Silvia Stilli

«Cooperazione allo sviluppo, se non diventa un asset del Paese l’Italia non andrà lontano»

di Anna Spena

Dal 23 al 24 giugno al via la seconda edizione di Co-opera, la Conferenza Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo. «Sarà un momento importante», spiega Silvia Stilli, portavoce dell'Associazione delle Organizzazioni Italiane di Cooperazione e Solidarietà Internazionale (AOI). «Viviamo in un mondo interconnesso. Dobbiamo insistere sulla questione culturale, muoverci verso l’educazione alla cittadinanza globale. Il consenso all’aiuto pubblico allo sviluppo passa da un lavoro educativo e informativo che deve iniziare nelle scuole»

Dal 23 al 24 giugno al via la seconda edizione di Co-opera, la Conferenza Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo. La Conferenza nasce per fare il punto sul sistema della cooperazione internazionale del nostro Paese. Cinque i panel programmati: pace, persone, prosperità, pianeta, partnership. Il Programma della Conferenza è il frutto di una collaborazione con tutti i soggetti della Cooperazione Italiana a partire dalle organizzazioni della società civile e dalle Reti rappresentative delle stesse (AOI, CINI e Link2007) anche attraverso il coinvolgimento del Consiglio Nazionale per la Cooperazione allo Sviluppo. «Sarà un momento importante», spiega Silvia Stilli, portavoce dell'Associazione delle Organizzazioni Italiane di Cooperazione e Solidarietà Internazionale (AOI), «per fare il punto, quasi 8 anni dopo, dalla legge 125 dell’agosto del 2014 sulla disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo.». L’intervista

Partiamo dalla legge che ha citato, la 125 dell’agosto del 2014. Dopo quasi otto anni dall’approvazione a che punto siamo?
Ritengo che la legge sia ancora attuale e innovativa. Il messaggio è esplicito: pace e sviluppo, pace e aiuto pubblico, sono strettamente legati. In secondo luogo è una legge che dà dignità a tutti gli attori della cooperazione internazionale, ovvero Stato; enti locali; organizzazioni della società civile, dà dignità all’università e alla ricerca che si impegnano nella cooperazione internazionale. Il privato sociale nello specifico viene ascoltato e soprattutto corresponsabilizzato nella costruzione di programmi di sviluppo.

Quali sono, invece, i principali elementi di criticità o gli obiettivi della legge che ad oggi non sono stati ancora raggiunti?
Primo fra tutti la difficoltà di far lavorare insieme, e su programmi comuni, gli attori della cooperazione. I bandi sono divisi: enti locali; regioni; privato sociale; mondo dell’università. Manca un programma di sistema per intervenire sui grandi temi: salute; empowerment; educazione. Ma continuare ad intervenire separatamente non aiuta la costruzione di un sistema Paese.

Cosa propongono le organizzazioni della società civile?
Attivare il prima possibile tavoli di co-programmazione e co-progettazione tra la Farnesina, l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo sviluppo, la società civile, le Regioni e gli enti locali. Lo strumento della co-programmazione deve essere attivato prima dell’apertura dei bandi. Il secondo passaggio fondamentale è quello di prevedere interazioni tra questi programmi attraverso l’attivazione di partenariati tra pubblico e privato, coinvolgendo le università sia durante il momento di costruzione dell’intervento sia per la fase di monitoraggio e valutazione. Ripeto, oggi uno strumento di co-programmazione efficace ancora non esiste. Ma va comunque sottolineato che la vice ministra degli affari esteri e della cooperazione internazionale Marina Sereni è consapevole di quanto questa sfida sia prioritaria ed essenziale per rendere davvero efficace la cooperazione allo sviluppo.

Rimane il problema delle risorse
Abbiamo un budget molto limitato. L’obiettivo è quello di arrivare allo 0,70% della ricchezza del nostro Paese da impiegare in aiuto pubblico allo sviluppo. Siamo ancora estremamente lontani da questa cifra. Per tre anni, dal 2018 al 2020, siamo scesi allo 0,22%. Ma dentro questa percentuale ci sono anche i fondi che il Paese impegna nell’accoglienza dei rifugiati.

Perché siamo ancora così lontani?
La cooperazione allo sviluppo non è considerata un asset del Paese, non è considerata una politica prioritaria dell’Italia. Vediamo un innalzamento delle spese militari, accolto da tutti i partiti. Ogni volta che invece si chiede di aumentare il budget della cooperazione allo sviluppo veniamo ascoltati con grande difficoltà. La conclusione che facciamo è che interessa di più l’idea della difesa che quella della politica di sviluppo. Ma la cooperazione allo sviluppo è anche una questione di politica estera. Se aiuti, e aiuti bene, i Paesi Terzi, diventi un Paese autorevole. La Francia, ad esempio, destinerà lo 0,50% delle ricchezze del Paese alla cooperazione e lo farà entro il 2023. In Italia manca una cultura diffusa della cooperazione sia a livello politico che nella cittadinanza. Eppure viviamo in un mondo interconnesso, la pandemia prima e la guerra in Ucraina ora, dovrebbero servire da monito. E infatti una guerra nel cuore dell’Europa, con l’embargo sul grano, affama Libia, Yemen, Libano ed Etiopia. Siamo interconnessi sulle malattie, per le questioni che riguardano il cambiamento climatico, la crisi alimentare…

Cosa si aspetta dalla conferenza?
Le ong della società civile italiana continuano a presidiare aree di povertà, fame, malattie, conflitto. Ma troppo spesso lo fanno in totale solitudine e senza supporto finanziario da parte del loro Paese. E di fatto lavoriamo in partenariato con organizzazioni della società civile di altri Paesi o con le agenzie pubbliche della cooperazione allo sviluppo di altri Paesi. Credo che questa nostra capacità relazionale dovrebbe essere valorizzata dalle istituzioni italiane. Sarebbe bello che dalla conferenza uscissimo con una visione comune su fondi e strumenti per la cooperazione allo sviluppo in Italia in modo da arrivare pronti e dare un segnale forte al governo per la prossima legge di Bilancio.

Citava la poca consapevolezza della cittadinanza
Dobbiamo insistere sulla questione culturale, muoverci verso l’educazione alla cittadinanza globale. Il consenso all’aiuto pubblico allo sviluppo passa da un lavoro educativo e informativo che deve iniziare nelle scuole.

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