Silvia Nano e Luca Bartocci a novembre diventeranno giovani nonni. Sono sposati dal 1997. Entrambi classe 1968, vivono a Perugia. Lei è una docente di Lettere in un liceo scientifico e lui professore ordinario di Economia aziendale presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Perugia. Lei ha occhi piccoli e spavaldi, è vivacissima, intraprendente, colta e argomenta con enfasi e brio. Lui, occhi grandi alla Cimabue, è timido e introverso e nasconde un accento e quella follia malinconica tipica della sua città di origine, Gubbio, e pare un tipo composto e coraggioso.
Li ho incontrati perché la loro storia è quella di una famiglia adottiva che ha dovuto attraversare la fragilità psicologica dei figli, in un cammino lungo e drammatico e che su questo ha costruito un nuovo modo di stare insieme. Da un progetto buono, al lungo tunnel del dolore, il coraggio di mettersi in discussione, come persone prima e poi come genitori, fino a rivedere il modo di voler bene, comunicare, essere in relazione. Le loro vicende sono raccontate nel libro, uscito per Raffaello Cortina Editore nel 2020, scritto dallo psichiatra e psicoanalista che li ha seguiti, Luigi Cancrini di cui spesso avete letto su queste pagine. Il titolo già annuncia: La sfida dell’adozione – Cronaca di una terapia riuscita. Un lavoro che termina con questa parole dell’autore a commento di un incontro, a distanza di tempo, con loro e i loro figli: «Mi è sembrato di capire fino in fondo, con chiarezza e con gioia, dopo più di cinquant’anni, che cosa davvero è, o dovrebbe essere, una terapia».
Certamente la disponibilità di tutti a questo libro, a raccontare il percorso fatto è un altro sintomo di generosità e di speranza.
Una storia che inizia con l’arrivo a casa, nella fredda notte del 15 gennaio 2005, di due bambini ucraini, Costantino e Liuba e che continua con una nuova vita. Partiamo appunto dal finale, che si incarna nelle parole di Costantino, 27enne, oggi educatore professionale e che, insieme alla compagna Giulia, attende la sua bambina.
«Ho sempre avuto difficoltà ad accettare la sofferenza del mio passato e mi ha portato un po’ a morire… Luca, Silvia e mia sorella hanno visto il peggio di me, sono arrivato al punto di odiare talmente tanto una parte di me che volevo ad annullarmi. Ho fatto un percorso terapeutico durato anni, lì mi sono arrivate le risposte, poi piano piano, la scuola è diventata importantissima, gli amici che non mi hanno visto come un problema da evitare, la mia compagna Giulia, che ha sostenuto il peso e le difficoltà… tutto questo mi ha sostenuto».
Cosa le ha permesso di affrontare tutto questo?
«Il dolore mi ha insegnato: io ho avuto tante sorprese, ho visto la tenerezza con cui mi guardavano le persone intorno a me e ho iniziato a comunicare.
E oggi, lei chi è?
«Sono diventato un educatore professionale per via della mia esigenza di restituire, di ridare quello che ho imparato. Faccio uno dei lavori più belli al mondo! Mi sento utile nel portare la mia esperienza, in maniera ovviamente indiretta e discreta: l’empatia e la sensibilità che ho imparato con me stesso cerco di ritrasmetterla agli altri, quando mi sono accorto degli occhi con cui mi guardavano gli altri: quella dolcezza, quella tenerezza, ho iniziato a comprenderli e ho iniziato a voler restituire, dico ai miei ragazzi oggi, che ne vale la pena che sono persone bellissime ed è quello di cui tutti hanno bisogno».
Cosa porta nel mondo la sua storia?
«Sono grato a Giulia che porta in grembo la nostra bambina, sono grato alla vita, a tutte le persone che sono riuscite a sostenermi perché non è stato per niente facile e alla sincerità con cui mi hanno guardato. Credo che la vita sia un regalo bellissimo. La mia speranza è di essere un bravo padre e mi auguro o che mia figlia si possa ispirare a persone belle e vite belle».
Ma come in tutte le storie, c’è un incipit da raccontare…
Silvia: «All’inizio non eravamo nella prospettiva della adozione, ci siamo sposati sapendo che ci sarebbero state difficoltà ad avere figli naturali, consapevoli del cammino che stavamo intraprendendo e da subito abbiamo vissuto il nostro matrimonio con la felicità dei primi tempi, senza porci il problema dei figli. Mi ricordo un’estate particolarmente bella per me, gioiosa e significativa. Un giorno in macchina ho detto a Luca: “Perché non allarghiamo questa bellezza”»?
