Juan Carlos De Martin

Contro gli smartphone? No, ma occhio a una tecnologia senza democrazia

di Alessio Nisi

Juan Carlos De Martin, autore di “Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica”, sarà ospite del Festival del Pensare contemporaneo il 23 settembre a Piacenza. Il suo intervento verterà sullo smartphone, strumento simbolo del nostro tempo, e sul ruolo che ha nelle vite di tutti. A cominciare dai piccolissimi e dalla scuola. Tanto che la Svezia (e non solo) dall’ed-tech sta iniziando a fare retromarcia

Dispositivi tecnologici che impattano pesantemente sulle nostre vite e il cui controllo è nelle sole mani delle big tech. Algoritmi e sensori che predano i dati di cittadini spesso inconsapevoli, talvolta senza strumenti. La politica che fatica a tenere il passo: scarsa conoscenza, inquadramenti tardivi e qualche volta inefficaci. Eppure il governo della tecnologia ha bisogno della politica e delle democrazie, di decisori e di cittadini. Ne abbiamo parlato con Juan Carlos De Martin, 57 anni, ordinario di Ingegneria informatica al Politecnico di Torino, tra i massimi esperti di nuove tecnologie. Un percorso professionale, il suo, che si è svolto tra Stati Uniti e Italia, tra Santa Barbara, Dallas (ha lavorato per due anni nei laboratori di ricerca di Texas Instruments), Torino e Boston: dal 2011 è faculty associate al Berkman Klein Center for Internet & Society della Harvard University, dove lo abbiamo raggiunto. Giornalista tecnologico, tre figlie, curatore scientifico di Biennale Tecnologia, co-fondatore e co-direttore del Centro Nexa su Internet e Società, De Martin è anche uno dei tre candidati per la carica di rettore del Politecnico, in vista delle elezioni del 2024. È stato membro, tra il 2017 e il 2022, di quattro gruppi di lavoro ministeriali su temi relativi all’intelligenza artificiale, all’odio online e alla governance algoritmica e dal 2014 al 2018 è stato componente esperto della commissione di studio della Presidenza della Camera dei Deputati che ha redatto la Dichiarazione dei diritti in Internet. Proprio il 22 settembre esce per add editore Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, il suo ultimo libro.

Il centro della sua riflessione? L’interazione tra tecnologie digitali e società: quel complesso di interazioni che, da una parte, ha per protagonisti smartphone e software, algoritmi e informazioni, e, dall’altra, la scuola, la politica, la filosofia. «Le mie figlie? Hanno un rapporto più distaccato con la tecnologia e gli smartphone, meno ossessivo. E fanno benissimo».

Professore, partiamo dallo smartphone, a cui dedica il suo nuovo libro. È possibile immaginarlo ugualmente utile e versatile, ma molto più rispettoso dell’ambiente, dei lavoratori e degli utenti?

Certo che si può. È uno degli oggetti fondamentali della nostra epoca, per questo è importante capire che è fatto in un certo modo, ma che può benissimo essere diverso. In particolare, dovrebbe essere migliore nei confronti di tutti: dalla catena dei lavoratori che lo producono agli utenti. Penso a più rispetto dei loro diritti e ad una maggiore trasparenza. Penso ad un device più controllabile.

Come possiamo essere padroni di questo strumento?

Tenga presente che il tema del controllo, della privacy e della trasparenza per gli smartphone vale in generale per tutta la tecnologia. Ma, in particolare su questo dispositivo, è urgente mettere sotto la lente d’ingrandimento il fatto che è ormai un oggetto diventato assolutamente indispensabile per vivere. Così centrale e importante che dobbiamo capirlo e chiederci se ci va bene che sia così o se invece non dovremmo provare a insistere perché sia diverso.

Lei aveva in mente un altro titolo per il suo libro?

Sì, avevo pensato a “Contro questo smartphone”, cioè quello che è stato plasmato negli ultimi anni. Ma capisco che non avrebbe funzionato.

Tornare ad essere padroni dei nostri smartphone. Da dove si comincia professore?

Punto molto su un intervento normativo. Possiamo benissimo essere gli utenti più accorti, consapevoli e informati, ma ci sono aspetti strutturali che cambiano solo se c’è un intervento politico e normativo. Certo, i cittadini devono fare pressione perché questo accada.

Nel libro in uscita, lei stila anche una sorta di manifesto dove immagina un mondo in cui l’uomo sia padrone della macchina e possa servirsene con fiducia. Di che si tratta?

È un manifesto con 20 azioni che riguardano il rapporto tra l’uomo e la macchina. In particolare, le azioni che riguardano il digitale e gli smartphone si concentrano sul software. La premessa è questa. Lo smartphone è un computer e il computer fa quello che il software (sistema operativo e app) dice di fare. Ecco, se governi e autorità decidessero, potrebbero modificare questi software.

