A Lesbo, quando arrivi, il cielo è terso. Ma tira una brutta aria, e te ne accorgi subito. “Sono i turisti, che mancano. Meno 80% rispetto a un paio di anni fa”, è il mantra che senti dire da buona parte degli abitanti dell’isola greca, una delle più grandi dell’Egeo e più a ridosso della Turchia (4 miglia marine, 7 chilometri scarsi). Gestori di hotel, commercianti, tour operator, tutti concordi. Il deja vù è immediato: Lampedusa, 2012: l’anno dopo l’annus horribilis delle decine di migliaia di migranti lasciate per giorni in balia di sé stesse sulle coste della piccola isola siciliana dopo lo sbarco, il turismo andò a picco. A Lesbo sta accadendo lo stesso: i 600mila arrivi di rifugiati dell’anno precedente, flusso che straccia ogni tipo di record del passato, hanno frenato i turisti a viaggiare sull’isola di Saffo, in questo 2016. “Ma non diamo la colpa a chi scappa dai propri Paesi colpiti da guerre e privazioni: cercano solo una vita migliore”, ammonisce Dimitris, il cui taxi arranca sui saliscendi attorno a Mitilini, la città principale dell’isola. “Anche gran parte degli abitanti dell’isola è rifugiato o parente dei greci fuggiti dalla Turchia nel 1922, minacciati dalle ritorsioni turche alla fine della guerra”. Sono ragionamenti tosti ma condivisi, ben distanti dalla xenofobia da cui sembra essere ammantata l’Europa degli ultimi tempi. In quest’ultimo scampolo di Unione europea, a un battito di ciglia da quella Turchia finanziata dalla Ue con 6 miliardi di euro per arginare l’arrivo dei migranti e oggi in preda a uno sconquasso istituzionale post golpe, la coscienza civica è un baluardo da difendere.
Dalla fuga alla lunga attesa
L’immaginazione non ha frontiere, è la scritta colorata che campeggia su un muro di Mitilini, oltre a decine di Open the borders disseminate lungo tutta Lesbo. “Stiamo parlando di 86mila abitanti che si sono visti arrivare sull’isola almeno 600mila persone tra gennaio 2015 e marzo 2016: l’altruismo che ho visto qui non ha riscontri da nessun’altra parte”, racconta Boris Cheshirkov, portavoce su Lesbo dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i diritti umani. Incontriamo Cheshirkov, bulgaro 36enne, in un bar all’aperto di Mitilini. Anche lui, come gran parte di chi vive sull’isola, ha vissuto in prima persona i momenti drammatici di uno sbarco. “Se a settembre 2014 solo un arrivo su 9 era un bambino, pochi mesi i minorenni erano quasi il 50%. E si è balzati da 750 arrivi totali del gennaio 2015 ai 16mila di giugno, fino ai 5mila al giorno di ottobre”. Numeri impressionanti che hanno trovato una forte battuta d’arresto in un giorno preciso: il 28 marzo 2016, “data dell’accordo tra Ue e Turchia, che prevede respingimenti o ricollocamenti a seconda della situazione personale o familiare”.
Un accordo che ha fatto respirare l’isola – da aprile a giugno gli arrivi sono stati di poche decine alla settimana, mentre da inizio luglio a oggi l'aumento è considerevole, almeno 40 persone al giorno – ma che hanno creato un’altra voragine riassunta in un’espressione inglese che usano tutti tra cooperanti e volontari del centinaio di ong presenti a Lesbo: “stuck in the island”, sono bloccati, incollati sull’isola. Almeno 4.100 persone che, da quando sono chiuse le frontiere per il Nord Europa, attendono che qualcun altro dica loro cosa fare della propria vita. Da quattro mesi, oramai, la gran parte è sistemata in campi profughi: Moria, che ospita 3mila persone – a fronte di una capienza di 1500 – Kara Tepe, 700 persone, Pikpa 70 persone, Mantamados, nel nord dell’isola, che accoglie (ma è in via di chiusura) 80 minori non accompagnati. Poi ci sono i 210 rifugiati in estrema vulnerabilità accolti in un hotel gestito da Caritas, e alcune decine tra famiglie e minori, assistiti in case di Mitilini dall’ong greca Praxis. Per tutti, un’attesa infinita che avrà tre alternative: chiedere il ricongiungimento con familiari – spesso il marito, o i genitori – che già sono in altri Paesi europei (trafila che inspiegabilmente può durare anche un anno), aspettare il ricollocamento in un'altra nazione Ue (quasi un passaggio dalla cruna dell’ago, data la scarsa disponibilità all’accoglienza di gran parte degli Stati membri), chiedere l’asilo in una Grecia sempre più abbattuta dalla crisi economica.
