Hai visto come sono tutte speciali le mie mamme?» Me lo dice Mauro Pagnano, il fotografo che mi accompagna a parlare con le “mamme della Terra dei Fuochi”, le donne con i figli morti di tumore, assassinati prima che dalla malattia, da uno Stato che qui si è dato latitante. storia di queste mamme ha molto a che fare con l’essere napoletani: i tratti somatici marcati, profondi, incisi sulla faccia. Appena le guardi capisci subito che sono delle guerriere, amazzoni di una tragedia contemporanea. Mentre parlano sembra che raccontino la storia di un dolore, ma non combattono per i loro figli morti, combattono per i figli degli altri, per quelli che verranno. Mauro le chiama “le mie mamme” perché è stato lui a cercarle e a proporre loro di posare con le foto dei loro bambini che non ci sono più. «Non bastava più fotografare i roghi», dice Mauro, «era necessario mostrare le conseguenze che tutto questo aveva nella vita quotidiana delle persone». Inceneritori, rifiuti tossici interrati, amianto, discariche abusive a cielo aperto, rifiuti del nord, centro e sud Italia che hanno saturato 1.076 km quadrati di terra sana, la Campania Felix, 57 comuni tra Napoli e Caserta, circa due milioni e mezzo di abitanti. Qui non esiste un registro tumori. Eppure quando la gente muore, nessuno si chiede più per cosa. La prima domanda è “arò o tenev”, dove aveva il tumore.
Tutte le mamme incontrate tenevano a sottolineare la lotta che stanno portando avanti e non il loro personale dolore. Però, mentre parlavamo nessuna si è tirata indietro. I loro figli li hanno raccontati cosi bene tanto da farmeli conoscere tutti. Rendere pubblico un dolore, scavare sempre dentro la stessa ferita, è l’inizio della lotta. Le mamme si sono incontrate tra loro, riconosciute, capite. Qualcuna ha avuto altri figli, qualcuna ha paura di averne. Ognuna cerca un modo diverso per andare avanti: l’attivismo, però, è il denominatore comune. Sono stati tre giorni lunghi e intensi. Segnati da un dolore che rende più acuta la coscienza di queste mamme. Mentre attorno continua il silenzio assordante delle istituzioni.
Loredana, 45 anni. Le cose da maschi «E mo’ chi lo dice alla madre?», sussurrarono i dottori dopo la tac di Enrico. Appena entri nel comune di Casalnuovo, provincia di Napoli, la puzza dei roghi un po’ ti assale. Il figlio di Loredana, Enrico, è morto ad otto anni per un glioblastoma tronco-celebrale, tumore al cervello. «Mio figlio è andato via più di dieci anni fa», mi racconta Loredana. «Prima che fossi catapultata in questa tragedia, non avevo percezione di quello che stava accadendo, di quello che ci stava avvelenando. Eravamo la famiglia del mulino bianco, io, mio marito Ciro, e i nostri due bambini: Serena, che oggi ha 22 anni ed Enrico. Napoli ha tanti problemi, ma è una bella città; se hai la possibilità si vive bene». La malattia è stata veloce, aggressi va, è durata appena dieci mesi. Non ha mai lasciato trapelare speranze. «Dopo la diagnosi, per mia scelta, non facemmo nessuna cura aggressiva. Le chemio facevano effetto, Enrico stava meglio, ad ottobre, due mesi prima di andare via, ha fatto la prima comunione. Io intanto ero incinta e non me ne ero neanche accorta. L’ho scoperto che ero già di tre mesi. Quando entri in questo mondo ti dimentichi di tutto». Francesco oggi ha 11 anni. «Se mi chiedi quando io e mio marito abbiamo fatto questo figlio», sorride mentre lo dice, «non te lo so dire. Ho fatto la prima ecografia a cinque mesi, mi hanno quasi obbligata le infermiere del reparto di oncologia del policlinico dove Enrico faceva terapia. Francesco ci ha strappati. È nato due mesi dopo la morte di Enrico, il nome l’ha scelto lui. Il mese dopo che è morto Enrico io ho fatto lo stesso una festa per il battesimo di Francesco. Mio marito non voleva venire, io gli ho detto “si vuò venì, vien”, alla fine è venuto. Francesco mi dice sempre “mamma se c’era Enrico giocavamo alla play station, facevamo le cose da maschi”».
