Due esperienze lavorative a confronto. Due storie, due persone. E un solo denominatore: l’umanitario. Quasi 300 milioni di persone in tutto il mondo hanno bisogno di assistenza e protezione. Ma a queste persone si riesce ancora a dare una risposta? Antonio Donini, co-fondatore di United Against Inhumanity, analista umanitario e membro del consiglio di Intersos e Martin Griffiths, ex sottosegretario delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, si sono confrontati durante la terza edizione del “Rome Humanitarian Congress”, organizzato da Intersos, dal titolo “Humanitarian in violent and troubled times: where do we go from here?” (L’umanitario in tempi violenti e travagliati: dove andiamo a finire?). Insieme hanno raccontato cosa ha significato portare assistenza umanitaria nel mondo negli ultimi 30 anni. Cosa significa oggi. Consapevoli che l’umanitario non può, e neanche deve, sopperire a tutte le mancanza della politica.
Antonio Donini: Martin e io ci conosciamo da tanto tempo, abbiamo anche lavorato insieme. Come “anziani” abbiamo la responsabilità di passare la nostra conoscenza alle generazioni successive e riflettere sui dilemmi di oggi e le prospettive per il futuro. Il commissario Ue uscente per gli aiuti umanitari, Janez Lenarčič, aveva dichiarato: “Segnatevi le mie parole, l’impresa umanitaria sta affondando”, la sua non era una domanda, ma un’affermazione.
Martin Griffiths: L’immagine della nave umanitaria di salvataggio che sta affondando è molto vera, oggi siamo a un punto di flessione. Siamo gli ultimi baluardi in molti conflitti e questo è inaccettabile. Siamo strumentalizzati dalle parti o dai loro alleati. Lo si vede ovunque, in particolare ora nel Medio Oriente, e in modo diverso in Sudan. Quindi il nostro ruolo come attori indipendenti e neutrali è soggetto a grandi pressioni e sfide e noi dobbiamo affrontarlo. Dobbiamo agire invece di blaterare, io blatero ma lui agisce (sorride e si riferisce a Donini ndr).
AD: Penso ci siano due aspetti che definiscono lo spazio lasciato all’azione umanitaria. Una crisi del multilateralismo e il ritorno della guerra come annullamento delle inibizioni attorno alla guerra stessa. Sembra che le capacità dell’Onu e della comunità internazionale, qualsiasi cosa significhi, di risolvere i problemi politici stiano rapidamente restringendosi. Il Consiglio di sicurezza sembra gestire solo questioni umanitarie, è diventato un Consiglio di sicurezza umanitario. Non è più il luogo in cui si va per cercare di risolvere le crisi. Quindi la crisi del multilateralismo, il sollevamento delle inibizioni sulle guerre, il ritorno della guerra in Europa e in Palestina, è questo l’ambiente in cui siamo destinati a vivere? O è solo una fase che passerà?
MG: Non penso sia una fase. Guardiamo ai fatti di oggi, a quello che mostra la realtà. Perché non si dovrebbe andare in guerra di questi tempi? Non si deve per forza negoziare con gli altri, li si può uccidere oppure saranno loro ad uccidere. Se si è fortunati, non si va in prigione. E se si è armati da altri si può vincere la guerra. Perché non si dovrebbero uccidere gli operatori umanitari quando non si è chiamati a risponderne?. Non solo a Gaza. L’anno scorso in 32 nazioni sono stati uccisi operatori umanitari e non è stata assolutamente fatta luce su questo. L’impunità e la mancanza di responsabilità, due gemelle, stanno diventando sempre più gravi. E diventano sempre più gravi perché si può andare in guerra in Libano, così come distruggere Gaza. E la gente dirà solo “fallo in fretta” o “magari non attaccare le basi nucleari in Iran”. Ma non è questa la storia che dovremmo sentire. Abbiamo bisogno di più impegno e che le nazioni smettano di armare le parti. Ci serve che la gente realizzi che ciò che accade a Gaza non resta a Gaza. Da tutto il mondo si guarda a Gaza e si vede impunità. Quindi si penserà: “Perché anche noi non lo facciamo?” Questa è una malattia che si sta diffondendo con i conflitti degli ultimi dieci anni credo. Penso che l’impunità non sia né condannata né affrontata. La comunità umanitaria deve coinvolgere altre realtà per arrivare a una soluzione. Oggi non c’è praticamente nessuna mediazione efficace sui principi del mondo. È innegabile che il Consiglio di sicurezza dell’Onu non stia facendo il suo lavoro. E il suo lavoro dovrebbe essere quello di fermare le guerre. Chissà cosa farà il consiglio di sicurezza dopo il recente attacco ai peacekeepers dell’Unifil. Bisogna capire che ogni linea rossa superata assicura quasi sempre che venga superata anche la prossima.
