«Per chi è nato in un quartiere che somiglia a un ghetto o in un territorio isolato e degradato, pensare con libertà al proprio futuro è difficile», lo sa bene Rachele Furfaro, che a Napoli ha fondato, nel 1987, il network di scuole "Dalla Parte Dei Bambini", dal nido alla scuola secondaria di primo grado. Il network si è impegnato in un programma di rigenerazione educativa e sociale in una delle zone più fragili di Napoli: i Quartieri Spagnoli, un reticolo di vicoli, una periferia nel cuore della città. Il 10% della popolazione qui è rappresentata da minori. E sempre qui il 34% dei ragazzini tra gli 8 e i 14 anni abbandona la scuola. Non esistono spazi neutri, e se la scuola "espelle” questi ragazzi, se non “li sa trattenere", se non riesce a creare affezione, allora li consegna all’industria dell’illegalità che li usa come mera forza lavoro. «Sono state le nostre scuole», dice Furfaro, «o meglio, è stata la nostra comunità educativa a iniziare il progetto che ha ridisegnando il ruolo e le funzioni di un ex monastero, ha inaugurato percorsi educativi, nuove imprese giovanili, nuova economia sostenibile. Ed è stata la nostra comunità educativa a dare vita alla Fondazione Quartieri Spagnoli, a cui è stata affidata la gestione e lo sviluppo di quel progetto, oggi più semplicemente conosciuto come Foqus».
Furfaro ha appena pubblicato il libro “La buona scuola – Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza” (Feltrinelli, 336 pag), che racconta il modello di scuola sperimentato a Napoli negli ultimi 30 anni nato dall’idea di rispondere alle esigenze del mondo contemporaneo. «È possibile fare scuola ovunque e in qualunque momento: per strada, nei boschi, nei parchi, dall’alba al tramonto, in tempi e in luoghi diversi da quelli a cui la scuola tradizionale ci ha abituati», dice Furfaro. «Trasformare la scuola tradizionale in una scuola diffusa nella città. In una scuola così concepita i diversi saperi si intersecano, le professionalità della scuola incontrano altre professionalità e competenze, le une e le altre potranno arricchirsi reciprocamente. Dalle panetterie di quartiere all’ombrellaio artigianale, la nostra aula è la città intera».
Quando ha iniziato a scrivere il libro?
Nel 2021, chiaramente la pandemia è stato l’elemento che ha fatto la differenza. Durante i mesi del lockdown con il nostro network di scuole abbiamo continuato a mantenere viva la scuola,
a farci carico del percorso educativo dei bambini che frequentavano i nostri istituti a Napoli. La scuola è indispensabile per i bambini perché rappresenta oggi l’unico reale laboratorio di contaminazione sociale e culturale, dove le diversità continuano a incontrarsi, a dialogare e a costruire insieme il proprio futuro. Non è vero che la pandemia è stata una catastrofe uguale per tutti: ha scavato un solco profondo tra i bambini che appartengono a famiglie benestanti e tutti gli altri. Non è vero che l’intero Paese ha fatto un balzo tecnologico e che tutti hanno seguito l’educazione a distanza: moltissimi bambini, se avessero voce, le confermerebbero che non hanno avuto possibilità di accedere a quella formazione, che pure ogni scuola ha attivato, perché per accedervi non basta possedere gli strumenti tecnologici,
c’è bisogno di avere una casa con uno spazio, un luogo in grado di garantire l’attenzione e la concentrazione che la nuova situazione richiede. E c’è bisogno, forse ancora di più, di adulti che si prendano cura di te. In moltissime periferie delle nostre città, sicuramente nella mia, intere famiglie vivono in pochi metri quadrati e non hanno la possibilità emotiva, sociale e affettiva, di farsi carico dei propri figli. La soluzione allora non era di tenere chiuse le scuole ma, semmai, di tenerle aperte 24 h su 24 h, con le gisute precauzioni, e immaginare come farle funzionare.
