Riccardo Arena

Con Radio Carcere combatto l’assuefazione

di Ilaria Dioguardi

Il racconto dell’incontro con l’ideatore e conduttore del programma in onda dal 2001 su Radio Radicale. Un dialogo su molti temi legati alla detenzione con un fil rouge: l’amore per i diritti di tutte le persone. «Mi scandalizza l’indifferenza». Una lunga intervista di VITA a Riccardo Arena

Mi accoglie davanti alla porta d’ingresso della redazione di Radio Radicale, nel centro di Roma, con l’entusiasmo e la passione per il suo lavoro e per l’amore verso il prossimo che lo caratterizzano e che si percepiscono già da una stretta di mano. È Riccardo Arena, ideatore nel 2001 della rubrica radiofonica Radio Carcere , in onda ogni martedì e giovedì alle ore 21. Sta preparando la prossima puntata ma mi dedica comunque molto tempo, mi presenta i colleghi e la neo direttrice di Radio Radicale Giovanna Reanda. «Potremmo parlare per giorni interi di carcere», mi dice Arena.

Cosa la spinge, dopo tantissimi anni, ad affrontare ancora con così tanto entusiasmo il tema delle carceri?

Forse è il mio caratteraccio che, una volta tanto, mi è di aiuto e che mi impedisce di essere assuefatto alla disfunzione per un’esecuzione della pena che, tranne eccezioni, è crudele e, quindi, è ingiusta. Infatti, come un processo lungo è sempre ingiusto, anche una pena crudele è sempre ingiusta.

Il sistema penitenziario italiano è assuefatto?

Certamente è abituato ad avere a che fare con gran numero di persone ristrette che hanno esigenze diverse e pericolosità diverse. Di conseguenza noto che, spesso, non si lavora sulla singola persona come vorrebbe la legge, ma il sistema tende a trattare le persone detenute in modo omogeneo, ovvero come fascicoli, o peggio, come numeri. Inoltre, noto che il sistema penitenziario appare sempre uguale a se stesso, non dimostra capacità organizzative nuove e non appare capace di adeguarsi a una popolazione detenuta che negli anni è profondamente cambiata.

Ma qualcosa di buono si farà anche nelle carceri, o no?

Certo! Ma si tratta di piccole scintille nell’oscurità. Ad esempio, nelle carceri le poche e frammentate iniziative positive che ci sono vengono intraprese grazie alla buona volontà del singolo, mentre nella maggior parte dei casi chi dovrebbe lavorare nelle e per le carceri usa la disfunzione del sistema come scusa, come alibi per fare poco. Un meccanismo devastante che riguarda tante professionalità che operano nelle carceri, dagli agenti, ai direttori e fino ai magistrati di sorveglianza. Ecco e qui torniamo alla prima domanda: mai abituarsi alla disfunzione, o peggio, farla diventare un alibi.

Mentre parliamo, Arena si infervora, proprio come nella sua trasmissione, quando si parla dei diritti dei detenuti. La determinazione, la passione con cui conduce il suo programma sono le stesse da più di 20 anni.

-Dopo la relazione di Nordio sull’amministrazione della giustizia, da più parti è stato detto che il governo sembra non star facendo nulla di concreto (o molto poco) per combattere il sovraffollamento…

Che per ora il Governo non abbia fatto nulla di concreto, è un dato di fatto. Un’inerzia questa che spero verrà presto interrotta e che in verità arriva da lontano e che ha riguardato anche gli altri governi, non solo questo.

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Il problema di questo governo qual è, a differenza degli altri?

Che il sovraffollamento sta marciando a ritmi serrati: 4mila detenuti in più in un anno. Oggi contiamo ben oltre 60mila detenuti, a fronte di 47.300 posti effettivi. Tra poco, se continuiamo così, torneremo ai livelli della Torreggiani del 2013, lo “scandalo d’Italia”, la “sentenza pilota” della Corte Europea nella quale l’Italia fu condannata per la violazione dell’articolo 3 della Cedu (Convenzione europea dei diritti umani, ndr). All’epoca i detenuti erano circa 66mila, ci siamo quasi, tra un anno ci arriveremo. Ma a Radio Carcere questo aumento del sovraffollamento lo denuncio da mesi con uno scopo ben preciso.

Quale?