AD: Durante l’assedio di Aleppo il rappresentante permanente della Francia all’Onu aveva scritto un editoriale su The Lancet dove si interrogava: “Aleppo sarà ciò che Guernica è stata per la Società delle Nazioni?”. Il bombardamento di Guernica era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, facendo collassare la Società delle Nazioni. L’Onu avrebbe avuto la stessa sorte? Sarebbe diventata irrilevante come la Società delle Nazioni? Lui si faceva queste domande e io credo che queste domande siano valide anche davanti ai fatti di oggi.
MG: Qualche giorno fa ero a New York. Era la settimana dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Io non ho partecipato e ho pensato: “Ora realizzo davvero perché me ne sono andato”. Ho un’antipatia verso gli incontri in stanze grandi, verso i summit: penso debbano essere proibiti. Per questo penso che dovremmo davvero cambiare i termini in cui rispondono gli organi delle Nazioni Unite e il Segretariato. L’Onu è un’organizzazione intergovernativa dove manca la società civile, c’è pochissima inclusione delle organizzazioni umanitarie. Questa è un’enorme frattura che va riparata. Il Consiglio di sicurezza è esattamente il luogo dove accade la politica, ed è questa la cosa peggiore. Non è il luogo dove si trovano le soluzioni, e io ci sono stato, durante negoziazioni e discussioni sul cessate il fuoco a Gaza. Non ci si può aspettare che il Consiglio di sicurezza, com’è ora, faccia il proprio lavoro. Questa è la mia preoccupazione.
AD: Il problema è strutturale o è relativo alla situazione geopolitica attuale e al cambio degli equilibri di potere nel mondo? Se il Consiglio di sicurezza è incapace di fare il proprio lavoro, chi può affrontare e risolvere questioni come la protezione dei civili? Chi può affrontare e risolvere questioni come le tattiche di guerra che sono usate a Gaza e altrove? E ancora il fatto che la comunità internazionale è sotto attacco in modi che non vedevamo da molto tempo? Come possiamo uscirne? Come ci riusciamo?
MG: Penso sia strutturale. E sono consapevole del problema, come te, da ben prima di questo momento. Ora è più ovvio, ma la questione è lì dall’inizio. I membri permanenti del Consiglio non rinunceranno al loro diritto veto, che era così importante nel 1945. Nel migliore dei casi offriranno un posto ad altre nazioni come suggeriscono gli Usa, ma senza possibilità di veto. Cosa possiamo fare? Non penso che possiamo fare affidamento sul fatto che il Consiglio rispetti le proprie responsabilità. Quindi abbiamo bisogno di strutture diverse. L’Assemblea generale dell’Onu, che penso stia facendo un lavoro onorevole, non è una struttura agile, veloce, diretta. È un organismo globale, ed è comunque intergovernativo. Abbiamo bisogno di un cambiamento strutturale, come dicevi tu prima, e di una struttura che coinvolga le persone. È molto difficile da organizzare, ma non è un’ambizione impossibile. E ora è necessario.
AD: Penso che tu abbia toccato una delle questioni chiave, cioè che le istituzioni Onu erano state costruite in un mondo molto diverso da oggi. Dobbiamo tornare alla Seconda guerra mondiale dove c’era un sentimento di grandi responsabilità per i potenti, e ciò spiega il senso del diritto veto. Alcuni di questi grandi poteri non sono più così grandi. È arrivato il momento di verificare se il sistema funzioni o meno. La carta delle Nazioni Unite inizia così: “Noi, popoli delle Nazioni Unite”. La Carta inizia dal “noi”. Ma le persone non sono rappresentate nelle organizzazioni dell’Onu. Il problema vero è che i Governi sono una cosa, la popolazione un’altra. E la popolazione a volte fa sentire la propria voce attraverso le organizzazioni della società civile o il Consiglio dei diritti umani, ma nessuna delle due rientra nei meccanismi politici dell’Onu.