Luca: «Io credo che l’orizzonte di utilità di fecondità, di generosità che ha alimentato la nostra vita indiscutibilmente ci sia stato grazie alla fede cristiana. Lo snodo è stato l’impossibilità di avere figli naturali: questo ha reso più necessaria una cosa che idealmente aveva sempre accompagnato il nostro rapporto».
Come avete vissuto si vive l’iter dell’adozione? Che tipo di esperienza è stata per voi?
Luca: «Il processo è stato lungo, sofferto e meditato: c’è voluto del tempo per capire come funzionava la prospettiva nazionale o internazionale, tanti elementi “tecnici” in cui entrare e ricordo che a un certo punto capimmo che avere un figlio naturalmente, richiedeva una gestazione, non era tempo sprecato, è stato importante avere la possibilità di dialogare con persone che erano passate attraverso questa esperienza».
È un percorso intelligente, prudente ma anche pieno di ostacoli…
Luca: «Oggi è migliorata la competenza delle persone implicate. Non ho trovato nulla di posticcio, di inutile, c’è stato qualche momento problematico: fu drammatico il dialogo che avemmo con i servizi della nostra città perché inizialmente, io in particolare, non mi sentii capito. Insistendo è nato un rapporto molto bello che ancora prosegue con quella che allora era la responsabile dei servizi adozioni. Un iter articolato ma utile. Si combinano aspetti legati all’istituzione e altri legati al ruolo degli enti, accreditati che hanno un ruolo come intermediari; è un cammino positivo»
Silvia: «Siamo stati fortunati, ci sono voluti soli due anni. Normalmente chi adotta arriva da un dolore e spesso questo chiude: qualsiasi domanda ti facciano, qualsiasi obiezione, la senti come una incomprensione, una difficoltà a immedesimarsi in te: bisogna essere molto aperti per adottare, essere disposti a mettersi in discussione».
Dal mettersi in gioco al mettersi in discussione…
Luca: «Nell’adozione internazionale quando tu devi cominciare a scegliere paesi, quindi etnie, colori di pelle, età, malattia sì o no. Ecco lì cominci a capire un po’, però la grande partita si gioca dopo. Abbiamo avuto bisogno di aiuto perché è una strada che non si sostiene da soli. Abbiamo avuto molte frequentazioni con l’ente che ci ha aiutato prima, il Cifa, che ci piacque perché aveva tante possibilità ed era composto da volontari-genitori adottivi, per cui è stato importante avere una rete di rapporti anche informali e poi l’esserci imbattuti con persone di associazioni come Famiglie per l’accoglienza.
E quali le difficoltà?
Silvia: «all’inizio si insiste sull’adattamento dei bambini alla nuova cultura: la lingua, il clima diverso, un cibo diverso, le difficoltà psicologiche e relazionali e invece la sorpresa per noi (che siamo anche insegnanti!) poi sono state le difficoltà scolastiche che sono state drammatiche, a cui noi non eravamo stati assolutamente preparati…
La narrazione si fa drammatica e anche un po’ grottesca, perché Silvia e Luca, rivivendo quei fatti attraverso il racconto, trasmettono l’imbarazzo, l’impotenza di dover “scegliere” e allo stesso tempo la necessità che accadesse qualcosa che li liberasse da quella opzione…
Silvia: «Siamo partiti all’oscuro di tutto, andando in Ucraina, con una situazione politica instabile dove c’erano stati dei brogli elettorali per cui ci sarebbero state nelle nuove elezioni, c’era in atto la “rivolta degli arancioni” a Kiev, quindi siamo partiti all’arrembaggio: quando non hai il controllo di niente sei più aperto mentalmente perché sei costretto a stare davanti a quello che accade. Ci siamo trovati lì, per le vacanze di Natale del 2004 e la psicologa che avrebbe dovuto seguirci era in ferie. La sostituta cominciò a farci vedere una serie di foto di bambini e Luca propose due fratelli e io acconsentì immediatamente. Quella fu la svolta. Ci segnalò un fratello e sorella… Un po’ fidandoci, abbiamo detto il nostro “sì”. Ma è stata una scelta paradossalmente casuale così come il caso, il destino, ti manda quel figlio naturale».