I profughi? Stuck in the island: bloccati, incollati sull’isola. Almeno 4.100 persone
Moria, l’hotspot
E’ sulle colline dietro Mitilini, a fianco del villaggio di Moria, che si consuma il misfatto più grave per quella Ue che sulla carta – ma sempre meno nella realtà – è la patria dei diritti umani: dopo il fatidico accordo del 28 marzo, i rifugiati sono chiusi dentro l’hotspot, una struttura detentiva per l’identificazione, con tanto di sbarre. Qui arrivano, con i pullman delle autorità greche, una volta elusi i controlli della guardia costiera turca e in seguito recuperati vicino alla costa greca dalle navi militari messe a disposizione dai governi europei per l’agenzia Frontex. “L’ Unhcr da quando è nato l’hotspot ha frenato la collaborazione con le autorità in termini di trasporti – ora effettuati dal governo greco e da Frontex, l’Agenzia Ue per il controllo delle frontiere – rimanendo nel campo solo per seguire da vicino i profughi chiedendo protezione speciale per i più vulnerabili, che riusciamo a inviare negli altri campi dell’isola”, sottolinea Cheshirkov. Sempre come aperta protesta contro l’accordo Ue-Turchia, anche l’ong Medici senza frontiere, Msf, se ne è andata del tutto da Moria, mentre Save the children e ActionAid hanno ridotto al minimo le proprie attività, lasciando in mano alle autorità del campo i servizi basici come la somministrazione di viveri e decidendo di continuare il proprio supporto mirato ai più vulnerabili con un Child friendly space e zone specifiche per le necessità di madri con bambini piccoli e le attività con i minori non accompagnati . “I minori presenti a Moria, almeno un centinaio, si sentono trattati come criminali”, ha dichiarato subito dopo la propria visita a metà luglio 2016 la Ceo di Save the children, Helle Thorning-Schmidt. “La frustrazione dei profughi nel campo è alle stelle: le interviste procedono lentamente, non ci sono programmi di inserimento socio-educativo o di supporto psicologico”, ci spiega Imad Aoun, responsabile dell’Area Grecia e Balcani della stessa Save the children.
Passiamo da Moria al calare del sole, quando il viavai di rifugiati è incessante: i giornalisti non possono entrare nell’hotspot (ma i controlli non sono rigidi) ma gli ospiti possono uscire – con un permesso provvisorio che viene dato loro dopo due-tre settimane dall’arrivo, e che vieta comunque di lasciare l’isola – e raccontare: al di là delle condizioni nel campo, che con il passare dei mesi ha visto un miglioramento delle infrastrutture, è la loro mente che vacilla di fronte all’attesa. “Sto pensando addirittura di tornare là, in Turchia, anche se è un salto nel buio”, ci spiega il 26enne siriano Ahmed seduto su una panchina al porto di Mitilini con la giovanissima moglie a fianco. “Sono scappato dalla guerra per iniziare una nuova vita, ma sono fermo qui. Non ce la faccio più a non sapere cosa sarà di noi”. Frustrazione che assale anche Alaa dall’Iraq, Said dall’Afghanistan, Chud dal Pakistan: tutti che fanno la spola tra Moria e Mitilini, 15 chilometri a piedi, ogni giorno, per passare il tempo e uscire dalle sbarre dell’hotspot.