MG: Una delle prime cose che ho notato lavorando all’Onu è la mancanza di ascolto delle comunità: non le abbiamo ascoltate abbastanza. Nella mia esperienza, alle comunità non è permesso partecipare alle discussioni perché l’unica cosa su cui le parti in guerra convergono è di non coinvolgere la società civile. Allo stesso modo nella mediazione, faccio mea culpa, è più facile trattare con i soldati per farli smettere di combattere che ascoltare la voce vera delle persone.
AD: Secondo te il diritto internazionale umanitario è moribondo? Io ho partecipato a un panel a Ginevra con Rony Braman, di Medici Senza Frontiere. Il titolo del panel era provocatorio: “L’Ihl è un’etica della morte” e il suo punto è che, all’inizio, il diritto internazionale umanitario era stato pensato per aiutare i militari ad avere regole a cui aderire e non per proteggere i civili, quello è subentrato dopo. Cosa abbiamo imparato? C’è una luce alla fine tunnel?
MG: Sono preoccupato, di solito evito di parlarne. Penso che sia vero, penso che il diritto internazionale umanitario sia sotto stress, è in ambulanza. C’è molto da fare perché ci sia più consapevolezza anche nella nostra comunità sulle sue prescrizioni e sui suoi obblighi. La Convenzione di Ginevra è attaccata al respiratore. Spazzata via da alcune delle parti in guerra oggi, in un contesto di impunità in cui poteri (orientali e occidentali) possono facilmente ignorarla.
AD: Non abbiamo mai visto una violazione del diritto internazionale umanitario così come negli ultimi tempi. Basta guardare quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza. Quindi quello che vedo è una disconnessione: c’è grande interesse, anche del pubblico, sul diritto internazionale umanitario e una grande violazione dello stesso. Gaza, Ucraina e prima Siria sono gamechanger per il funzionamento dell’impresa umanitaria o lo sono anche in termini geopolitici?
MG: Va oltre di noi. A Gaza non c’è mediazione, ci sono impedimenti enormi che rendono difficile far arrivare gli aiuti. Ormai è diventata un trigger per altre impunità, come vediamo con il Libano. Gaza ci mostra anche l’assenza dell’influenza nella diplomazia. Ma non è l’unico luogo, guardiamo anche al Sudan, dove i numeri sono ancora più drammatici. Stavo leggendo un report tecnico l’altro giorno, e prevedeva che 12 milioni di persone, se la guerra prosegue fino al 2025, e penso sia un’idea ottimista, moriranno per fame, insicurezza alimentare e uccise. È impensabile.
AD: È deludente. Quelli della guerra fredda erano tempi “più semplici”, c’erano regole. Era un’era di stallo ma dove gli umanitari sapevano più o meno dove stavano andando. Negli ultimi 15 anni c’è una tendenza a mettere più cose nel cestino umanitario. La Banca internazionale entra nell’umanitario e viceversa, ci sono più discussioni, Hugo Slim (accademico britannico e consulente politico in relazioni internazionali specializzato in etica della guerra e aiuti umanitari) ha scritto un libro in cui parla di estendere il remix umanitario al cambiamento climatico o di incorporare il movimento umanitario nel movimento sul cambiamento climatico. Alcuni diranno che va bene, ma non ci stiamo spostando dalla centralità dei principi umanitari? Ha senso che l’agenda umanitaria diventi così ampia o dovrebbe restare con un focus su questioni pratiche come i principi e la protezione nelle crisi?