Ida, 54 anni. Le cuffie e il tutù “Ca nun c stà o tiemp di invecchiare: se mor” (qua non c’è il tempo di invecchiare: si muore) dice ironico Nicola. Nicola è il marito di Ida, papà di Marianna e Martina. Rimango a casa loro per pranzo e a tavola mi siedo al suo posto. Da quando metto piede in casa, fino a quando esco, il volpino tutto nero Winny, il cane di Martina, ringhia. Martina è morta a nove anni di nefroblastoma, tumore al rene. «Winny l’abbiamo preso», mi racconta Ida, «quando credevamo che la malattia fosse passata. Martina ha scelto lui in mezzo ad una cucciolata di cagnolini bianchi. Martina faceva danza, ma diceva di essere una cantante. In ospedale si metteva le cuffie e cantava, la richiamavano tutti e lei rispondeva “si ma tengo le cuffie”, si però stai urlando, le dicevo io. È stato grazie alla danza che mi sono accorta che qualcosa non andava. Dal tutù ho notato che il pancino era un po’ storto». La malattia, a Martina, l’ha consumata in tre anni. «Avevano detto che era curabile», spiega Ida, «ma poi si è incattivito, è morta il 20 ottobre 2005, il giorno del mio compleanno». «Per quattro anni», mi racconta Nicola, «non ho più lavorato. Le preoccupazioni economiche sono tante. Ci sono papà che non possono portare i figli a fare chemioterapia perché non hanno i soldi per la benzina». L’associazione genitori di tutti, attualmente ha sei famiglie a carico. «Ci aiutiamo tra di noi», dice Ida, «facciamo volontariato con le altre persone che si sono sensibilizzate. Portiamo i pacchi di biscotti. Ma quanto può durare?». A Natale, con una colletta hanno raccolto 200 euro per comprare il solvente che serve a staccare i cerotti che si attaccano al catetere per la chemioterapia. «L’azienda ospedaliera non li passa», dice Nicola. «Abbiamo comprato tre scatole, per un cerotto si può piangere una volta in meno».
Anna, 38 anni. Cuor di leone Raffaele, 11 anni, e Rita Aurora, 4 anni, ti travolgono. Sono i figli di Anna, bellissima bellissima, solare, una che non si tira indietro. Gli occhi azzurri com’erano quelli di Riccardo. Riccardo è nato dopo Raffaele, è morto di leucemia linfoblastica acuta, aveva 22 mesi, ma si è ammalato quando ne aveva appena sei… poi le mamme si sentono dire che qui la gente muore per gli stili di vita sbagliati… «Riccardo non l’abbiamo cercato. Quando è arrivato abbiamo scoperto che era una gravidanza gemellare, era il gemello di un altro fratellino che poi ho perso a tre mesi mentre lui è rimasto attaccato al mio utero. Per questo si chiama Riccardo, re Riccardo Cuor di leone. Dissi a mio marito Umberto: “Umbè stu creatur s’adda chiammà Riccard” . Il ginecologo non sperava nulla per questo bambino, la gravidanza era difficile, però ricordo che disse “questo bambino vuole nascere, lo vedo come uno che si accucciola e si aggrappa. Non ti molla”». La vita di Riccardo è stata l’ospedale, il Pausilipon di Napoli, Anna si è trasferita lì con lui. «Raffaele stava con mia madre, la sera un po’ con il papà, e questa scoperta», dice mentre Rita Aurora sorride, «non c’era ancora. Ho vissuto 18 mesi in ospedale, a casa non sono mai più tornata forse solo due o tre volte». I medici erano convinti che Riccardo ce l’avrebbe fatta, ma dopo una recidiva, l’unica possibilità di sopravvivenza era un trapianto di midollo. «Il donatore di midollo compatibile ero io, ma nella banca dati c’era un bambino di Dusseldorf che era suo fratello gemello, compatibile al 99%, scelsero lui». Nonostante tutto facesse sperare per la guarigione, Riccardo è andato via. Anna lo ha tenuto in braccio in macchina nel tragitto dall’ospedale a casa. Gli ha cambiato il pigiama e l’ha messo nel suo letto. Mi racconta che il marito Umberto è militare ma lei non lascerà mai questa terra. Resta qui per i suoi figli e per quelli degli altri. Mi dice che è contenta di essere ancora madre, ma non sarà mai più felice. Sono quasi le undici di sera e Rita Aurora urla a Raffaele: «Dai, combattiamo! Combattiamo!».
