Luigino Bruni

Capitale narrativo: le storie che ci fanno uomini

di Marco Dotti

​Il capitale narrativo, spiega l'economista Luigino Bruni, è qualcosa di molto più serio e profondo dello storytelling delle imprese. È il frutto della dimensione narrativa degli esseri umani, che sono animali capaci di raccontare e di ascoltare storie. Occorre una riflessione profonda, soprattutto nel Terzo settore, sul tema del suo racconto

Una crisi reale, ma anche una crisi di racconto. Dopo gli anni in cui si credeva bastasse un po' di storytelling per raccontare e raccontarsi, molte organizzazioni si scoprono nude. Cariche di storia, ideali, buone pratiche, ma povere di racconto. Peggio va a chi confonde fundraising e comunicazione. Ma quali sono le radici di questa crisi che attraversa latente – o manifesta: leggasi ONG, tema a cui Vita ha dedicato il magazine di maggio – il Terzo settore? Ne parliamo con il professor Luigino Bruni, economista, autore del recente Il capitale narrativo, edito da Città Nuova.

Grammatiche della vita comune

Un rapporto "ecologico" tra mezzi-fini è sempre più critico. Ma nello spazio dell'agire umanitario o in quello solidaristico era in qualche modo dato per acquisito. Lo abbiamo dato troppo per scontato? Forse per questo molte organizzazioni a movente ideale (dalle Coop alle Ong) oggi, oltre che sotto attacco esterno, si trovano in una sorta di crisi di identità?
È una crisi di identità profonda, che tocca diverse dimensioni, tutte legate alla crisi delle ideologie del XX secolo e precedenti che le avevano generate. In alcuni miei lavori ho messo in luce come la crisi sia anche di natura narrativa. Il linguaggio con cui quelle storie collettive si sono raccontate è stata, in Occidente, l’ultima fioritura di un umanesimo antico, profondamente cristiano, talmente radicato nei secoli che anche chi non era cristiano ne capiva perfettamente i simboli.

Anche chi non era mai entrato in un confessionale capiva cosa fosse una confessione, e chi non era mai entrato in una chiesa capiva e sapeva cosa succedesse dentro, chi non aveva mai pregato Maria e Gesù li conosceva e conosceva almeno una preghiera e, spesso, la recitava di nascosto, in quei momenti in cui anche chi non prega ricorda le preghiere dei nonni. La vita e la morte parlavano a tutti quasi con le stesse parole. Il lavoro (dei campi e nelle fabbrica, il lavoro delle donne) era stato per secoli quel terreno comune di grammatiche e sintassi emotive e simboliche che consentiva a tutti di capirsi oltre le differenze di culture, di fedi, di umanesimo. Peppone e Don Camillo litigano perché si capivano perfettamente.

Funziona ancora questo schema?
Oggi non capiamo che cosa sta accadendo nel nostro tempo se non prendiamo sul serio la profonda crisi di codici narrativi secolari. Quando oggi un giovane passa davanti a una chiesa difficilmente capisce cosa accade lì dentro, quando vorrebbe pregare non sa come farlo perché non ricorda più nessuna preghiera, il suo cuore non è più popolato dai volti e dalle parole dei suoi genitori, e i nomi santi e splendidi che ci hanno parlato per quasi due millenni (Gesù, Maria, i molti santi…) non dicono quasi più niente a nessuno. E così, quando proviamo a raccontare le stesse storie di ieri, finiamo per dire parole d’amore in una lingua morta.

Verso un nuovo racconto?

A suo avviso c'è consapevolezza di questa crisi di narrazioni? A giudicare da come molte organizzazioni del Terzo settore ancora confondono fundraising, storytelling e narratività qualche dubbio sorge…
Alcune comunità e Organizzazioni a Movente Ideale (OMI) hanno acquistato questa consapevolezza, anche se spesso sbagliano nel passare dalla diagnosi alla terapia. Altre non stanno iniziando nessuna terapia per mancanza di una buona diagnosi, e continuano a pensare che la crisi dipenda dalla cattiveria del mondo e magari dei giovani. Altre comunità ancora sono coscienti di attraversare una crisi seria, perché i segni sono diventati macroscopici e impediscono la sua rimozione (mancanza di giovani e di vocazioni; scarsità di gioia di vivere negli adulti diventati, nel frattempo, disincantati; comunità trasformate in club di consumo della spiritualità del passato; distanza dai poveri; ridimensionamento delle novità spirituali e carismatiche, ecc…). Queste comunità e questi movimenti non riescono però a comprendere che una delle principali radici della loro crisi è di natura narrativa. Altre comunità, infine, hanno individuato buone diagnosi e stanno seguendo buone terapie, e sono una speranza per tutte le altre che sono nel travaglio. Ma la mia esperienza culturale e empirica mi dice che sono molto poche.

Forse anche queste due categorie, mezzi e fini, non bastano più per descrivere l'agire umanitario?
In realtà, per molte organizzazioni, cooperative, ong, OMI del Novecento i fini e i mezzi coincidevano – la distinzione Weberiana non mi ha mai convinto. Perché quando si mettono in moto gli ideali e quindi le motivazioni intrinseche, la logica strumentale mezzo/fine non funziona. Per le imprese capitalistiche o per le organizzazioni puramente burocratiche si può provare a distinguere il fine (profitto, ad es.) e il mezzo (l’impresa). Ma per un movimento religioso, per una cooperativa o associazione nata attorno ad ideali e passioni dei fondatori, il movimento e la struttura è già espressione degli ideali, e ne segue le sorti: se viene meno l’ideale l’organizzazione muore, e se viene meno l’organizzazione finisce con essa (molto spesso) l’ideale, o si trasforma al punto di snaturarsi.