Come si fanno funzionare?
Ho studiato le più diverse teorie dell’apprendimento, seguendo le filosofie dell’apprendimento attivo con le loro varie sperimentazioni; ho deciso, nel mio quotidiano lavoro di insegnante, di attingere a quelle che più mi parevano adatte alla nuova scuola che volevo iniziare ponendomi dalla parte dei bambini. Negli anni ho delineato, insieme agli insegnanti e alle persone che hanno deciso di condividere con me questa esperienza, una modalità di lavoro che rappresenta l’identità delle scuole “Dalla Parte dei Bambini”, che trent’anni fa ho fondato e oggi raccolgono, evolvono e integrano molte delle molteplici intuizioni o metodologie che in diversi Paesi e momenti hanno segnato la riflessione e la proposta di una nuova scuola. Questo libro riflette su una pratica educativa che nelle scuole Dalla Parte dei Bambini si applica quotidianamente. Dal 1985, quando abbiamo iniziato, nelle nostre classi sono cresciute generazioni di bambini le cui famiglie hanno scelto di condividere con noi anche la critica, la riflessione, il racconto delle pratiche che avremmo condotto con il preciso intento di rendere sperimentale e poi effettiva la relazione tra teoria e prassi, come modello di lavoro didattico-pedagogico. Dai primi otto bambini, i cui genitori diedero fiducia a quella nuova idea di scuola, agli attuali circa milletrecento, l’esperienza di crescita di tutto il sistema delle scuole che genericamente definiamo attive, quelle che ho fondato a Napoli, insieme alle molte altre che in Italia sperimentano e conducono ricerca di pratiche educative alternative, dimostra che un’altra scuola è possibile. La scuola è un luogo vissuto da molti, il modello della scuola attiva fa di ognuno un protagonista del proprio percorso e di quello collettivo. Ed è per questo motivo che nel libro si alternano l’io, quando riferisco le mie riflessioni e il mio lavoro, e il noi, che è un noi collettivo: me stessa insieme agli insegnanti e a tutte le figure che hanno un ruolo nelle nostre scuole.
Com'è la vostra scuola?
Esiste ed è stata costruita su una consapevolezza che per noi è fondamentale: la scuola è ovunque, è anche questo che racconto nel libro. La scuola si può fare in qualunque spazio ci sia un adulto che accompagna le bambine e i bambini nel percorso di apprendimento. Smettiamola di pensare che la scuola debba continuare ad essere quella che conoscevamo: uno spazio chiuso, le aule zeppe di banchi e gli alunni stipati lì per 5 o 6 ore al giorno. Una scuola che ha attraversato il Novecento e il primo ventennio del nuovo secolo ma è rimasta uguale a sé stessa. Con la sua struttura chiusa, i suoi libri di testo. Noi sono 30 anni che sperimentiamo un modello di scuola diverso dove gli studenti si mettono al centro e interagiscono con lo spazio che ha un valore educativo. La scuola non può più rimanere ingabbiata nelle mura di un’aula. Invece è possibile fare scuola ovunque e in qualunque momento: per strada, nei boschi, nei parchi, dall’alba al tramonto, in tempi e in luoghi diversi da quelli a cui la scuola tradizionale ci ha abituati. Trasformare la scuola tradizionale in una scuola diffusa nella città. In una scuola così concepita i diversi saperi si intersecano, le professionalità della scuola incontrano altre professionalità e competenze, le une e le altre potranno arricchirsi reciprocamente. Dalle panetterie di quartiere all’ombrellaio artigianale, la nostra aula è la città intera.
Come arriviamo a un cambio di rotta?
