Tunisia

Così reinseriamo i foreign fighters che decidono di lasciare l’Isis

di Costanza Spocci

«La vicenda di mio fratello mi ha spinto a fondare la Rescue Association for Tunisians Trapped Abroad», spiega Mohammed Ikbal Ben Rejeb. L’associazione sostiene le famiglie dei combattenti arruolatisi nelle fila di movimenti islamici radicali in Siria, Iraq e Libia, e si impegna per la reintegrazione sociale di chi sceglie di abbandonare lo Stato islamico

«Tutto è nato quando mio fratello, affetto da distrofia muscolare e costretto su una sedia a rotelle, è partito per combattere il jihad in Siria». Mohammed Ikbal Ben Rejeb, 40 anni, è ancora emozionato nel rievocare la sorpresa della sua famiglia quando ha scoperto che Hamza, ingegnere informatico di 23 anni, è sparito nel nulla da un giorno all’altro. Aspira intensamente una sigaretta nella hall dell’Hotel Africa situato nel pieno centro di Tunisi e inizia a raccontare.

«È dalla storia di mio fratello che mi è venuta l’idea di fondare la Rescue Association for Tunisians Trapped Abroad», un’associazione che si sostiene le famiglie dei foreign fighters tunisini arruolatisi nelle fila di movimenti islamici radicali in Siria, Iraq e Libia, e che si occupa della reintegrazione dei combattenti che decidono di tornare.

«In famiglia non ci eravamo accorti di nulla», dice Ben Rejeb, «Hamza era religioso, sì, con la barba, ma non era nemmeno un bigotto». Suo fratello minore, a causa della malattia, non aveva una vita sociale molto attiva e spendeva gran parte della sua giornata davanti al computer.

Negli ultimi tempi, però, qualcosa era cambiato: stressava la madre e la sorella perché si coprissero il capo con il velo; si lamentava con il padre, che ascoltava spesso musica in casa e guardava troppa tv; esortava il fratello maggiore a pregare.

È dalla storia di mio fratello che mi è venuta l’idea di fondare la Rescue Association for Tunisians Trapped Abroad

La sera del 26 marzo 2013 Ben Rejeb torna a casa dall’ufficio di telecomunicazioni in cui lavora da ormai una decina d’anni. Cerca Hamza, ma il fratello non c’è. Le ore passano, il telefono suona a vuoto. «Dove potrà mai essere andato?». La famiglia si preoccupa e allerta la polizia la sera stessa. Ben Rejeb intanto inizia le sue ricerche personali: ha un brutto presentimento e non vuole perdere tempo. Torna in ufficio e inizia una disperata ricerca sui tabulati telefonici del fratello, cercando di intercettare il suo GSM. Il mattino dopo si reca di corsa in Libia e in breve rimette insieme alcuni tasselli, scoprendo il percorso di Hamza: Tunisi – Tripoli, Tripoli – Istanbul, Istanbul – Antakya, città nel sud della Turchia al confine con la Siria.

«Dopo due giorni si è messo in contatto con mia sorella». Hamza, a differenza degli altri ragazzi partiti con lui, non si era fatto requisire il cellulare, e l’aveva nascosto in uno dei manici della sedia a rotelle. «È così che abbiamo scoperto che si trovava in Siria, arruolato con il gruppo jihadista Jabhat al Nusra». Un ragazzo sulla sedia a rotelle? «Hamza era un genio del computer, e Jabat al Nusra, e ora soprattutto ISIS, cerca gente qualificata».

Anche i reclutatori sono a caccia di menti brillanti: ricevono 3.000 dollari di ricompensa per un ragazzo che combatte– un futuro attentatore suicida, nella maggioranza dei casi – ma ne ottengono 10.000 se il ragazzo è ingegnere o è in grado di ricoprire ruoli amministrativi. L’organizzazione è fondamentale, infatti, per lo Stato Islamico. Il viaggio dei ragazzi non è coperto, spiega Ben Rejeb: «mio fratello ha pagato di tasca sua 300 dinari (128 E) per entrare in Libia e 1000 (428 E) di aereo per arrivare in Turchia».

