermi nei miei pensieri, muovere le dita e le mani in maniera più intenzionale di come facevo prima, quando cercavo di limitarmi, partecipare a meno riunioni, soprattutto se online. Chiaramente quest’ultima cosa me la gioco, lo posso fare, ma poi accumulo un certo livello di stanchezza. È chiaro che questa libertà si abbina a un’età in cui sono anche più sicura a dire certe cose, immagino che se avessi trent’anni sarebbe diverso. Quando ho ricevuto la diagnosi ho avuto un iniziale momento di paura, perché ho pensato che entravo in una popolazione che viene percepita come “aliena”, “debole”. Mi sono anche preoccupata che questo mi portasse troppo lontana dalla vita di tutti i giorni. Invece ora ho capito che – come le altre cose che sono, madre, figlia, imprenditrice, ricercatrice – è qualcosa che fa parte di me. Pensavo anche di lavorarci su: ancora prima mi ero già iscritta a un master in neuroscienze. Su questo tema c’è tanto da dire e da ricercare, quello che sappiamo è molto limitato.
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