Migranti

Basmane, la babele dei profughi che tifa Erdogan

di Moises Bassano

Dopo l’accordo con la Ue e all’indomani dell’ennesimo attentato su suolo turco i rifugiati scendono in piazza a favore del Governo. «Sanno che ormai da qui non se ne andranno più». Reportage dal sobborgo di Smirne

All’angolo di Gaziler Caddesi, se vuoi una bottiglia d’acqua, il kebabbaro Emre, ti elenca i modi per chiederglielo in turco, arabo e curdo, la minima conoscenza di queste tre lingue è una sorta di passaporto per poter entrare nel quartiere di Basmane a Smirne. Lontano dai grandi viali moderni di Alsancak, vetrina della città laica e repubblicana che da anni vota il Chp – il partito di centro-sinistra legato a Ataturk -, e dal più tradizionalista bazaar di Kemeralti, con i suoi colori e i suoi profumi di spezie, Basmane riprende forse l’originaria anima multiculturale della città. Qui dopo l’accordo tra Unione Europea e Turchia sui migranti hanno trovato rifugio oltre 300mila profughi di origine curda e arabo siriana, che si sono aggiunti ai curdi provenienti dal sud della Turchia e ai Rom residenti dai tempi dell’Impero Ottomano. Basmane si presenta come un groviglio di stradine ripide che s’inerpicano sulla collina e vecchie case, in parte colorate e in parte in rovina, quelle che non hanno retto e sono crollate vengono trasformate in discariche maleodoranti. La parte superiore di Basmane, ai piedi del castello di Alessandro Magno, si chiama Kadifekale, è stata costruita abusivamente con case che in turco vengono chiamate “gecekondu” (posate nel giro di una notte), ed è abitata prevalentemente da curdi della zona di Mardin, luoghi dove adesso impera la guerra tra Stato e Pkk. Non è raro leggere sui muri scritte inneggianti Ocalan o allo Ypg. L’aerea oltre il castello è stata recentemente buttata giù, sulla scia dei numerosi progetti di “urbanizzazione” e “gentrificazione” che sta mettendo in atto da alcuni anni il governo turco in tutto il Paese.

Il quartier generale del non profit
Il cuore di Basmane, è lo spazio sociale Kapilar, aperto da circa un anno, dove ogni settimana si svolgono laboratori per bambini, percorsi culturali, corsi di lingua turca ed inglese, cene multietniche (è attiva una Open Kitchen). Qui grazie ai suoi volontari viene offerta ogni forma di assistenza legale o linguistica; il centro è poi a disposizione delle numerose associazioni che si occupano dei profughi che si trovano a Smirne.

«L’importante è entrare in relazione di fiducia con il quartiere e la città, e affinché ciò avvenisse c’è voluto molto tempo» spiega Yeliz una ragazza che opera per Kapilar. Attraverso il collettivo del centro si cerca anche di favorire il dibattito su alcuni temi che in Turchia suonano quasi eretici, come il femminismo, l’ecologia e i diritti delle minoranze. Al piano superiore lavora autonomamente Yalcin, un operaio tessile di origine afroturca, che si occupa della raccolta e della distribuzione di cibo e di vestiario per i meno abbienti del quartiere. Quando lo incontriamo ci mostra una lista del materiale scolastico richiesto dalle scuole statali, prodotti spesso di marca che
molte famiglie non possono permettersi. «Nel
quartiere impera la piaga del lavoro minorile, i
profughi fanno comodo
a molti perché vengono pagati la metà dello stipendio di un lavoratore turco, ecco perché è importante incentivare queste famiglie a far entrare i propri figli a scuola» spiega Yalcin, «non manca poi il razzismo che sovente è sfociato in attacchi diretti: molti turchi ritengono che lo Stato aiuti più i profughi rispetto agli autoctoni».