Pina, 43 anni. La guerriera. Che Pina, mamma di Tonia, sia una guerriera lo capisci appena ti apre la porta: minuta, definita, con i piedi saldi a terra, una così non la distruggi. «Qui ad Acerra», mi dice, «non manca proprio niente: inceneritore, rifiuti tossici interrati, roghi, la centrale termoelettrica ». Pina mi racconta che prima della malattia di Tonia non era un’attivista. Due bambine piccole, Tonia e Rossana, che oggi ha 15 anni, un lavoro, la vita familiare: non c’era abbastanza tempo per pensare al resto. Poi il resto è andato da lei. «Ad un certo punto ho lasciato il lavoro e ho detto “finalmente mi dedico alle mie figlie“, un mese dopo abbiamo scoperto che Tonia aveva una “palla” appoggiata al cervelletto. I medici hanno avvicinato la lastra alla finestra, io che non capivo niente di medicina, la vedevo benissimo». Il tumore di Tonia era già al quarto stadio quando è stato diagnosticato, le possibilità di sopravvivenza erano del 20%. Prima di andare via ha subìto sette interventi al cervello, due autotrapianti di midollo, quattro protocolli di chemioterapia infantile e due cicli di radio. Quattro anni e mezzo di lotta sono lunghi. Io non l’ho mai vista Tonia, ma appena guardo Pina ho l’impressione di vedere lei. E infatti quando le chiedo della bambina… «Uguale a me, sia caratterialmente sia fisicamente. Una ribelle», mi dice orgogliosa. «Non ho mai lasciato mia figlia, l’ospedale era la mia casa. Non ho mai dormito su una poltrona, dormivo nel letto con lei, dovevamo stare sempre “azzeccate”. Quando ha perso i capelli sembrava una bambina ancora nel grembo della mamma». Mentre io e Pina parliamo squilla il telefono «è una mia amica», mi dice a fine conversazione, «è la mamma di una bambina che ha la leucemia. Mi chiamano perché sono diventata un punto di riferimento. Quando Tonia è morta la rabbia è arrivata subito, pensai “la pagheranno tutti”. L’attivismo è una ragione di vita adesso. Lottare è un dovere, io voglio i miei diritti punto.» «Quando è il momento avvisatemi», chiese Pina ai dottori poco prima che Tonia morisse. A Napoli sono umani quando si parla di morte forse ancor di più di quando si parla di vita: «volevo prendere mia figlia in braccio. Le tolsi i fili, la maschera d’ossigeno, i medici mi dissero “signora stringetela di più”, il cuore piano piano rallentava, le appoggiai sulla testa la felpa della sorella, c’erano altri bambini malati lì, mi dispiaceva che vedessero. Le dissi “mamma ti porta a casa”. Morì nel tragitto, cuore a cuore».
Luisa 38 anni. La forza per forza In una bella casa, in una traversa di corso Vittorio Emanuele, vive Luisa con il compagno Armando e i loro due bambini, Antonio 4 anni, e Alessandro che ha poco più di un mese. Luisa mi racconta che somigliano tantissimo ad Alice, la prima figlia, che è andata via, in 12 mesi, a causa di un rabdomiosarcoma quando aveva tre anni. Qui, dall’elegante casa napoletana, la puzza dei roghi non si sente. Per lei “tumore” era parola da extraterrestri. «Non ho mai pensato che fosse un problema legato alla provincia», mi spiega Luisa, «nell’ospedale dove è stata ricoverata Alice c’erano tante mamme con i bambini ammalati che venivano dalla provincia di Napoli e Caserta, ma non erano le sole. Quello che mangiamo arriva da lì; e anche se la certezza sull’origine della malattia di Alice non l’avremo mai, una volta che vieni a conoscenza di un problema cosi grosso non puoi fare finta di niente. Io potevo dire “vabbè ormai Alice non c’è più, io abito a Napoli i roghi e la puzza se la sentono loro”». Dopo la morte di Alice è stata immediata la voglia di fare qualcosa. La testimonianza di chi ha vissuto in prima persona il lutto è una delle cose più forti, più veritiere. «Ho voluto far capire che questo non basta per essere fuori dal problema», dice. Mentre parliamo Luisa allatta Alessandro. «I figli chiedono sempre della mamma», mi dice, «la forza la devi far uscire per forza. Per i papà forse è diverso. Io e Armando abbiamo vissuto separati questa cosa. Antonio, invece, mi chiedeva sempre dove fosse Alice. Io ho pregato tanto per disperazione, ma non ho mai detto “perché ad Alice?”, c’erano anche tanti altri bambini cosi, come fai a dire uno sì e uno no». Ogni mamma reagisce al dolore in maniera diversa, chiedo a Luisa se il piccolo Alessandro è stata una scelta di coraggio… «Alessandro è arrivato nel silenzio, zitto zitto, adesso lo so che inconsciamente lo volevo. Nel suo pianto vedo Alice. Io lo dico, sono umana, avevo bisogno di aggrapparmi a qualcosa. Era un bisogno. Quando Alessandro è nato ci sono state delle complicazioni e non l’ho portato subito a casa. In quel momento ho pensato “che dico ad Antonio se qualcosa non va bene?”».