Esperienza difficile…
Silvia: «Abbiamo deciso per questi due bambini dalle foto, una sorta di catalogo. Un’esperienza dura! Poi ci dicevano le cose a pezzi, erano distanti 700 chilometri da Kiev, bisognava prendere un treno, andare a Lugansk» – al confine con la Russia, zona oggi tristemente nota perché uno dei punti più caldi del conflitto – e prosegue Silvia in questo racconto «per fortuna noi abbiamo avuto dei rapporti importanti, amicali, che ci hanno sostenuto anche durante quel viaggio. Arrivammo lì spaesati letteralmente ma certi, perché non essere soli è molto importante».
Abbiamo deciso per questi due bambini dalle foto, una sorta di catalogo. Un’esperienza dura!
Silvia Nano
E come andò l’incontro con i bambini, la decisione e tutto il resto?
Luca: «L’incontro con i bambini fu in due momenti poiché erano in due istituti diversi. Con Costantino, è stato molto travolgente, lui ci aspettava e ha fatto di tutto per conquistarci e ce l’ha fatta in pochissimi istanti. Tanti bambini aspettavano di essere presi. Il dramma è che ne prendi uno e lasci tutti gli altri. È stato come un flirt anche perché era ed è una delle sue caratteristiche: la capacità di essere attrattivo!».
L’inizio di una storia d’amore.
Luca: «Ci siamo incontrati nello studio della direttrice, c’erano anche altre persone e lui subito ci ha dedicato dei disegni, mi è salito sulle ginocchia c’è stata subito una reciprocità, lui voleva essere preso! Diverso il discorso con la sorellina Liuba che ha un carattere e una storia un pochino più problematica, non c’è stata un’interazione così immediata: ricordo che è entrata, abbiamo trascorso pochi minuti insieme. Praticamente ce l’hanno fatta sfilare davanti, era vestita in maniera improbabile con un paio di occhiali da segretaria gli anni ’50… e insomma appena li abbiamo visti ci hanno strappato il cuore, era chiaro che non potevamo farli più tornare indietro: tutta la notte non ho dormito e mi sentivo come investito da un pullman, che c’era qualcosa che era così imponente sentivo sopraffatto».
Che tipo di impressione avevate degli istituti?
Silvia: «Malgrado le circostanze in quei posti fanno il possibile per i bambini, essendo poveri. La disciplina che impartiscono è decisiva perché sono sovraffollati; la direttrice ci riempiva di domande ma ci spiegò che lei amava quei bambini e voleva capire dove andassero a finire».
Poi si perde nella descrizione degli occhi che non si sapevano esprimere ma comunicavano tutto. Luca mi racconta che Costantino disegnava elicotteri (foto sotto, ndr) e Liuba timidamente, dopo alcune visite (per più di un mese, quotidianamente), disse domoj che, in russo, significava “a casa”. Quindi anche lei ne voleva una.
E l’arrivo a casa? L’inizio?
Silvia: «I primi tempi sono stati come un grande innamoramento. Loro ci hanno raccontato le sofferenze, i ricordi che avevano con i genitori, quello che era accaduto, cose molto drammatiche: mi ricordo che passavo lunghe serate sul divano con loro: raccontavano queste scene di violenza dei genitori, le discussioni, l’alcolismo le urla, memorie da cui erano estremamente impauriti e poi ci chiedevano di noi… e ho quest’immagine di persone innamorate, in cui è scattata la scintilla ma che non si conoscono, che devono ricostruire le rispettive vite: tu hai di fronte uno che non hai tenuto in pancia, non è cresciuto con te, non ha vissuto con te, è tutto, usando un termine forse un po’ forte, non-naturale, il contrario figliolanza naturale. C’è stato questo lungo periodo di avvicinamento in cui soprattutto Costantino ha fatto di tutto per entrare in rapporto con noi. Liuba ha avuto più difficoltà e la mediazione del fratello è stata molto importante: il fratello faceva da tramite fra lei e noi e lei ne era gelosissima».
Luca: «Visto che Costantino aveva 7 anni, decidemmo con la scuola di metterlo in prima. Una scelta temeraria perché noi non avevamo consapevolezza della problematicità che mediamente i figli adottivi hanno nello studio: la difficoltà a sostenere un’esperienza di dovere così strutturato e così ripetuto e così quotidiano, per loro è stata una compressione che hanno sofferto tanto; la loro esperienza, la loro espressività e la loro percezione erano completamente destrutturate».