Invitare la politica ad intervenire prima che sia troppo tardi, prima che scoppi l’ennesima emergenza. Nel nostro paese (e non solo per le carceri) si interviene sempre dopo che si manifesta un problema ma, anche quando è facile prevedere che il problema ci sarà, non si interviene mai prima. Ecco, mi sembra che l’Italia sia un paese fondato sull’emergenza incapace a saper anticipare i problemi.

Il sovraffollamento sta marciando a ritmi serrati: 4mila detenuti in più in un anno. Oggi contiamo ben oltre 60mila detenuti, a fronte di 47.300 posti effettivi

La principale proposta di Nordio è la costruzione di nuove carceri dentro ex caserme. Cosa ne pensa?

Benissimo. Peccato che non sappiamo quali caserme diventeranno carceri, quanto tempo ci vorrà (se il sovraffollamento aumenta con questi ritmi, tra un anno non serviranno a niente). Come non sappiamo con quale personale le farà funzionare, visto che già oggi è assai scarso. Tra l’altro sarebbe importante sapere, non solo il numero dei posti detentivi che il Ministro intende recuperare con queste ex caserme, ma la loro destinazione d’uso. Infatti, un conto è usare quelle ex caserme per i tanti detenuti che hanno pene brevi e non possono avere misure alternative alla detenzione perché non hanno una residenza (una sorta di dormitorio). Altra cosa far diventare quelle ex caserme vere e proprie carceri.  Infatti, in questo ultimo caso i tempi si allungherebbero a dismisura e i costi sarebbero paragonabili (se non maggiori) a quelli necessari per la costruzione di un carcere nuovo… Francamente non capisco!

Anche per quanto riguarda i suicidi, non ci sono misure urgenti e concrete da parte del governo…

Sono già 16 i suicidi dall’inizio dell’anno, mentre nello stesso periodo del 2023, erano stati sette… Ma attenzione! 20 persone sono già morte nelle carceri perché malate, persone detenute che spesso muoiono per la semplice negazione del diritto alla salute.

A proposito dei suicidi, in gran numero, dove risiedono le cause?

I dati ci dicono che il dramma dei suicidi nelle carceri non è affatto legato al sovraffollamento. Credo piuttosto che la causa risieda nel fatto che il sistema penitenziario è rimasto sempre lo stesso e non è stato capace di adeguarsi alle nuove esigenze di una popolazione detenuta che è cambiata profondamente. Ad esempio, prima nelle carceri c’erano le varie bande, i mafiosi o i terroristi. Insomma i duri e puri. Invece, adesso gran parte delle persone detenute non solo spesso sono scollegate tra loro, ma arrivano da trascorsi vissuti ai margini, senza pensare al sempre maggior numero di persone ristrette che sono affette da una patologia psichiatrica o che hanno problemi di tossicodipendenza. Ecco, di fronte a questo profondo cambiamento delle persone detenute, il carcere è rimasto lo stesso di prima e, di conseguenza, non riesce ad intercettare o a capire eventuali disagi personali. È chiaro, quindi, che aumentano i suicidi. D’altra parte, stando così le cose, come potrebbero diminuire?

Cosa la scandalizza di più, ancora oggi, dopo tanti anni?

Mi scandalizza l’indifferenza, rispetto ai diritti della singola persona, anche se detenuta. Ma, allo stesso tempo, mi scandalizza la miopia di tanta politica che non vede (o non vuol vedere) come un’esecuzione della pena che non funziona, che non offre scelte di cambiamento concrete per cambiare vita, produce non sicurezza, ma insicurezza. Mi scandalizza la miopia di chi non vede (o non vuol vedere) che se la pena funzionasse correttamente produrrebbe sicurezza anche per noi cittadini, sicurezza che giustamente ci sta tanto a cuore. Oggi lo Stato spende oltre tre miliardi di euro per le carceri: una cifra enorme. Eppure il sistema penitenziario produce recidiva. Ha senso spendere tutti questi soldi pubblici per avere il 70 per cento delle persone detenute che tornano a delinquere?

Non si danno occasioni di scelta e di cambiamento, nelle carceri italiane?

Direi proprio di no. Oggi nella maggior parte delle carceri italiane non si offre lavoro qualificato che sia utile per la libertà, ma si “offre” ozio e disperazione e, solo in rari casi, alla persona detenuta viene data un’occasione di scelta e di cambiamento attraverso lo studio o il lavoro e in quei rari casi i risultati sono ottimi, peccato che restano delle eccezioni. Certo, è ovvio che nelle carceri ci sono anche persone dedite al crimine e che sono pericolose, ma c’è una fetta rilevante di persone detenute che vorrebbe avere attraverso la pena un’occasione di scelta e di cambiamento. Occasione che non gli viene offerta quasi mai.