Per cambiare un sistema occorre conoscerne le qualità.

Gli utenti sono, comprensibilmente, poco consapevoli lo smartphone è una macchina costruita per raccogliere quanti più dati possibili su di loro e sull’ambiente in cui si trovano. Veramente possiamo parlare di smartphone come di una macchina di sensori, che catturano queste informazioni.

Perché lo fanno?

Perché queste informazioni, che vengono risucchiate dal sistema operativo e vanno a finire in computer che stanno altrove, sono utili o potenzialmente utili. Non solo. Resta perlopiù oscura anche la loro destinazione.

Un esempio.

I dati raccolti nel mio cellulare tra qualche anno potrebbero fornire informazioni sulla mia salute e pesare sulla valutazione di una mia eventuale assicurazione.

Digitale, politica, democrazia. La prefazione del suo libro è firmata dal noto giurista Gustavo Zagrebelsky.

La democrazia ha a che fare con la tecnologia e viceversa.

In un’intervista lei ha sottolineato come la tecnologia sia politica, come rappresenti un momento determinante per il futuro e che la stessa politica dovrebbero preoccuparsene di più. Perché la politica non lo fa?

C’è l’errata convinzione che la tecnologia sia una cosa di cui si devono occupare i tecnici. Ma, va tenuto bene a mente, è prima di tutto è un qualcosa di determinante per le sorti del mondo. Permette di controllare lo sviluppo economico, le coscienze delle persone, quello che pensano, i servizi. In secondo luogo, la tecnologia è prodotta da esseri umani e quindi, in un contesto di democrazia, dovrebbe essere oggetto di discussione e non data per scontata. Non dovremmo dare per scontato neanche che il modo in cui ci viene proposta è il migliore possibile.

Recentemente l’Unesco ha pubblicato un paper (QUI il testo integrale) molto critico nei confronti dell’uso degli smartphone in classe, in cui si sottolinea anche l’importanza di lasciare che la tecnologia supporti, ma mai sostituisca, il legame umano su cui si basano l’insegnamento e l’apprendimento. Che ne pensa?

Sono anni che ci si si prepara a questo passo. L’Olanda ha appena annunciato un’iniziativa governativa che, in collaborazione con gli istituti e con le famiglie, punta controllare o addirittura eliminare lo smartphone nelle classi. La Finlandia aveva già fatto lo stesso. Francia e Inghilterra hanno posizioni simili. Il rapporto Unesco è stato un po’ il catalizzatore di queste riflessioni. Credo che l’istruzione nata da un rapporto interpersonale sia quella che poi produce i risultati migliori.

E lo smartphone?

Questo oggetto è stato costruito scientificamente a tutti i livelli per essere il più seducente possibile. È una macchina, anche progettata con il contributo di neuro scienziati e psicologi, che vuole catturare la nostra attenzione. Cattura l’attenzione e produce distrazione. È un’enorme calamita. In un contesto educativo, di qualsiasi tipo, è un disturbo.

Uno studio (QUI il testo integrale) di ricercatori di Milano-Bicocca e Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana-Supsi ha confermato che l’uso precoce degli smartphone prima dei 12 anni non apporta benefici, anzi può ridurre le performance scolastiche degli studenti.

Marco Gui, direttore del Centro Benessere Digitale di Milano-Bicocca, dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale, studia questi temi da molti anni. L’analisi ha messo in evidenza questo: non si è registrato alcun vantaggio empirico dall’uso dello smartphone in classe. Al tempo stesso è stato riscontrato che gli studenti che hanno avuto una grossa esposizione agli schermi da piccoli hanno risultato peggiori.

Non solo smartphone. Tra i nostri compagni di viaggio c’è anche l’Intelligenza Artificiale, ed è una presenza silenziosa ed efficiente. Possiamo fidarci?

Se parliamo di machine learning, gli algoritmi hanno delle potenzialità sì, ma anche dei limiti. Ci possiamo fidare? Dovremmo avere distacco critico e dire che si tratta comunque di prodotti dell’uomo, sono macchine. Nel caso della moda del momento, chatgpt, è importante pensare che macchine di questo tipo producono una straordinaria combinazione della conoscenza già esistente e, quando non hanno la risposta, inventano qualcosa che è plausibile.

Professore che cos’è la governance algoritmica?

Mi piace più chiedermi: democraticamente come vogliamo governare questi algoritmi? Da una parte ci sono le aziende, le big tech, che pretendono fiducia, dall’altra entità politiche che invocano regole più rigide.

In apertura Juan Carlos De Martin, professore ordinario di Ingegneria informatica al Politecnico di Torino. De Martin interverrà al Festival del pensare contemporaneo a Piacenza il 23 settembre. Foto di Michele D’Ottavio


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