Neurodivergenza

Come un attore senza copione: l’autismo raccontato da chi lo vive

di Veronica Rossi

Claudio Ughetto in primo piano, foto in bianco e nero, con un basco, gli occhiali e una mano appoggiata sul viso
Claudio Ughetto, scrittore ed educatore autistico, ha scritto diversi libri sul tema dello spettro. Il suo ultimo lavoro, «Ad ampio spettro. Una gioventu autistica» (Lem Editore), racconta la sua esperienza e la consapevolezza di essere «diverso» che l'ha accompagnato per tutta la vita

«Per me essere autistico è come essere un attore che sale sul palcoscenico per recitare l’Amleto e si accorge tutte le volte che hanno cambiato qualche battuta sul copione, che gli altri invece sanno». È così che racconta la sua esperienza di persona neurodivergente Claudio Ughetto, scrittore ed educatore di Giaverno, in provincia di Torino. Sullo spettro dell’autismo e sulle difficoltà dell’adolescenza l’autore ha già diversi lavori all’attivo, ma quest’anno ha pubblicato «Ad ampio spettro. Una gioventu autistica» (Lem Editore), che racconta la sua storia personale e le sue vicende precedenti alla diagnosi, ricevuta in età adulta.

Da dove nasce l’esigenza di scrivere questo libro?

Ho cominciato a scriverlo tre anni dopo la diagnosi, che ho avuto nel 2012. All’inizio il libro è nato con l’idea di tentare di capirmi meglio, come molte altre persone che hanno saputo di essere autistiche da adulte, ho cercato di comprendere il mio passato sotto una nuova luce. Poi, man mano che scrivevo, si è formata l’idea di raccontare la vita di una persona autistica che – per sua fortuna o suo malgrado – è riuscita a condurre un’esistenza non troppo dissimile da quella di un neurotipico. Come si spiega questo? Sono arrivato alla conclusione che rimango nello spettro; ho superato delle difficoltà dal punto di vista di quello che gli altri vedono, ma al mio interno permane un funzionamento autistico.

È faticoso, quindi, adattarsi a vivere come una persona neurotipica per chi non lo è?

La fatica per me più grande è adattarmi a un continuo stare all’interno delle relazioni, sapendo che non capisco come comportarmi per istinto, ma guardando la situazione da fuori e interpretandola. È un grande stress sociale. Poi ho un problema sulle funzionalità esecutive, devo schematizzare ogni giorno quello che faccio altrimenti mi perdo; sono più bravo a occuparmi dei problemi degli altri che dei miei. In più ci sono altri elementi che vanno a rafforzare la mia diagnosi, nel libro parlo del disturbo ossessivo-compulsivo, di alcuni aspetti tourette-like e del disturbo d’ansia. Tutto questo si nota poco dall’esterno, ma mi causa fatica. Nel mio lavoro, sono molto bravo nella progettazione sociale, ma poi, quando devo spiegare la mia idea, magari al politico di turno, sono molto in difficoltà, non so promuovermi.

Lei lavora come educatore proprio nel campo dell’autismo. Il fatto di avere una diagnosi la aiuta in questo?

L’idea era quella di essere un ponte tra una neurotipicità appresa per eperienza e una percezione del mondo autistica. Questo è vero da un lato, ma dall’altro è un’illusione: si impara a comportarsi da neurotipici, ma il funzionamento è autistico. I due elementi non sono quindi alla pari, sono sempre sbilanciato dalla parte dell’autismo; questo a volte sul lavoro emerge di più e mi comporta maggiore stress. Devo dire, però, che dai feedback che ho dalle famiglie e dagli enti, il mio servizio è molto buono, quindi il mio impegno qualche risultato lo dà.

Cosa vuol dire, in questo campo, avere dei risultati?

Vedere che un ragazzo a scuola ha migliorato gli apprendimenti, per esempio, o essere riuscito a risolvere un problema di comunicazione con i genitori, intervenendo sull’ambiente e facendo rendere conto la famiglia che si tratta di una difficoltà reciproca. Poi c’è la soddisfazione del parent training, sentirmi dire dai genitori che hanno messo in pratica quello che gli ho insegnato e così sono riusciti a far meglio di prima. Anche lavorare nelle scuole è importante, non tanto coi ragazzi, quanto per dare strumenti agli insegnanti.

Raccontare, per me, significa dare strumenti per comprendere meglio l’autismo e questo me lo dicono anche molte famiglie dopo aver letto i miei scritti.

— Claudio Ughetto

E non è un risultato, però, far sembrare più neurotipico un ragazzo autistico.

La soluzione non è sembrare meno autistici. Sono gli altri a dover avere più conoscenza di cosa voglia dire essere nello spettro. Non tutti i cosiddetti comportamenti problema scaturiscono dall’autismo, alcuni sono problemi di comprensione reciproca; bisogna modificare ciò che rende difficoltosa la comunicazione.

Si ricorda com’è stato il suo periodo scolastico?

Nel libro racconto il mio primo ricordo dell’asilo, che dà l’idea della mia neurodivergenza. Ero fermo su una panchina, gli altri giocavano e io non capivo assolutamente cosa stesse succedendo, ero lasciato un po’ da solo. Mio padre è passato, mi ha visto e da quel momento non sono andato a scuola per un anno; poi sono tornato, c’era anche il mio vicino con me ed è andata meglio. Alle elementari è stato splendito, eravamo una pluriclasse, dalla prima alla quinta, con tutti gli amici della borgata: c’è stato solo qualche meltdown dovuto a difficoltà di comprensione con le maestre. Alle medie, non tanto dalla prima quanto dalla seconda, sono cominciati i problemi, non capivo più i gerghi dei miei compagni, le modalità dei discorsi, prendevo tutto alla lettera. Ci sono stati anche i primi episodi di bullismo, che si sono protratti fino all’inizio delle superiori.

Pensa che oggi ci sia meno bullismo verso i ragazzi neurodivergenti?

Io, agendo sui ragazzi di livello uno (il primo grado, con meno bisogno di assistenza, individuato dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Dsm-5, ndr) non vedo tanto bullismo quanto isolamento; sono adolescenti che spesso stanno sulle loro, fanno fatica a trovare agganci con gli altri. In dieci anni, ho seguito un solo ragazzo che ha subito episodi di bullismo: ho lavorato un’estate intera con lui, anche per fargli capire doppi sensi e battute, per aiutarlo a comunicare.

Ci sono persone che dicono che chi è autistico ma ha un funzionamento cognitivo nella norma, come lei, non è un «vero autistico», quindi pare non legittimato a raccontare la propria esperienza. Qual è invece, secondo lei, l’importanza di parlare di sé e del proprio vissuto?

Se non raccontiamo noi l’autismo chi lo racconta? Lo lasciamo solo a chi, come i genitori, con tutto il rispetto e le giuste rivendicazioni, ha una visione limitata o a chi, come i medici, lo vede da fuori? Noi di livello uno a volte siamo definiti subclinici o sotto soglia; io dico sempre «Fatti una settimana di viaggio nei miei panni per capire». Raccontare, per me, significa dare strumenti per comprendere meglio l’autismo e questo me lo dicono anche molte famiglie dopo aver letto i miei scritti.

In copertina, Claudio Ughetto, foto concessa dall’autore


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