Dalla voce di Silvia-docente una analisi chiarissima:
Silvia: «Loro non avevano la minima educazione ad una struttura giornaliera, c’è voluto tanto a fargli capire il ritmo del tempo: la mattina, il pranzo, la cena; la vita in istituto è una vita passiva in cui c’è qualcuno che ti sveglia ti dice cosa devi fare, l’iniziativa del bambino è minima, hanno regole molto rigide e sono abituati a vivere in un eterno presente, in cui tutto è privo di significato: facevano fatica anche a ricordare i nomi delle persone o a capire le trame di relazioni, a distinguere nonno, fratello, cugino… La cosa che mi sconvolgeva è quando li svegliavo, tutte le mattine loro ci chiedevano “e adesso che si fa”? Ogni giorno dovevo fargli ri-capire che si andava a scuola, ricominciando sempre da capo»…
Nella scuola avete trovato persone preparate all’accoglienza di bambini che venivano da queste esperienze?
Luca: «Abbiamo trovato persone molto disponibili però non preparate a queste situazioni particolari… Il nostro back ground professionale, culturale, ci spingeva inconsapevolmente ad avere aspettative sull’istruzione e credo che loro abbiano un po’ patito questo».
Nella scuola abbiamo trovato persone molto disponibili però non preparate a queste situazioni particolari… Il nostro back ground professionale, culturale, ci spingeva inconsapevolmente ad avere aspettative sull’istruzione e credo che loro abbiano un po’ patito questo
Luca Bartocci
Silvia: «Un bambino che per sei anni ha vissuto in una famiglia poi ha fatto l’asilo… ha un rapporto con la realtà diverso dai nostri figli, molto più capace. Loro biologicamente erano bambini di sette anni ma molto più indietro dal punto di vista psicologico e mentale. Nella vita naturale i genitori ti introducono ad una apertura alla realtà dove il bambino ha la possibilità di scoprire, chiedere “ma questo che cos’è, “ma questo come funziona” e viene introdotto al fatto che la realtà è interessante; loro invece hanno qualcosa da cui difendersi e sono tendenzialmente chiusi proprio a far entrare qualcosa dall’esterno allontanando l’apprendimento. Le persone che erano nella scuola innanzitutto avevano un po’ la preoccupazione di farli passare come bambini uguali agli altri: è un’arma a doppio taglio perché da una parte è vero dall’altra non è così.
E quale è stato il cambiamento più grande del rapporto fra voi, come coppia?
Luca: «Il cambiamento, la sfida e la difficoltà ma anche il frutto più significativo è stato bisogno di unità, essere insieme, dialogare, perché i figli mettono alla prova l’unità. La cosa più difficile sia stata il fatto che di fronte a punti di vista diversi tra noi, abbiamo dovuto crescere come rispetto, come capacità di dialogo come affetto l’uno con l’altro, come unità».
Silvia: «Io e Luca abbiamo avuto due tipi di educazione opposti: la mia rigidamente impostata sul senso del dovere; la sua molto più morbida, basata più su un aspetto affettivo. Io ho vissuto con mia madre un’esperienza drammatica perché lei ha sofferto di una depressione severa fin da quando ero piccola. Questo ci ha fatto conoscere perché, quando ti rapporti con i figli riproduci – anche se tu hai avuto rifiuto nei confronti di certi comportamenti dei tuoi genitori – quello che hai visto. Questo ci ha permesso di conoscerci in profondità, capire quali erano le ferite, i limiti nostri e ha comportato la decisione di accogliere l’altro veramente com’era. Ci sono stati scontri ma una grande possibilità di unità, non basata sul fatto che siamo d’accordo ma sull’accogliere la diversità dell’altro totalmente».
Rispetto alla società che comincia dagli amici e finisce con le istituzioni o con tutte le realtà che uno va a incontrare quando tira su dei figli, c’è stata una solitudine o una difficoltà ad essere capiti nelle difficoltà che stavate vivendo?
Luca: «C’è stata, assolutamente! Ci siamo sentiti non capiti, forse perché noi stessi non ci capivamo, però l’amicizia che ci è stata regalata di persone che erano passate per circostanze simili, è stata fondamentale anche per recuperare, perdonare, la non comunicazione, la distanza che a un certo punto, soprattutto in momenti gravi, abbiamo sentito. L’assioma che noi stessi avevamo, che i figli adottivi sono come gli altri, non è vero!»
Silvia: «Questa è la cosa su cui si insisteva troppo! Gli altri genitori ci dicevano che avevano gli stessi problemi ma noi notavamo una grossa diversità. In tante vicende legate al mondo della scuola, per tanto tempo non mi sono sentita capita. Però molto è dipeso da noi: non ci siamo stancati di domandare, di cercare, di andare a sperimentare, non ci siamo accontentati delle risposte che non ci convincevano e cercavamo continuamente aiuti diversi: a volte incontri persone che ti ascoltano, abbiamo avuto insegnanti di sostegno bravissimi con cui è nato un dialogo che dura ancora oggi».