Se è vero che la scuola è il luogo nel quale valorizzare i patrimoni “personali”, essa è allo stesso tempo anche luogo di partecipazione civile a tutela di un bene immateriale che tutti dovremmo ritenere indispensabile per il presente e il futuro della nostra società. Quindi serve serve uno spiazzamento. Un progetto pedagogico valido non è solo la programmazione delle attività da proporre, non è solo lo spazio da predisporre per svolgerle, non è solo la capacità di gestione, di generare ascolto e, in qualche caso, di dare accoglienza ai bambini che la scuola ospita; è anche, se non soprattutto, la costruzione di un agire consapevole con i bambini e con la ricchezza dei mondi che ciascuno di loro porta e rappresenta. Come la nostra esperienza napoletana esistono tante e tante esperienze in tutto il Paese, insegnanti ed educatori che lavorano nei territori della marginalità sociale e che ogni giorno combattono la battaglia per una scuola nuova. Come lo fanno? Dando vita ad azioni corali che tengono dentro i ragazzi, gli insegnanti, i genitori, il personale ausiliario, in un porgetto comune. Solo il progetto comune può dare la forza del cambiamento.
Ripartiamo da questi modelli?
Sì, il mondo politico dovrebbe censirli, conoscerli, riconoscerli. Ripartiamo da quelle scuole, dalle buone pratiche, dalle esperienze da cui tutti possono attingere per creare modelli di sviluppo educativo. Il cambiamento vero può avvenire solo attraverso un incremento progressivo di quelle scuole che oggi sono ancora in numero ridotto. E che nonostate ciò sopravvivono tra mille difficoltà e trovano risposte. Occorono e sono urgenti nuove politiche per trasformare quella condizione da minoritaria a maggioritaria. Dovremmo far uscire queste esperienze "dall'eccezionalità" per integrarle a pieno titolo nelle pratiche educative dominanti.
Qual è il ruolo dei docenti?
I docenti devono smettere di pensare a un modello di scuola "trasmissivo". Non basta passare i saperi, è necessario, al contrario, mettere in moto i processi di apprendimento di cui ogni singolo bambino diventa attore. Ognuno ha delle competenze che possono essere portate nel gruppo e da quello stesso gruppo poi riceve altre competenze ed altre energie. Si deve innescare un processo di partecipazione civile a cui tutti sentono di poter contribuire. Poi bisogna essere coraggiosi, io nel libro dico che tutti i grandi innovatori che si sono cimentati nella creazione di una nuova scuola, perchè questo modello di scuola potesse nascere fuori dai riferimenti della scuola tradizionale, sono stati vessati dalle istituzioni pubbliche. Come ho scritto c’è una profonda somiglianza tra i contesti-limite in cui gli innovatori pedagogici come don Milani, Dewey, Freinet e altri hanno portato avanti le loro sperimentazioni e le diverse metropoli, città, cittadine, paesi del nostro territorio nazionale, in cui classi sociali depauperate, comunità multiculturali, famiglie affaticate dalle crisi economiche che si sono succedute, generazioni marginalizzate, insieme rappresentano e compongono realtà sociali che appartengono strutturalmente, e non occasionalmente, alla sempre più vasta area del disagio e della marginalizzazione. Barbiana oggi è ovunque e in ogni città, in modo diverso dagli anni a cavallo del 1960, ma con la stessa carica di problematicità e la stessa necessità di cercare nuovi modi per non perdere quei giovani e non far perdere il futuro a quei giovani. Il denominatore che accomuna le diverse e più significative esperienze di innovazione pedagogica del secolo scorso è l’idea della scuola che condividono. Una scuola inclusiva e non isolata dal proprio contesto può svolgere la sua funzione educativa in modo più efficace. La relazione tra i partecipanti è l’elemento centrale. Educare significa mettere al centro le persone con le loro idee, bisogni e difficoltà e non le discipline e le materie. Significa, in sintesi, riconoscere nei propri alunni non solo studenti ma anche persone. Così la scuola può essere un laboratorio permanente di democrazia, nella consapevolezza che l’educazione e l’istruzione sono decisive per costruire una società migliore.
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