Ci sono persone che, a un ideale, dedicano tutta la vita e tutta la loro passione. Una di queste è Giannozzo Pucci, fiorentino, classe 1944, uomo eclettico – è stato ed è editore (la storica Libreria editrice fiorentina – Lef che editava don Lorenzo Milani), politico, scrittore, ecologista, attivista e animalista –, che ha segnato profondamente la storia della cultura, dell’ecologia e del pacifismo in Italia. Nato da una famiglia illustre – i Pucci sono un’aristocratica e antica casata fiorentina, lui stesso, marchese, è il nipote di Emilio, il grande stilista – non ha mai abbandonato l’impegno sociale e ambientale. Amico, tra gli altri, di Alex Langer, Giovanni Lanza Del Vasto, Ivan Illich e Gino Girolomoni, ha portato dei contributi fondamentali alla crescita e allo sviluppo – anche culturale – dei Verdi. È a lui che dobbiamo la nascita del primo mercato di agricoltura biologica in Italia, la Fierucola di Firenze, fondamentale per sostenere quell’agricoltura contadina che a lui sta molto a cuore.
Abbiamo voluto intervistarlo, per ascoltare le sue opinioni sulle proteste dei contadini che in questi giorni stanno attraversando l’Europa e, in generale, sul futuro di un settore tanto fondamentale quanto in difficoltà.
Pucci, ci dà una sua opinione sulle proteste degli agricoltori di questi giorni?
Questa protesta è molto variegata e anche un po’ caotica sotto certi aspetti, non è incentrata su un obiettivo principale che faccia da spina dorsale. Il grosso della manifestazione nasce dal fatto che moltissimi sinora hanno seguito la bandiera della modernizzazione, cominciata negli anni ‘50 e ‘60, con il messaggio pubblicitario dell’“agricoltura verde”, che in realtà era “agricoltura nera”, perché lo slancio partiva dai petrolieri americani, che hanno sottoposto l’agricoltura all’industria, quindi al petrolio in tutte le sue forme, dai carburanti ai pesticidi. I nuovi mezzi hanno permesso di ingrandire le aziende e di dominare l’agricoltura con l’impresa, che ha caratteristiche tipicamente industriali e che porta sul mercato quelli che gli inglesi chiamano cash crops, prodotti per fare denaro. Questo modello è basato anche sulla concorrenza, su un mercato abbastanza ampio. Tutti i più grossi sindacati, a livello europeo, hanno portato avanti questa idea – anche se a volte, come Coldiretti, sembravano contrari –, che non concepiva un progresso nell’agricoltura contadina, che invece è l’unica che potrebbe essere davvero ecologica.
In che senso?
L’agricoltura industriale può essere anche biologica, però quando punta a un mercato più vasto tende sempre a cadere in parte in una logica industriale. Piano piano ci si sta accorgendo che, con la modernizzazione, stiamo andando verso un vicolo cieco. Adesso, per esempio, c’è la propaganda secondo la quale con la digitalizzazione si userebbe la giusta quantità d’acqua, si consumerebbe meno eccetera. Se si va a guardare l’insieme, però, bisogna sempre dipendere da fattori della produzione che sono al di fuori dell’agricoltura, che quindi non può essere in pari o in attivo. La strada, in questi casi, porta alla vendita nei supermercati o alle grosse distribuzioni, con grandi sprechi, naturalmente, che invece nell’agricoltura contadina non ci sono, soprattutto se si rivolge a mercati relativamente vicini, per esempio nella Regione o nella città più prossima. In base alla ricerca universitaria che abbiamo pubblicato sulla rivista Ecologist, che si intitola “Nuova agricoltura contadina”, in Toscana potremmo essere autonomi dal punto di vista alimentare, se solo tagliassimo della metà il consumo di carne. L’Unione Europea finanzia l’agricoltura con molti soldi, perché in realtà, mentre finanza un agricoltura in passivo sta finanziando l’industria da cui questa dipende. L’unico modo per uscire da questo ricatto economico è trovare una nuova forma di agricoltura contadina.