Non appena ricevuta la notizia, la famiglia di Ben Rejeb esce allo scoperto e parla in tv perché quello di Hamza diventi un caso nazionale. Lo scopo: gettare su Jabhat al Nusra l’onta di aver trascinato in guerra un ragazzo con un serio handicap fisico e premere perché Hamza sia rispedito in Tunisia. La strategia funziona e nel giro di una settimana dalla sua scomparsa Hamza è di nuovo a casa. Non parla ancora al fratello da allora, ma si è riadattato progressivamente alla sua vecchia vita e continua a lavorare con i computer.

«Il nostro caso ha segnato un inizio e ha dato il coraggio a tante famiglie di uscire allo scoperto e parlare», dice Ben Rejeb soddisfatto. Sono circa 6500 i tunisini partiti in zone di conflitto e arruolati con milizie islamiste radicali – il gruppo di foreign fighters più numeroso secondo i dati del Soufan Group – e 800 i combattenti tunisini morti all’estero. Da quando Ben Rejeb ha pensato di fondare RATTA nel novembre 2013, circa 200 famiglie hanno usufruito di supporto legale e mediatico per cercare di recuperare i loro congiunti “bloccati” all’estero.

Oggi RATTA conta un centinaio di membri, un numero però che varia costantemente e che dipende dalla volontà delle famiglie di condividere la dipartita del loro caro. L’associazione si finanzia esclusivamente con le donazioni e i volontari sono gli stessi membri delle famiglie dell’associazione: il loro compito è dare informazioni, rispondere alle telefonate e mettere i “nuovi arrivati” in contatto con l’avvocato dell’associazione che fornisce consulenza gratuita.

Nel quadro dell’organizzazione Ben Rejeb è il pilastro che regge tutta la struttura. In veste di presidente è comparso in molte trasmissioni televisive tunisine per sensibilizzare gli ascoltatori e per appellarsi alle famiglie colpite dagli arruolamenti e convincerle a farsi supportare. RATTA cerca di farsi conoscere soprattutto facendo rete: con internet e i social, resta disponibile con la stampa e lavora a stretto contatto con la Lega Tunisina dei Diritti dell’Uomo e altre ONG tunisine. L’associazione ha organizzato in passato anche manifestazioni pubbliche davanti ai Ministeri degli Esteri, degli Affari Sociali e degli Affari religiosi, per chiedere un maggior supporto dello Stato alle famiglie e sensibilizzare l’opinione pubblica.

«Nella maggior parte dei casi le famiglie non condividono affatto la scelta del loro familiare, ma vengono comunque stigmatizzate e isolate dal resto della società», spiega Ben Rejeb. Le famiglie più in difficoltà sono quelle in cui sono state delle donne a partire: in questo caso l’onta non è tanto il “jihad” in sé, quanto l’accezione morale e soprattutto sessuale che il resto della società imputa all’arruolamento della ragazza. «Per una famiglia media tunisina, questo è il massimo della vergogna, per questo vengono da noi a chiedere aiuto e non si rivolgono alla famiglia allargata o a conoscenti».

Un caso unico è stato quello di Olfa Hamrouni, madre di due sorelle partite a combattere in Libia. «Anche lei è diventata un caso nazionale, non si è vergognata ad andare in tv e denunciare le autorità per non averla aiutata a trattenere le figlie. Stiamo cercando un modo per supportarla», spiega il presidente di RATTA.

L’associazione e soprattutto le famiglie, hanno dovuto affrontare molte difficoltà e minacce. A contrario di quanto si potrebbe pensare, i reclutatori e le cellule jihadiste non sono l’unico problema. La difficoltà maggiore rimane lo “stigma” che la famiglia del jihadista porta con sé nel momento in cui dichiara la scomparsa e, come riportato dall’esperienza di RATTA, le autorità sono le prime a esercitare costanti pressioni sulle famiglie. Nelle settimane immediatamente successive a un attacco terroristico, come gli attacchi al Museo del Bardo o a Sousse, la polizia ha fatto irruzione nelle case delle famiglie di molti sospetti terroristi. Dopo l’attacco di Ben Guerdane dello scorso 7 marzo, i familiari sono stati forzati a sottoporsi ad un prelievo del DNA, senza che le autorità fornissero alcuna spiegazione sul perché.