Lo stigma della fragilità mentale che viene messo laddove c’è una fragilità psicologica è qualcosa con cui voi, attraverso Costantino e Liuba, avete dovuto fare i conti: è stato uno “scandalo” anche per voi stessi o per le persone che vi che vi circondavano?
Silvia: «All’inizio tu hai il senso di essere di fronte a una cosa misteriosa, di fronte alla quale ti senti impotente: la vicenda di Costantino è stata molto lunga, già da quando aveva 10 anni sono emerse difficoltà, quando ad esempio è scappato di casa. Noi siamo un po’ abituati in questa società digital-capitalistica che ad ogni problema c’è una soluzione, per ogni malattia c’è una medicina, il problema deve essere risolto in poco tempo; mentre qui fai i conti con una nebulosa dove è difficile capire, percepisci il dolore di tuo figlio ma capisci anche che ci sono cose esperienze profonde che per dirimerle ci vuole tanto tempo e tutto è attaccato al fatto che suoi figli nessuno vuole vedere: la loro libertà, che si muove che agisce non quando decidi tu».
Luca: «Verso la fragilità devi fare i conti con il tuo fallimento: è un giudizio su sé che uno vive; in questo senso, scandalo sì, ma di me stesso più che della difficoltà dei figli. Nell’esperienza con loro, la stretta, il morso che senti di più è legata all’impotenza: non sai che ne sarà, non puoi fare nulla. Il grande tema è quello dell’autonomia: il dramma del genitore è che ti senti un po’ indispensabile e il tuo problema è “che ne sarà quando non ci sono io”, puoi creare le condizioni, ma capisci che c’è un’impotenza da accettare».
Nell’esperienza con i figli, la stretta, il morso che senti di più è legata all’impotenza: non sai che ne sarà, non puoi fare nulla
Luca Bartocci
Silvia: «Nella vicenda di Costantino in tutti quelli che vivono in una fragilità mentale io penso che il loro sia un modo di esprimere in modo drammatico, a volte inconsulto un dolore. Perché la maggior parte dei genitori non vuole vedere i problemi dei figli? Io insegno e lo vedo quotidianamente: perché stare di fronte al dolore puro in cui uno ti dice che cerca il senso delle cose, della sua storia, è duro perché non c’è nulla da dire, non c’è la soluzione: bisogna starci e basta, abbracciando il dolore così com’è, ed è questo che Costantino in qualche modo ci ha chiesto: stare con lui dentro la sua vicenda. dentro il suo dramma e basta! Senza cercare la soluzione al problema. A un certo punto ha deciso di riprendere in mano la vita, di dire “voglio vivere”, l’ha fatto quando è stato sicuro di un amore lui incondizionato, quando ha capito che poteva essere quel che era veramente, allora ha detto “bene sono pronto per ripartire”».
Questo vi ha cambiato come insegnanti?
Silvia: «Sì! prima di tutto le difficoltà di apprendimento e io ho una grandissima tenerezza ora nei confronti di chi ha difficoltà perché per me prima era automatico che se io spiego in classe, l’alunno è tenuto a capire, e sicuramente una tenerezza assoluta nei confronti di chi ha disagi tant’è che io ho instaurato dei bellissimi rapporti coi miei studenti dopo questa vicenda».
Luca: «È stata l’occasione per riparametrare il rapporto con tutti, particolarmente con i ragazzi: è un ribaltamento cambia il senso del tempo, il senso delle relazioni, in ufficio, cambiano le unità di misura. Poi è una lotta continua perché la mentalità di sempre si riappropria… anche il modo in cui io guardo a me stesso per me è stata una rivoluzione, devo dire… la più grande!».
La psicoterapia di famiglia che esperienza è stata?
Luca: «L’esperienza col professor Cancrini, in un lavoro relazionale-familiare è stata estremamente positiva mi ha cambiato tanto e mi ha fatto cambiare il giudizio proprio sulla psicoterapia su cui ero prevenuto».