Ed è difficile?
Se guardiamo le leggi e i regolamenti oggi in Italia è praticamente vietato fare i contadini, o lo possono fare solo gli eroi, e io ne conosco alcuni. Le norme non sono fatte per l’agricoltura contadina, ma per quella che è diventata un’industria a cielo aperto, con tutte le conseguenze che conosciamo in termini di inquinamento e di emissioni, sotto una bandiera di modernizzazione. Questo modello è dominato da un’idea di sviluppo che non è autonomo, ma dipende da un mercato che non è gestito da noi, non è il frutto del nostro lavoro e delle nostre scoperte. Tutte le forme di agricoltura ecologica, a partire da quella biodinamica, quella biolgica, quella naturale di Masanobu Fukuoka in Giappone, la permacultura dell’Australia, sono nate senza finanziamenti pubblici.
Quindi, di base, il finanziamento pubblico dell’agricoltura potrebbe costituire uno dei fattori che hanno contribuito a danneggiare questo mondo?
Quando c’è modernizzazione gli imprenditori agricoli, che spesso sono in passivo, sono spinti a comprare altra terra, altre macchine, perché così possono vendere a un prezzo più basso. Adesso si trovano a prezzi talmente bassi che non ce la fanno a coprire i costi e si accorgono di aver seguito la strada sbagliata. Così se la prendono con l’Unione europea e, giustamente, chiedono almeno il taglio dei prezzi dei carburanti. È una rivendicazione giusta, però è sempre per continuare un cammino sbagliato, di un’agricoltura industriale che inquina: questo settore copre quasi il 30-35% delle varie forme di inquinamento. L’agricoltura contadina, invece, non è mai stata fonte di inquinamento in passato, al contrario.
Lei pensa che il Green deal europeo sia una reale politica in direzione ecologica o semplicemente un paravento dietro cui nascondere la prosecuzione dello stesso modello che ci ha descritto?
Il problema dell’Unione europea è d’origine per quanto riguarda l’agricoltura, perché il mercato comune europeo dei prodotti agricoli è, di base, troppo grande; è una specie di globalizzazione. Ci vorrebbe, invece, una vera solidarietà europea, rispettosa dell’identità di ogni Stato. Bisognerebbe che ogni Paese avesse il compito di nutrire i propri abitanti e che chi non ce la fa ricevesse un aiuto dagli altri. In questo modo l’Europa potrebbe legarsi anche agli Stati africani, per esempio, facendo qualcosa che è il contrario della colonizzazione ma che è aiuto reciproco. È l’esatto contrario anche di quanto ha fatto e sta facendo la Banca mondiale. Mi ricordo alla fine degli anni ‘90 di aver letto un articolo proprio della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale, che spiegava come poter entrare in Nuova Guinea, visto che quest’ultima era indipendente dal punto di vista alimentare. Diceva che bisogna convincerli a fare dei debiti. La base dell’indipendenza e della vitalità di un popolo è l’autonomia dal punto di vista alimentare: così non dipende da altri, ma c’è uno scambio di solidarietà.
Nemmeno un’agricoltura biologica va bene?
Non ci può essere nessun tipo di agricoltura industriale, ancorché biologica. Dire che si vuole fare una strategia “Farm to fork” è contraddittorio finché ci basiamo sull’industria e dipendiamo da fattori di produzione che si comprano sul mercato. Si tende a essere in passivo, a meno che non ci siano i finanziamenti europei. I bandi sono l’unica politica agricola, ci sono dei colletti bianchi negli uffici che fanno delle norme che sembrano perfette sulla carta, ma senza conoscere bene la situazione; per essere garantiti inseriscono molti controlli, un labirinto di regolamenti e regole che possono passare sono quelli che non dovrebbero farlo, come le aziende agricole industriali. Doversi trasformare, cambiare forma solo per vincere il bando non va bene. Le politiche andrebbero fatte da qualcuno che abbia una visione. Una cosa semplice sono i muri a secco, elementi fondamentali del nostro paesaggio rurale, che devono essere restaurati. Bene, si può fare che per ogni metro recuperato si corrisponde una somma di denaro. Tutta la burocrazia e le carte da riempire non vanno bene. Un contadino deve pensare alla luna, alle stelle, alla stagione, che ti suggeriscono quando è il momento giusto per fare una cosa o l’altra, non a riempire fogli sul computer. Ci vuole un’altra mentalità, altre leggi.