Marzia 39 anni. Il sogno della vita Marzia si è appena trasferita da Casalnuovo a Napoli. Ma prima ancora si era trasferita da Napoli a Casalnuovo perché voleva far crescere il figlio Antonio nell’aria pulita delle campagne. La casa è ancora sottosopra per via del trasloco, ma i napoletani si sa, per fortuna, badano poco alla forma. Sono le due e Marzia improvvisa un pranzo perché “non posso stare digiuna”. Ci sono scatoloni qua e là, ma appena entri la vedi, piazzata in primo piano, una cornice elettronica, foto-frame, dove scorrono le immagini di Antonio, morto a nove anni con un rabrabdomiosarcoma nucleare. «Da Napoli portai mio figlio a Genova», racconta Marzia. «La dottoressa mi chiese “ma signora dove vive? Vicino a qualcosa di radioattivo?”. Io risposi di no, vivo in mezzo alla campagna. Quando si è ammalato i dottori mi chiesero se avevo altri figli. No, non li avevo. “Tutto quello che farà sarà solo per farlo soffrire, non è curabile né operabile”. Ha fatto 40 radioterapie cranio spinale, era tutto nero, però per fortuna non si era scottato». Il tumore di Antonio inizialmente era stato scambiato per sclerosi multipla. Da un tumore come il suo, già al quarto stadio, non si guarisce mai. È una malattia che ti aggredisce, se sei giovane poi, ne approfitta e ti distrugge. Però se non fosse passato un mese tra la diagnosi sbagliata e la formulazione di quella giusta, sarebbe cambiato qualcosa? Marzia è rimasta con il dubbio, e il dolore, se è possibile, si amplifica ancora di più. «Mio figlio si è ammalato in soli tre mesi, io posso pensare che nel mese e mezzo che mi hanno fatto perdere Antonio era un secondo stadio. Al secondo stadio il tumore era un astrocitoma di basso grado di malignità, e ci sono casi di sopravvivenza ». Quando Antonio stava per andare via, Marzia ha fatto quello che fanno le mamme, fingono per amore. La terapia del dolore accorcia un po’ la vita, però non fa soffrire, muori con dolcezza, senza dolore. «Antonio “a mamma” adesso ti somministrano una medicina per farti guarire. Appena ti addormenti non senti più niente, poi ti svegli e stai bene. Lui non mi ha mai chiesto niente. Antonio era il sogno della mia vita. Chissà perché da bambina pensavo di non poter avere bambini».
Tina 37 anni. La promessa «Io quel corpo lo amavo. È inutile che la gente mi ripeta che Dalia è sempre con me». Tina è troppo sincera. E la concretezza del suo dolore ti apre ancora di più alla grandezza di queste madri che vanno avanti per i corpi dei figli degli altri. Dalia, il nome di un fiore, è morta di tumore a 13 anni, un linfoma linfoblastico non hodking che l’ha uccisa in 14 mesi. Tina è arrabbiata. «Quando penso alla sofferenza non vedo più quel Dio buono del “chiedi e ti sarà dato”. Però devo rendere questo dolore funzionale. In realtà è stata Dalia a trainare me. “Tu mi devi promettere che noi questo mondo lo cambiamo“, mi diceva. Dalia parlava sempre dei vivi perciò l’attivismo non nasce dopo di lei, ma nasce, prima, con lei». Tina è l’emblema di come un dolore non levi niente all’amore e di come l’amore non vanifica un dolore. È incinta di sei mesi, un maschietto che arriverà a fare compagnia ad Antonio che ha 13 anni ed è simpaticissimo. «Per molti mesi ho smesso di essere madre», mi racconta Tina, «da poco ho ricominciato. Anche se il dolore è sempre lo stesso: un giorno o due anni non cambia niente. I miei due figli sono belli, pieni di valori. Mi sono detta se ne viene un altro così ben venga. Non ci sono rimasta male che non è una femminuccia, così Dalia rimane l’unica». Tina oggi è presidente dell’associazione Noi Genitori di Tutti e ci racconta che dopo la denuncia delle mamme sembra che qualcosa si inizi a muovere, la gente si guarda attorno. Ma non si può non dare ragione a Tina che, sempre con molta franchezza, dice «Ci voleva la morte sua per cambiare le cose? Dalia non doveva diventare l’icona».