Le oasi di Kara Tepe e dell'hotel Caritas
Il campo profughi di Kara Tepe fino a pochi mesi fa era in condizioni indecenti: mancavano i servizi essenziali, regnava il caos ovunque. Si era nel pieno degli arrivi di massa dal mare e delle ripartenze immediate verso il continente europeo. Ora, con le frontiere chiuse, il campo si è normalizzato fino a divenire una sorta di campeggio a conduzione comunale con tanto di mappa all’ingresso, dove troviamo il vulcanico direttore, Stavros Mirogiannis, intento a dare indicazioni a chiunque incontri, operatori come rifugiati. C’è tutto: zone di ritrovo, campo sportivo, spazi gioco per bambini e scuole anche per gli adulti, gestite dalla ventina di ong presenti. Si fa teatro, e corsi di nuoto in mare. Visitiamo lo Spazio a misura di bambino di Save the children, il Women safety place di ActionAid, vediamo i laboratori creativi di Caritas Hellas, la cucina popolare dell’ong olandese Because we carry, passiamo a fianco delle tende dove l’aria che si respira è rassegnata, sì, ma non claustrofobica come per chi vive all’hotspot di Moria. “La cosa più importante è ascoltare le persone, i loro bisogni”, ragiona Maritina Koraki, responsabile di Caritas per Lesbo, che ci accompagna nel campo. “E’ fondamentale la presenza di mediatori che capiscano la lingua di provenienza, solo così le famiglie si aprono”, aggiunge Ihab Abassi, operatore palestinese di Msf, che incontriamo al chiosco posto all’entrata di Kara Tepe – con l’ombrellone che ci salva dai 40 gradi abbondanti al sole – assieme a Francesca Dambruoso, medico veronese che sempre per Msf coordina una campagna di vaccinazioni: “finita la fase emergenziale, ora stiamo valutando i primi casi di malattie croniche legate all’ansia per il futuro”, spiega Dambruoso.
I bambini provano a sorridere – nonostante tutto – a Kara Tepe, così come cercano la serenità i minori non accompagnati del campo di Mantamados, gestito da Msf, Praxis e Save the children e operativo fino ad agosto, dopodiché dovrebbe arrivare per loro il trasferimento ad Atene. A Pikpa, nei pressi dell’aeroporto, tende e casette sono immerse nel verde e la gestione è affidata a volontari greci che cercano di rendere meno pesante possibile la difficile quotidianità dei profughi ospitati, provenienti da Medio Oriente come diversi Stati dell'Africa.
E hanno un sorriso pronto – assieme alla smania di giocare con ogni cosa, macchina fotografica compresa – anche all'hotel gestito da Caritas, la situazione più delicata sull’isola: “grazie ad alcune Caritas nazionali e ad altri fondi privati abbiamo affittato 88 delle 93 stanze dell’hotel e ospitiamo soprattutto donne e bambini in situazioni di evidente disagio fisico o psichico, in attesa che siano pronti i loro documenti per raggiungere il luogo dell’asilo o del ricongiungimento”, spiega Tonia Patrikiadou, manager dell’hotel per Caritas. Arriviamo all'albergo nel bel mezzo dell’esposizione dei prodotti del laboratorio di sartoria promosso da ActionAid, e il sollievo per gli ospiti è lampante – con tanto di balli di gruppo – seppure temporaneo. “Sono poche unità al mese quelle che riescono a lasciare l’isola per iniziare finalmente una nuova esistenza”.
I nuovi arrivi e la filoxenia
Mattina di mezza estate: “c’è un nuovo sbarco, volontari siate pronti ad aiutare”. Parola di Eric Kempson, scultore inglese che vive a Eftalou, nel nord dell’isola, da 23 anni: gli arrivi, che lui vede a occhio nudo dalla veranda di casa, sono ricominciati. Così come i naufragi. L’accordo Ue-Turchia vacilla? Chissà. Nel frattempo, la macchina della solidarietà è sempre pronta. Per esempio sono una trentina, e arrivano da tutto il mondo, i giovani di Lighthouse relief che incontriamo mentre fanno pratica di salvataggi lungo la spiaggia di Skala Sikamineas, assieme ai bagnini spagnoli di Proactiva open arms, aiutati da un’altra figura notevole dell’accoglienza, il prete ortodosso di origini californiane Christoforos Schuff. “Almeno 2500 volontari sono passati nell’ultimo anno”, spiega Kempson, i cui video di sbarchi su youtube – che saranno documenti storici – hanno fatto il giro del web. Volontari contagiati dalla filoxenia, l’amore per chi viene da fuori, virtù innata negli abitanti di Lesbo: sono loro, i primi ad aiutare. Il pescatore 40enne Stratos Valiamos, la nonna 84enne Militsa Kamvysi ne sono il simbolo, tanto da essere candidati al Nobel per la Pace 2016: non sia mai che lo vincano.
Foto di copertina: una coppia di giovani sposi siriani, da oltre tre mesi a Lesbo, siede lungo il porto di Mitilini senza sapere quale sarà l'approdo finale della loro fuga dalla guerra
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