Ma con il crescente sovraffollamento come si possono offrire queste occasioni di cambiamento?

Il sovraffollamento esiste, ma ho la sensazione che stia anche diventando una scusa per non lavorare lì dove è possibile farlo.

Mi scandalizza la miopia di tanta politica che non vede (o non vuol vedere) come un’esecuzione della pena che non funziona, che non offre scelte di cambiamento concrete per cambiare vita, produce non sicurezza, ma insicurezza

Ad esempio?

Ancora oggi ci sono penitenziari in cui c’è spazio per le lavorazioni e dove per ora non c’è molto sovraffollamento. Ecco, perché neanche lì dove è possibile l’Amministrazione penitenziaria non si impegna per esportare il modello del carcere di Bollate? Di nuovo, non riesco a capire… Forse è il carcere che non cambia mai, che è sempre uguale a se stesso.

Cosa ci vorrebbe, a suo avviso, per migliorare il sistema penitenziario italiano?

La prima “riforma” da fare in Italia (e non solo per le carceri) sarebbe quella di applicare la legge in vigore e solo dopo, se non funziona, pensare a una modifica. In Italia, invece, avviene il contrario: la legge corrente non viene applicata ma, invece di applicarla, si modifica. Per quanto riguarda il carcere, avviene la stessa cosa. Abbiamo una legge del 1975 che è applicata in minima parte, ma che se fosse tradotta in realtà cambierebbe il volto e la vita nelle nostre galere. Ebbene, quella legge resta lettera morta ma si continua a parlare di riforme sul carcere. Contemporaneamente, occorre metter mano all’edilizia penitenziaria costruendo sì nuove strutture penitenziarie, ma soprattutto carceri diverse a seconda della persona detenuta che deve ospitare. Poi certamente servirebbero residenze per i detenuti che hanno pene brevi, ma che non avendo una casa non possono ottenere una misura alternativa e che sono circa 20mila. Infine, non da ultimo, credo che bisognerebbe introdurre il numero chiuso nelle carceri, esattamente come ha chiesto il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Certo, occorre ragionare bene sulle regole da introdurre, come credo che sia necessaria una nuova organizzazione all’interno delle carceri. Ma domando: se il numero chiuso esiste già nelle case, nelle scuole, negli ospedali, nelle università, perché non introdurlo anche nelle carceri?

Qual è, secondo lei, il ruolo del Terzo settore?

È fondamentale e non solo per la costante presenza dei volontari nelle carceri. Infatti, tra gli aspetti essenziali che il Terzo settore rappresenta c’è la sua presenza sul territorio e la sua capacità di saper creare accordi virtuosi con il singolo comune. Accordi che sono importanti oggi più che mai. Un’attività fondamentale che rischia di essere frenata da una recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dap secondo cui i protocolli siglati tra il direttore di un carcere e le associazioni sul territorio devono passare per l’amministrazione centrale. Anche qui non capisco la logica…

Dopo la detenzione, le persone sono seguite, per un reinserimento lavorativo?

La legge del ’75 stabilisce che, quando una persona sta finendo di scontare la pena, gli assistenti sociali e gli educatori debbano accompagnarlo verso la libertà e risolvere i problemi relativi al lavoro, alla casa o eventuali problemi di famiglia. Pochi o nessuno svolge questa importante attività, tanto che a Radio Carcere dico spesso che prima si viene sbattuti in una cella sovraffollata e poi si viene sbattuti in libertà. Può sembrare strano, ma quello della riacquistata libertà è spesso un momento drammatico per le persone detenute, persone che si trovano all’improvviso sì liberi, ma senza un domani. Ora, se un ragazzo di Scampia o del profondo Nord, esce dal carcere con il sacco della spazzatura in mano, senza lavoro e con cinque euro in tasca, cosa andrà a fare il giorno dopo? La verità è che purtroppo in quel momento lo Stato sto consegnando quella persona, che magari vorrebbe cambiare vita,  alla criminalità.