Antonella 37 anni. Nata in America ma con una genuinità napoletana che ti fa venire voglia di vivere, Antonella è la mamma di Francesco morto ad otto anni per un epatocarcinoma metastatico ai polmoni. È tornata qua che aveva 5 anni perché al papà l’America non era piaciuta. «Poi si è pentito» mi dice. E sorride: «Se fosse per mio marito Pasquale avremmo una decina di figli. Io non ne volevo più, bastavano Luisa, che adesso ha 19 anni e Marina di 16. Lui voleva il maschio e cosi è nato Francesco». La presenza di Francesco la senti appeni metti piede nel portone d’ingresso, una foto per ogni rampa di scale. Appena Antonella mi apre la porta si presenta e poi dice «questi sono i cappotti di Francesco; tra poco è primavera, devo fare il cambio di stagione». Tutta la casa è un invito alla memoria di Francesco. Le foto sono ovunque. La cameretta è come lui l’ha lasciata, intatta: le scarpe, i giochi, i libri. Le lenzuola si cambiano sempre. Antonella mi racconta che va tutti i giorni al cimitero. Quando le chiedo delle altre mamme si illumina «Io vado avanti per loro. Sto bene solo con loro. Ci vogliamo bene. Ci capiamo. Con gli altri è tutto più difficile». Pasquale vuole un altro figlio. Lo desidera tantissimo. Ma lei ha paura. Ha paura anche per le altre due figlie, ogni piccolo fastidio diventa un campanello d’allarme. Quando Francesco stava per finire, i medici avevano assicurato la famiglia che avrebbe avuto altri sei mesi di vita. Consigliarono ai genitori di fargli fare tutto quello che voleva. Di vivere bene. «Il sogno i Francesco era vedere l’America. In una settimana mio marito ha fatto pure i passaporti. Doveva vivere altri sei mesi, è arrivato a 20 giorni. Ha visto sul e passaport o figlio mij».
Giulia, 45 anni. Smuovere la vita «Hai presente le offerte del prendi tre paghi uno?», mi chiede Giulia, «ecco con me Gesù ha fatto il contrario, ho pagato tre e a me ne ha lasciato uno». Giulia è mamma di tre bambini Ferdinando, Michele e Alessia Ferdinando è vissuto solo un giorno, anche se la gravidanza è stata serenissima. Michele è il secondo bambino oggi ha 17 anni. Poi c’è Alessia che è morta a nove anni con un glioma intrinseco tronco encefalico al quarto stadio. «Quando sono rimasta incinta di Alessia », dice Giulia, «lo sapevo che era una femmina. Era il riscatto della mia vita». Alessia è morta di tumore celebrale, era invalida al 100% mi racconta Giulia. I sensi piano piano si affievolivano. «Dicevano che mia figlia spaventava gli altri bambini», dice Giulia, «per me è sempre stata bellissima, Ma adesso a distanza di due anni dalla morte, guardo le foto e vedo che era diventata un mostro. Alessia si riempiva di cortisone. Facevamo tutto a casa da soli. Eravamo sempre in tre o quattro. Quando stava male facevamo massaggio cardiaco, respirazione bocca a bocca, mettevamo ossigeno, e la riprendevamo subito». Il piccolo Ferdinando era morto il 30 maggio. «La Madonna, se la voleva, doveva prendere anche Alessia nel suo mese. Cosi è stato, è morta il 31 maggio. Smuovere la coscienze, il cambiare il modo di pensare essere attenti all’ambiente, per questo sono attivista. Anche se all’inizio credevo molto di più nella lotta e nelle istituzioni. Abbiamo cercato un dialogo ma il loro silenzio ha ammazzato i nostri figli un’altra volta. Tante volte anche tra di noi arriva la stanchezza. Alle gente interessa solo la tv del dolore, non accolgono le denunce.
MAURO PAGNANO 38 anni, fotografo freelance, una laurea in giurisprudenza, l’autore delle immagini delle mamme della Terra della Fuochi, da molti anni è in prima linea nella difesa di questa che è la sua terra. Ora è anche il portavoce del Coordinamento Comi
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