Giusto l’invito #iorestoacasa se è per tutelare la salute di tutti. Ma troppo spesso l’isolamento in casa è il “sogno” dell’uomo violento. Ne abbiamo parlato in questo articolo. Stando agli ultimi dati del centro D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, la prima associazione italiana a carattere nazionale di centri antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne, che affronta il tema della violenza maschile sulle donne secondo l’ottica della differenza di genere, l’80% della violenza sulle donne si consuma tra le mura domestiche. Il Governo ha sbloccato un fondo di 30 milioni «ma», spiega la presidente di D.i.Re Antonella Veltri, « I fondi ora sbloccati dal Dipartimento Pari opportunità sono risorse ordinarie già destinate nel 2019 al Piano nazionale antiviolenza, che aspettiamo dall’anno scorso. Non si tratta del fondo straordinario richiesto e destinato ai centri antiviolenza per l’emergenza Covid 19. Le risorse inoltre saranno gestite dalle Regioni: questo significa che alcuni dei centri della rete D.i.Re non otterranno tali fondi».
Qui tutti i numeri dei centri antiviolenza D.i.Re
Quanti centri avete su tutto il territorio nazionale?
Noi siamo 80 organizzazioni di donne indipendenti che gestiscono 111 centri antiviolenza, 90 case rifugio e 108 sportelli distribuiti in 18 regioni italiane.
Come avete cambiato il vostro modo lavorare?
Abbiamo avviato varie campagne di comunicazione per far presente che noi c'erevamo e ci siamo sempre. I dati ci dicono che l’80% delle violenze avviene tra le mura domestiche. E proprio sulla base di questa evidenza pensiamo che nell’hashtag #iorestoacasa c’è un tasso di pericolosità da non sottovalutare. Ci rendiamo conto che “stare a casa” oggi è inevitabile per tutelare la salute di tutti. Ma il problema rimane: sia prima che durante l’emergenza covid19 manca un management di gestione adeguata per contrastare il fenomeno della violenza sulle donne.
Di che numeri parliamo?
Ora stiamo elaborando i dati del 2019. Ma l’ultima analisi del 2018 l’organizzazione ha gestito oltre 21mila richieste di aiuto. Purtroppo il dato, già drammaticamente alto, non è ufficiale perché la ricerca appunto riguarda solo i nostri centri, numerosi ma non gli unici, e non tiene conto del sommerso. Ovvero di tutte quelle donne che subiscono violenza ma non denunciano il carnefice e non chiedono aiuto.
Quindi il dato è altissimo ma parziale. Perché manca una gestione organica del problema?
Avere un piano comune e condiviso è una richiesta che abbiamo fatto più volte al ministero della pari opportunità per dare organicità al lavoro ed evitare la frammentazione. In Italia ad esempio l’Istat ha censito 280 centri antiviolenza, sono questi che ricevono fondi dal governo. Ma non tutti hanno gli stessi requisiti imposti dalla convenzione di Istanbul che sul tema è chiara: i centri antiviolenza sono luoghi che accompagnano le donne fuori dalla violenza. Invece oggi in Italia ad accreditarsi come tali sono anche luoghi religiosi, centri misti. Così si sperperano solo le risorse. Risorse che sono le varie regioni a distribuire ai centri in base a criteri che spesso non sono omogenei.
Il Governo come vi appoggia per affrontare l’emergenza Coronavirus?
La ministra Bonetti ha sbloccato 30 milioni. Ma sono risorse ordinarie già destinate nel 2019 al Piano nazionale antiviolenza, che aspettiamo dall’anno scorso. Di questi fondi 20 milioni sono destinati per l’attività ordinaria di centri antiviolenza e case rifugio e 10 milioni per ‘specifiche attività collaterali per il contrasto della violenza’, ora dirottati sull’emergenza Covid19 attraverso le Regioni.Si sottraggono di fatto risorse ad attività quali la formazione e l’inserimento lavorativo delle donne sopravvissute alla violenza, che pure sono essenziali per completare l’attività di accoglienza e supporto realizzata dai centri antiviolenza. La gestione ordinaria dei centri antiviolenza richiede impiego di risorse che non sono pervenute nei tempi dovuti e l’avvento dell’epidemia ha determinato un aggravio molto pesante delle attività. Le nostre richieste erano chiare…
La violenza sulle donne non possiamo chiamarla emergenza
Purtroppo è un fenomeno strutturale che accompagna la vita delle donne, non è un fenomeno emergenziale. Oggi nelle nostre case rifugio ci troviamo ad accogliere donne con i loro bambini. Serve un’assistenza diversa. Dobbiamo procurare mascherine, sanificare gli ambienti. Ecco perché continuiamo a chiedere un contributo specifico per gestire l’emergenza e non 30 milioni ordinari che, come ripeto, stavamo già aspettando. Perché non bastano neanche per la gestione ordinaria.
I centri ora sono chiusi?
Fisicamente sì. Ma abbiamo numeri di emergenza ai quali siamo disponibili h24. Ci chiamano e in base al racconto o al rischio che l’operatrice riconosce possiamo programmare l’accoglienza in uno dei nostri centri.
Avete visto aumentare il numero delle telefonate?
All’inizio della pandemia il telefono si è silenziato. Non era un buon segno. Dalla seconda metà di marzo le telefonate sono ricominciate.
Cosa chiedete adesso?
Meno chiacchiere. Il governo deve ascoltare chi lavora su questi temi da 30 anni. E prima di ogni cosa tutti devono assumere la consapevolezza che la violenza domestica non nasce con il coronavirus ma va avanti 365 giorni all’anno.
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