Il Terzo settore è fondamentale e non solo per la costante presenza dei volontari nelle carceri. Tra gli aspetti essenziali che rappresenta c’è la sua presenza sul territorio e la sua capacità di saper creare accordi virtuosi con il singolo comune

Nel nuovo pacchetto sicurezza, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 16 novembre, un disegno di legge prevede l’introduzione di “un regime più articolato per l’esecuzione della pena”, con l’eliminazione del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e le madri di bambini di meno di un anno di età, prevedendo la loro detenzione negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri, Icam. Cosa ne pensa?

Bisogna avere una visione d’insieme, guardare il bosco e non il ramo. È ovvio che un bambino di uno, due, tre anni si rende conto di stare in carcere e non deve starci, è una banalità. Ci sono gli Icam e le case protette. Qui si tratta di porre una priorità: un bambino in carcere non deve entrare, a costo di toglierlo alla madre se le altre alternative non sono percorribili. Ma ci pensa? “Un bambino detenuto”, già questa parola è aberrante, pensi alla realtà. Ho sentito mamme di recente che hanno vissuto la detenzione con figli di due-tre anni, bambini che subiscono la puzza e il rumore del carcere e che, una volta liberati, continuano a usare il gergo carcerario. Invece di dire “Mamma portami in giardino”, dicono “Mamma, portami all’aria”. Invece di dire “Mamma chiudi la porta” dicono “Mamma, chiudi il blindo”. Ci rendiamo conto della gravità? Tre anni fa una detenuta nel carcere romano di Rebibbia uccise i due figli lanciandoli dalla tromba delle scale nella sezione femminile. Ma in verità quei bambini li ha ammazzati il sistema, li ha ammazzati chi non si è posto il problema che potevano andare all’Icam o in una casa famiglia protetta, li ha ammazzati chi consente quella detenzione barbara e chi non si è accorto dell’“incapacità di intendere e di volere” di quella mamma, che infatti per questo è stata assolta.

Le lettere inviate a Radio Carcere che maggiormente lasciano l’amaro in bocca sono quelle che scrivono i detenuti più giovani, di 20-25 anni. Ragazzi che vorrebbero, attraverso la pena, avere un’occasione di scelta per rifarsi una vita ma che, invece, sono condannati all’ozio

C’è una parola, nella Costituzione, che a lei non piace: rieducazione. Perché?

Preferisco il termine “scelta” perché contraddistingue le nostre vite. L’esecuzione della pena dovrebbe diventare anche un’occasione di scelta, per chi lo vuole. Scelta attraverso lo studio, i corsi di formazione o il lavoro. Ma non penso al lavoro autoreferenziale che spesso viene insegnato nelle carceri. Penso a lavori utili come l’idraulico, il falegname, il pizzaiolo. Invece, e come ci siamo detti, la maggior parte delle oltre 60mila persone detenute vivono nell’ozio più assoluto. Ozio che produce abuso di psicofarmaci o traffici illeciti di droghe ed altro. Ozio che diventa un’occasione di “reclutamento” dei soggetti più deboli da parte di chi vive di crimine. Insomma, si fa il contrario di quello che si dovrebbe fare e anche su questo aspetto le lettere che ci scrivono i detenuti sono eloquenti.

A proposito di lettere, può dirci se c’è una lettera scritta dalle persone detenute a Radio Carcere che le è rimasta particolarmente impressa?

Sono tante le lettere che mi colpiscono e che mi insegnano tanto. Quelle che maggiormente lasciano l’amaro in bocca sono quelle che scrivono i detenuti più giovani, di 20-25 anni. Ragazzi che vorrebbero, attraverso la pena, avere un’occasione di scelta per rifarsi una vita ma che, invece, sono condannati all’ozio. Ecco, tremano i polsi pensando a quelle giovani vite senza domani. Ragazzi detenuti che, non solo non sono aiutati a costruirsi un domani di onestà, ma che non sono aiutati neanche a trarre insegnamento dall’errore commesso. Errore che dovrebbe essere un’occasione di apprendimento e di miglioramento, ma che nelle carceri diventa invece l’ennesimo momento di abbandono, il che non mi sembra poco!

Prima di lasciarmi, Arena mi mostra la «storica stanza nella quale faceva le riunioni e trasmetteva Marco Pannella», vista in tante foto e in tanti video. E poi mi saluta per andare di corsa a preparare una nuova puntata di Radio Carcere.

Foto dell’inviata.

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