Silvia: «All’inizio (con altri medici ndr) lo psicoterapeuta prendeva in carico i nostri figli e quello che interessava a lui erano i problemi del figlio e diciamo trattava noi come una persona funzionali a risolvere… spesso dicendoti che in quasi tutto sbagliavi e non percependo minimamente il tuo dolore perché, quando tu hai un figlio che una volta al mese scappa di casa e dice che si toglie la vita, anche tu sei provato. La grande novità che ho sentito quando siamo andati dal professor Cancrini è che lì c’erano quattro dolori, non solo quello di Costantino, ma anche il dolore di Liuba, di Luca e il dolore di Silvia. Tutti diversi però ugualmente di grande dignità che si dovevano guardare e lo psicoterapeuta si faceva carico di tutti. Questo ci ha permesso di incontrarci fra di noi, non come un problema, ma come delle persone. Lui è stato il grande tramite del rapporto fra di noi e questo è stato molto più funzionale delle esperienze precedenti, dove io mi sentivo solo giudicata».
Qual è la gratitudine che vivete oggi?
Silvia: «La prima gratitudine è per i nostri figli che sono stati la possibilità di una grandissima avventura, di un cambiamento interiore ed esteriore: non avrei conosciuto né me stessa né Luca con una profondità che invece loro hanno permesso. È per delle persone amiche senza le quali mi sarei persa e non avrei potuto vivere questa esperienza: la raccomandazione che io farei è proprio quella di non essere mai soli. Poi una grande gratitudine anche per il professor Cancrini che ha avuto verso di noi una competenza ma anche una disponibilità umana, una tenerezza, una stima, che sono andate molto al di là della professionalità e che sono stati veramente molto importanti. Nelle conclusioni al libro, lui dice “di essere stato il nonno dei nostri figli”, coinvolto con noi, con il nostro dramma contravvenendo alle leggi della psichiatria, per cui lo psichiatra deve essere sempre distaccato rispetto ai pazienti e poi, che dopo cinquant’anni di professione, ha capito che questo coinvolgimento umano è l’unico modo per fare veramente psicoterapia».
Luca: «Posso solo dire una frase che nel tempo ho compreso: “I figli sono la benedizione dei genitori”, nel senso che sono stati l’occasione per toccare, prendere in mano corde del mio io a cui non sarei mai arrivato, rendendo possibile un cambiamento di me, una rivoluzione conoscitiva, affettiva, relazionale che senza di loro sarebbe stato impossibile. Questo è veramente una cosa enorme, per questo e per tanto altro sono grato a tanti».
E poi c’è il lieto fine, di chi racconta, con la semplicità dell’innocenza, il suo desiderio, la gratitudine e usa una parola impaurita se detta dai suoi coetanei: felicità.
Io volevo tanto essere adottata e quindi l’ho vissuta con molta energia e anche paura perché dovevo conoscere queste due persone e le cose man mano, era tutto nuovo.
Liuba Bartocci
Liuba, 26 anni, oggi fa la parrucchiera, coi suoi occhi trasparenti dell’Est e un marcato accento perugino mi dice: «Io volevo tanto essere adottata e quindi l’ho vissuta con molta energia e anche paura perché dovevo conoscere queste due persone e le cose man mano, era tutto nuovo. La mia gratitudine sta nel fatto loro potevano scegliere chiunque altro e invece hanno preso me, mi sono sentita scelta ma io in cambio ho scelto loro: sono grata perché mi hanno dato una vita serena e che mi hanno fatto crescere bene con quello che un figlio cerca, l’appoggio dei genitori e anche l’educazione: quando combinavo marachelle loro mi sgridavano come fanno i genitori e ho avuto una vita normale a differenza di prima che potevo fare ciò che volevo ma non interessava a nessuno. La cosa più bella è che sono grata di averli conosciuti e di volergli bene! Sono felice di stare con loro».
Due genitori di buona volontà che adottano, e si trovano a sfidare la legge naturale e a guardare in faccia il male che ogni abbandono, violenza, inettitudine, lascia con impronte indelebili nel cuore di bambini bisognosi. Ma poi scoprono che quel bisogno di essere amati “a prescindere” è anche il loro, e accettando la fatica e spesso, l’umiliazione della terapia che scava e costringe a fare i conti con i propri limiti, riscoprono una unità e una capacità di essere se stessi, impensabili. Con fatica sì, ma pieni di gratitudine e bellezza. I frutti si sa, non cadono lontani dall’albero e questo è l’albero della vita.
Le foto appartengono alla famiglia Nano-Bartocci, quella in apertura affianca istantanee di genitori e figli a distanza di molti anni. La prima, a sinistra, è del 2012. In quella di destra, attuale, c’è anche la compagna di Costantino, Giulia.
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