Grégoire Ahongbonon

Così libero i matti in Africa, taglio le catene e li abbraccio

di Antonietta Nembri

È il 1991 quando a Bouaké in Costa d’Avorio ha incontrato una persona con una malattia mentale e se ne prende cura. Da allora la missione della sua vita è liberare i “matti” dalle catene con cui vengono trattenuti dagli stessi parenti. Non è un caso che lo chiamino il “Basaglia d’Africa” la sua azione sembra ispirarsi alla lezione del grande psichiatra italiano, anche se non l’ha mai conosciuto

«Purtroppo non ho ancora liberato tutte le persone malate, la prossima settimana vado in un villaggio dove c’è una persona che vive ancora incatenata». Sono le prime parole che Grégoire Ahongbonon rivolge a VITA che al tema della salute mentale ha dedicato l’ultimo numero, in occasione del centenario della nascita di Franco Basaglia. Da oltre trent’anni quest’uomo originario del Benin ha una missione: tagliare le catene che bloccano le persone affette da malattie mentali in Africa occidentale (Costa d’Avorio, Benin, Burkina Faso e Togo). 

Ascoltare il suo racconto è immergersi in una realtà per noi italiani quasi incomprensibile oggi. Grazie a Franco Basaglia nel nostro Paese da decenni i manicomi sono un ricordo, i luoghi in cui i malati venivano “contenuti” anche legandoli al letto appartengono al passato.

Da indemoniati a persone bisognose d’aiuto

In Africa invece la situazione è completamente diversa, chi ha una malattia mentale o è epilettico viene considerata, soprattutto nei villaggi, una persona indemoniata, vittima degli spiriti, abbandonata a se stessa e spesso incatenata dagli stessi genitori e parenti. 

È una storia più forte di me. È la mia fede in Dio che mi ha spinto a cominciare questa esperienza

Grégoire Ahongbonon

Ed è contro questa logica che nel 1991 Grégoire Ahongbonon ha iniziato ad agire, prima da solo e poi dal 1993 fondando un’associazione, l’Association Saint Camille de Lellis che è oggi presente in Costa d’Avorio, Benin e Togo. 

Il premio Franco Basaglia dell’Oms

La sua attività e i suoi risultati nel 1998 gli valgono il riconoscimento dell’Oms, è infatti la prima persona a ricevere il premio “Franco Basaglia” come migliore esperienza nella lotta contro l’esclusione sociale. Nel corso degli anni inoltre la sua attività trova il sostegno di fondazioni, ong, missionari in particolare francesi, svizzeri e canadesi, tra queste anche l’italiana Jobel, fondata nel 2000 proprio con la missione di sostenere la liberazione, l’accoglienza e la reintegrazione sociale e lavorativa delle persone con problemi di salute mentale. «A farci conoscere Grégoire è stato padre Paolo Zuttion, un missionario originario del Friuli. Un giorno un infermiere mi ha detto che in Africa c’era uno che liberava i malati» racconta Marco Bertoli, psichiatra, direttore del Dsm di Udine e membro dell’associazione che dal ’97 si reca periodicamente nei centri realizzati da Grégoire. 

Nell’immagine da Fb di Jobel da sx Grégoire con una persona accolta nel centro e un volontario italiano nell’agosto 2023

L’esperienza di Grégoire e delle persone malate che lui ha liberato, accolto e restituito alla società è stata raccontata in libri e documentari in questi oltre trent’anni. Ma quando si chiede a lui di raccontarsi e di descrivere la sua attività la prima cosa che dice è: «È una storia più forte di me. È la mia fede in Dio che mi ha spinto a cominciare questa esperienza»

Oggi sono gli stessi ex malati che curano i malati psichiatrici

Grégoire Ahongbonon, non ha studiato medicina, faceva il gommista e il taxista, dopo aver avuto una grossa crisi economica è entrato in depressione e come ricorda lui stesso «ho avuto la fortuna di incontrare un missionario francese che ha iniziato ad ascoltarmi e sostenermi».

Ma perché i malati psichiatrici?