Per esempio?
Fino agli anni ‘60 esisteva il regime di esenzione, quindi non veniva considerato commercio per un contadino il vendere i propri prodotti su tutto il territorio nazionale. Bastava passasse il vigile urbano, per constatare che li facevi tu nel tuo terreno e non pagavi nemmeno l’occupazione di suolo pubblico. Adesso questa possibilità non esiste più. Don Milani diceva che la peggiore ingiustizia è fare parti uguali tra diversi. Non si può fare parti uguali tra agricoltura e industria o tra agricoltura industriale e agricoltura contadina. Bisogna trovare nuove strade, che ci sono: le varie forme di agricoltura ecologica sono nate dal 1924; siamo nel 2024, sono cent’anni che queste esperienze sono nate, fuori dalle università e dai finanziamenti del Pubblico. Si dovrebbe di nuovo incentivare la vendita diretta su suolo pubblico, senza pagare. Ho dato vita nel 1984 al primo mercato contadino di agricoltori biologici a Firenze, che dura ormai da 41 anni e che ha fatto in modo che diverse decine di persone si siano mantenute nella vita.
Hanno ragione, quindi, gli agricoltori a protestare?
Le proteste sono giuste, ma partono in larga parte da gente su grandi trattori, che manifestano perché si rendono conto che quando vendono non riescono a remunerare le loro spese e non hanno profitti. Però gli agricoltori devono anche comprendere che seguendo questa strada non arriveranno da nessuna parte, perché seguendola fino in fondo, cosa trovano? Solo cibi prodotti in fabbrica. Ma non è possibile nessuna transizione ecologica se il settore non si liberalizza, in modo che i giovani che hanno la vocazione – perché questo è un mestiere vocazionale – possano diventare contadini. E l’agricoltura dovrebbe essere considerata un servizio pubblico del Paese: invece del reddito di cittadinanza, ci dovrebbe essere il “reddito di contadinanza”, per quelli che vogliono iniziare una vita in campagna.
Cosa direbbe, quindi, a chi sta protestando oggi?
Che ciascuno deve chiedere al proprio Paese di avviare e liberalizzare l’agricoltura contadina, con norme diverse, perché un maggior numero di persone possa vivere sulla terra e della terra, senza considerarla solo un’attività produttiva. Molti di quelli che protestano, però, si accontenterebbero di avere la benzina a poco prezzo e delle facilitazioni. Chiedono all’Unione europea più soldi, più contributi. Io direi: «Non chiedete i sussidi, ma la possibilità di liberarvi da questa catena infernale». Nel movimento, però, ci sono alcuni che la pensano in questo modo, mentre per molti altri la rivendicazione più forte è l’aumento dei contributi. Francamente, io chiederei che ogni Paese possa produrre da sé e, quando producesse più di quello che consuma, potrebbe aiutare gli altri in un’ottica di solidarietà. Capisco che sembra un sogno, ma secondo me è questo il vizio d’origine dell’Unione europea sul piano agricolo: che i soldi vengano convogliati al centro, poi vengano distribuiti a seconda delle richieste, mentre nessuno Stato ha una vera politica agricola nazionale che non passi per l’Europa. Bisognerebbe anche incentivare forme di agricoltura capaci di bonificare il territorio e di eliminare l’inquinamento. Se partendo dalle zone marginali si costruisse un’economia e una società ecologica ci si opporrebbe anche al cambiamento climatico perché quando la vegetazione cambia nella maniera giusta in almeno 15mila ettari, cambia anche il microclima locale.
Foto per gentile concessione di Giannozzo Pucci
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