MG: Sono nello schieramento di chi dice di restare focalizzati sul proprio mandato. L’Afghanistan post-talebani per me è stato un esempio, i finanziamenti strutturali si sono fermati, gli operatori umanitari come al solito sono rimasti gli ultimi lì, hanno assorbito i servizi base. Penso che gli umanitari siano il target naturale del “perché non lo fai tu? Perché sei lì, sei veloce ed efficiente”. Ricordo che lo scorso luglio ho parlato ad un meeting di Msf a Ginevra e mi chiedevano “cosa dovremmo fare nei prossimi anni?” e io dicevo di restare dove si è, non deviare, perché Msf è un’organizzazione iconica di principi umanitari. Nessuna persona o organizzazione con una coscienza può stare ferma e guardare mentre le cose necessarie non vengono fatte. Penso che l’idea di ritirare i fondi di sviluppo come prima reazione ad una crisi sia un insulto alle persone nella nazione, si dovrebbe smettere di farlo in Afghanistan, Siria, Myanmar. Credo che ci si dovrebbe impegnare in un discorso sulle soluzioni con altre comunità, quelle per i diritti umani, per la mediazione, e riaffermare certi principi. La soluzione non è quella degli operatori umanitari che si prendono cura del mondo, lo vediamo oggi più che mai.
AD: Questo mi porta ad un’altra domanda geopolitica. Abbiamo visto un cambio nel potere economico e geopolitico fisicamente verso Est. E l’Est finora non è stato molto strategico nell’usare il suo soft power nello stesso modo in cui l’ha fatto l’Ovest in termini di questioni umanitarie. Finora l’impresa umanitaria è ancora l’erede di tradizioni occidentali di compassione e cristianità. Ora che il potere si sta spostando ad Est, cosa succederà all’umanitario come lo conosciamo? Si trasformerà? Dovrebbe o dovremmo cercare di trattenere certi aspetti di principio su cosa fanno gli umanitari? Se lo facciamo continueremo ad essere visti in alcune situazioni come gli agenti di valori stranieri o dell’imperialismo occidentale?
MG: Negli ultimi mesi ovunque sia andato la gente mi ha parlato del movimento del Sud globale, la perdita di potere dal Nord e dall’Ovest verso il Sud e l’Est. L’Onu dovrebbe avere un approccio sistematico a questo spostamento di potere e di responsabilizzazione, per comprendere questi nuovi poteri e discutere con loro di principi e leggi (non ce ne servono di nuove, dobbiamo solo applicarle). Uno dei problemi chiave che abbiamo affrontato, ovviamente, e il Sudan è un ottimo esempio, è che alla sovranità è permesso di calpestare obbligazioni internazionali. Il Governo ospite, che è una delle parti del conflitto lì, ha detto che non voleva il passaggio (degli aiuti umanitari) dal Ciad perché da lì arrivavano anche le armi per i loro nemici. Gli è stato permesso di farla franca. All’Onu pensavamo molto alle operazioni transfrontaliere, ad esempio per il Tigrai nel 2021, ma non ci siamo mai riusciti perché l’idea era di avere una risoluzione del Consiglio di sicurezza in accordo con il governo etiope. O ancora la debacle della Siria nordoccidentale dopo il terremoto, ero nell’occhio del ciclone in quello, io sono d’accordo con i legali che dicono che ci sono obbligazioni più potenti che vanno oltre la sovranità e che sono nei bisogni delle persone a cui dovremmo rispondere. Non ero nell’Onu ma penso che ci si sarebbe dovuti muovere velocemente per una risoluzione del Cds per le operazioni transfrontaliere in Siria, penso che si sarebbero dovuti stringere i denti e insistere.
AD: In Afghanistan nel 1989 l’Onu negoziò con tutte le parti del conflitto e con le nazioni vicine per un consenso umanitario che stabilisse che all’Onu, e per estensione alle ong, sarebbe stato permesso di lavorare tra le frontiere. E resse e penso che sia stato un errore non spingere per un accordo simile.
MG: Sono d’accordo. È stata una delle esperienze più fastidiose in cui mi sono trovato, la risposta al terremoto. Ero andato a vedere il presidente Assad, l’ho visto tre volte. Pensavo ci fosse un’opportunità, persa abbiamo poi scoperto, per i siriani di avere qualche beneficio in più. Io ero lì per difendere la legge che dice che ti serve l’approvazione del Governo ospite, con tutti che mi dicevano che ero un venduto.
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