Non li ho scelti. Con mia moglie avevo messo in piedi un gruppo di preghiera e andavamo a visitare i malati in ospedale, perché in Africa se non hai soldi o parenti in ospedale sei completamente abbandonato per cui noi abbiamo iniziato a lavarli e a pagare le medicine… Solo in seguito mi sono rivolto ai malati mentali. In Africa sono dappertutto, nella mia infanzia in Benin mi ricordo che giravano nudi per strada, cercano il cibo nei rifiuti e vengono anche picchiati. È successo che quel giorno mi sono fermato, cercava il cibo nella spazzatura, mi sono chiesto perché questo mi fa paura, perché se nel prossimo vedo Cristo ho paura di lui? Da quel giorno è cambiato tutto, all’inizio ho iniziato a portare il cibo e acqua fresca da bere… 

Il passo successivo qual è stato?

Abbiamo iniziato a ospitare i malati nella piccola cappella che avevamo come gruppo di preghiera, i primi risultati ottenuti con l’aiuto anche dei medici hanno stupito tutti. Abbiamo creato il primo centro e lì accoglievamo i malati che erano per strada. A quel punto hanno iniziato a chiamarmi nei villaggi. Mi ricordo, era la domenica delle Palme quando una donna mi ha detto «mio fratello è malato di mente ed è incatenato al mio villaggio»… Io non sapevo che incatenassero le persone. Quando sono riuscito a entrare nella casa per me è stato uno choc, non riuscivo a immaginare un uomo giovane incatenato al pavimento…

Grégoire mentre libera una persona dalle catene – dalla pagina Fb di Jobel

Ma è la famiglia a farlo?

Sì sono i genitori, ma io non ce l’ho con loro, non è un loro errore. Se un malato ha una crisi, non ha medicine, può ferirsi, può fare del male a qualcuno, anche ucciderlo. Purtroppo nei nostri Paesi, in Africa i malati mentali sono l’ultimo dei pensieri delle autorità. La Costa d’Avorio è più grande dell’Italia eppure ha solo due ospedali e se tuo figlio ha una crisi e lo mandi all’ospedale, se non hai i soldi non lo curano… per fortuna oggi le cose sono cambiate rispetto agli anni Novanta, anche perché abbiamo creato dei centri.

Ma come funzionano i centri?

Oggi sono gli stessi ex malati che curano i malati psichiatrici. Alcuni di loro sono andati a scuola e oggi sono infermieri e curano gli altri appena arrivati. Ed è questo il grande miracolo cui assistiamo ogni giorno…

Ma non ci sono medici, psichiatri?

In Benin abbiamo cinque centri, ma un solo psichiatra e sono gli stessi ex malati che fanno il lavoro. E oggi sono loro stessi che vanno nei villaggi a liberare le persone incatenate e a inviarle nei centri…

Nelle immagini l’ultima persona liberata dalle catene a marzo 2024
L’ultima persona liberata dalle catene accolta in un centro

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L’approccio che viene fatto nei centri è per così dire su più livelli, subito dopo la liberazione il malato viene accolto in un centro dove viene diagnosticata la patologia, riceve delle medicine e viene accudito da ex pazienti alcuni dei quali sono diventati infermieri, il secondo step è in centri che mirano al reinserimento nella società, le persone apprendono un mestiere e possono rientrare nei villaggi d’origine, infine per le persone che sono rientrate in famiglia vi sono dei luoghi in cui si possono ricevere i medicinali per le terapie e che fanno azione culturale per vincere l’ignoranza e la superstizione

Le cose sono cambiate in oltre trent’anni?

Sì perché sempre più persone sanno che i malati mentali non lo sono per una stregoneria, ma l’Africa è grande e c’è ancora molto lavoro da fare. È difficile dire quanto lavoro è stato fatto in questi anni. Ma credo che sono almeno 200mila le persone che dal 1991 sono state liberate dalle catene e sono rientrate in famiglia.

Qual è il suo desiderio per il futuro?

Personalmente desidero continuare a lavorare per cambiare questa mentalità. Siamo nel terzo millennio, il mondo si è evoluto e non si può continuare a trattare queste persone come se fossero indemoniate, non si può più credere alla stregoneria. Occorre evolvere e spero accada.

Le immagini della liberazione di un malato psichiatrico incatenato a un albero sono state inviate dallo stesso Grégoire a testimonianza del lavoro che ancora oggi viene compiuto

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