«Dopo gli attentati scattano sempre centinaia di arresti; molti giovani sono incarcerati sulla base di ‘intenzioni’ non comprovate», conferma l’avvocatessa Imene Triki, conosciuta in tutto il paese per difendere gli accusati di terrorismo. Le famiglie non possono appellarsi ad alcuna corte e devono osservare impotenti. «Questo non fa altro che peggiorare la situazione, perché nelle carceri i sospetti vengono torturati, umiliati e rilasciati dopo qualche settimana», spiega Triki. Il rischio di radicalizzazione di queste persone, secondo l’avvocatessa, è decisamente al di sopra della media.

Oltre alla prigione stessa che è un grande bacino di reclute, Facebook è un veicolo notevole, così come alcuni canali TV dove Imam infervorati incitano i più giovani a partire e combattere il jihad; ci sono poi le palestre e la piccola mafia di quartiere; e alcune moschee, che sfuggono al controllo del Ministero degli Affari religiosi, come quella principale di Tunisi, Al Fatah, che ospita i sermoni del leader di Ansar al Sharia Abu Iyad. Il vuoto di potere seguito alla rivoluzione dei gelsomini del gennaio 2011 ha permesso a gruppi jihadisti come Ansar al Sharia di predicare nelle strade e reclutare migliaia di ragazzi in modo del tutto indisturbato.

«Il problema è anche a livello istituzionale» sottolinea Ben Rejeb: Noureddine Al Khademi in persona, prima di diventare l’attuale Ministro degli Affari religiosi con il partito islamico Ennahda, aveva esortato una platea di giovani a partire in Siria.

I giovani che partono in media hanno dai 18 ai 27 anni. Secondo le stime ufficiali, il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 31,2% nel 2015, ma secondo il presidente di RATTA, «chi cerca lavoro va in Europa, chi si arruola con ISIS non lo fa per soldi ma cerca altro».

A Tunisi, uno dei quartier dove si registrano più partenze è Douar Icher, la banlieue ovest della capitale. Lì Neffati Arbi lavora come psicologo in un centro di supporto finanziato dal governo tunisino contro la radicalizzazione. “La fase preventiva è fondamentale, è necessario capire le ragioni che portano i giovani ad arruolarsi con movimenti islamisti radicali”, dice Arbi.

Il profilo tipico di chi parte per Siria, Libia e Iraq, spiega, è quello di un giovane neo-laureato in materie scientifiche: quello che avviene di solito è che questo giovane, ad un tratto, s’isola dalla sua comunità, tronca completamente con la sua famiglia e i suoi vecchi amici senza un motivo apparente e poi sparisce nel “nulla”.

«La motivazione principale è quella di realizzarsi, trovare uno spazio e un gruppo che permetta al ragazzo, o ragazza, di riscrivere e riaffermare una nuova identità», spiega lo psicologo.

Non tutti quelli che partono però decidono di andare via per sempre. In alcuni casi ritornano. «Siamo molto preoccupati dai rientri», dice Ben Rejeb di RATTA, «chi decide di rientrare deve poterlo fare, ci sono centinaia di ragazzi bloccati che muoiono o continuano a combattere con ISIS solo perché non hanno più scelta».

Per questo l’associazione continua a fare pressioni al Ministero degli Affari Sociali perché la Tunisia adotti programmi di riabilitazione e de-radicalizzazione che consentano ai pentiti di collaborare ed essere reinseriti nella società. «Soprattutto di quei ragazzi che non hanno ucciso, ma che si sono limitati a lavorare nei ranghi amministrativi dei gruppi terroristi».


La seconda occasione dei foreign fighters

Testi a cura di Costanza Spocci

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