Lei crede, da economista, che questo valore aggiunto che abbiamo sempre attribuito all'ideale, alla vocazione, al movente del fine e non al mero accumulo dei mezzi sia sotto attacco, messo in scacco complessivamente dal sistema o – come sembrano suggerire alcuni dei protagonisti del nostro mondo – "è solo una questione di racconto e di storytelling del bene”?
Non confondiamo quello che io chiamo capitale narrativo con lo storytelling, sempre più inserito tra gli ingredienti delle nuove imprese di successo. Il nuovo marketing dell’era della post-scarsità non presenta più i prodotti con le loro caratteristiche tecniche o merceologiche. Non ci ammalia descrivendoci le proprietà delle merci e le caratteristiche tecniche: ci incanta raccontandoci storie. Come facevano i nostri nonni, come faceva e fa la Bibbia.

La nuova pubblicità è sempre più una costruzione di racconti con il tipico linguaggio del mito, dove lo scopo è attivare l’emozione del consumatore, il suo codice simbolico, i suoi desideri, i suoi sogni – non solo, non più, i suoi bisogni. Per venderci i loro prodotti, le nuove imprese ci fanno sognare ricorrendo alla forza evocativa del mito (non più del logos): come le fedi, come le storie che hanno formato il nostro patrimonio religioso e sociale. Con una differenza fondamentale, però: le storie delle fedi e le fiabe delle nonne erano più grandi di noi ed erano tutto e solo gratuità. Il loro scopo era trasmetterci un dono, una promessa, una liberazione, facendoli rivivere ogni volta solo per noi. Non ci volevano vendere nulla, solo trasmetterci un’eredità e un patrimonio (patres-munus: dono dei padri). E invece lo storytelling delle imprese emozionali del capitalismo di oggi e di domani non ha nulla di gratuito ed è più piccolo di noi proprio perché mancante di quella gratuità che faceva grandi le altre storie.

Le storie di ieri, di sempre, hanno saputo incantarci perché non volevano incatenarci. Le storie raccontate a scopo di lucro sono invece tutte varianti della fiaba del Pifferaio magico: se non è pagato per la sua opera, questo mercato torna in città, e mentre siamo occupati nei nostri nuovi culti nelle nuove chiese con il flauto incantatore ci porta via i nostri bambini, per sempre. Finora la storia delle civiltà ci ha insegnato che la gratuità usata senza gratuità non dura, perché presto si scopre il bluff.

Per venderci i loro prodotti, le nuove imprese ci fanno sognare ricorrendo alla forza evocativa del mito (non più del logos): come le fedi, come le storie che hanno formato il nostro patrimonio religioso e sociale. Con una differenza fondamentale: le storie delle fedi e le fiabe delle nonne erano più grandi di noi ed erano tutto e solo gratuità. Il loro scopo era trasmetterci un dono, una promessa, una liberazione, facendoli rivivere ogni volta solo per noi. Non ci volevano vendere nulla, solo trasmetterci un’eredità e un patrimonio (patres-munus: dono dei padri). E invece lo storytelling delle imprese emozionali del capitalismo di oggi e di domani non ha nulla di gratuito

Luigino Bruni

Il capitalismo, oramai, è una serie di bluff reiterati…
Ma forse la grande innovazione del capitalismo di domani consisterà nel trasformare anche la gratuità in una merce, e lo farà così bene che non saremo più capaci di distinguere la gratuità taroccata da quella genuina. Ma potremo salvarci ancora da questa grande manipolazione, che sarebbe la più grande di tutte, se avremo tenuto vive, da qualche parte, le grandi storie di gratuità custodite dalle fedi. O se avremo conservato il seme della gratuità in un ultimo posto dell’anima che siamo riusciti a non mettere in vendita.

Narrare la comunità

Facciamo il punto sul capitale narrativo: che cos'è?
Il capitale narrativo è invece qualcosa di molto più serio e profondo dello storytelling delle imprese. È il frutto della dimensione narrativa degli esseri umani: in quanto homo sapiens siamo anche homo narrans, animali capaci di raccontare e di ascoltare storie. Sta in questa capacità narrativa una delle differenze con le altre specie, che sono splendide per molte cose, ma non sanno comporre e narrare storie.

I romanzi e i film non finiranno mai, perché ascoltare e vedere storie ci piace troppo, ci commuove, ci cambia, esercita la nostra capacità di empatizzare con le gioie e con le sofferenze degli altri e nostre, e così diventare migliori. Alla radice dei momenti più forti e impor- tanti della nostra vita ci sono fatti ed esperienze che sono diventate storie che abbiamo raccontato ai nostri figli, e loro ai nostri nipoti, e ogni volta che li abbiamo raccontati li abbiamo capiti meglio, e un po’ cambiati. E il giorno in cui decidiamo di smettere di raccontarle non è mai un bel giorno, ma è l’inizio della tristezza e del declino spirituale e morale. Anche all’origine delle civiltà umane troviamo racconti, miti, saghe, che le hanno generate e rigenerate nei secoli e nei millenni.

Nel principio c’è sempre una narrazione…
… e all’inizio di grandi esperienze collettive ci sono grandi narrazioni collettive. Anche le comunità, le organizzazioni, le imprese, i movimenti spirituali, culturali, sociali, politici, nascono se le azioni e le idee dei singoli e dei gruppi riescono a diventare storie, fosse anche quella prima storia che riusciamo a raccontare ai nostri primi soci, clienti e fornitori per riuscire a ricevere fiducia quando presentiamo loro la nostra idea originaria, fragile e bellissima. Senza riuscire a trasformare le esperienze in racconti, i fatti non diventano fenomeni sociali, restano fatti muti. Le imprese collettive iniziano mentre proviamo a raccontarle a qualcuno.

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