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Dopo l’accordo con l’Unione Europea, una buona parte dei rifugiati è propensa ormai a rimanere in Turchia, ma come spiega Dilan, una volontaria, i problemi non sono pochi, oltre a quelli economici o inerenti il sistema educativo e la mancanza di documenti, un grande ostacolo è quello linguistico «per i siriani esistono scuole apposite, ma mancano totalmente invece per i curdi». Spesso, ci viene spiegato, alcune organizzazioni filogovernative musulmane cercano di fomentare il conflitto tra i due gruppi. Restano molte comunque le associazioni non profit che operano nel quartiere. Come Praxis, un collettivo di musicisti che va in giro per Basmane a insegnare musica, soprattutto a donne e bambini, con strumenti sovente di recupero; oppure Waha, che offre consulenza medica e psicologica in particolare alle donne, oltre ad occuparsi della distribuzione di medicine, fazzoletti e shampoo, sia nel quartiere sia nei campi profughi come quello di Torbali. «I campi informali, che tutt’ora esistono», spiega Julie, una ragazza olandese che dopo l’Erasmus ha deciso di rimanere in Turchia per collaborare con alcune associazioni, «vengono spesso spostati da un luogo all’altro per sviare i giornalisti, non di rado i proprietari dei terreni pagano la polizia per indirizzare la scelta del luogo in cui insediare un campo».

A Basmane è quasi impossibile curarsi
Non è facile entrare in contatto con le famiglie che abitano a Basmane, dopo il colpo di stato del 15 luglio che a Smirne è stato soprattutto visto in televisione, molti hanno timore a parlare con giornalisti e fotografi, alcuni centri di assistenza per i profughi sono stati chiusi con l’accusa di aver avuto collegamenti con i golpisti, c’è così una tendenza generale da parte dei rifugiati a dimostrare la loro vicinanza con il Governo, partecipando alle varie dimostrazioni pubbliche. Nuer, una ragazza siriana di origine palestinese di 27 anni, non riuscirà a partecipare alla prossima manifestazione, per un’infezione ha perso l’uso delle gambe. È riuscita comunque a scappare da Damasco con la madre e il fratello, ma ora le sue condizioni sono peggiorate. Il suo sogno è di arrivare in Germania dove forse potrà essere operata alla spina dorsale, e magari continua- re anche i suoi studi di diritto criminale. È molto determinata Nuer. «Un giorno mi piacerebbe visitare il Vaticano, amo molto le chiese, in Libano ho studiato tre anni in un istituto cristiano», mentre parla suona il telefono, è suo padre che è rimasto in Siria, in sottofondo si sente il rumore dei bombardamenti. Naser, invece è un ex militare irakeno di 50 anni arrivato nel 2014, due dei suoi sei figli hanno il cancro causato probabilmente dalle armi chimiche usate dal Daesh e l’Hiv, vive in condizioni precarie a Buca un altro sobborgo della città «a Basmane, non potevamo restare, i bambini avevano bi- sogno di più luce e l’aria era insalubre» racconta Naser «qui gli affitti sono più alti, 500 lire al mese, e devo pagare anche l’elettricità e il gas, fortunatamente il quartiere ci aiuta dandoci il cibo». Uno dei figli da mesi è a letto e rigetta qualunque medicina, i medici locali non gli hanno lasciato nessuna speranza «forse avrei qualche possibilità se potessi andare in Olanda, là ho un fratello con nazionalità olandese, ma il governo turco non ci lascia muovere perché abbiamo fatto la richiesta da rifugiati qui, da mesi cerco di contattare gli uffici dell’Onu senza ottenere nessuna risposta».

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A Smirne ci sono anche storie di profughi meno drammatiche, come quella di Aisha, una ragazza siriana di 21 anni che ha imparato perfettamente il turco e si è messa a completa disposizione dei suoi connazionali per aiutarli nelle pratiche burocratiche, o come quella di Ibrahim, un curdo di Qamishlo di 24 anni, che dopo essere stato cinque anni nelle carceri di Assad, è riuscito a proseguire i suoi studi di medicina. Nelle vie adiacenti alla stazione ferroviaria di Basmane, da tempo è sorto un vero e proprio bazaar con ristoranti, bancarelle e attività gestite da siriani, i prezzi sono più bassi che altrove, e forse chi ha nostalgia di Damasco e Aleppo le potrà ritrovare in queste strade. Ormai sono quasi scomparsi anche i negozi che mostravano in vetrina i salvagenti per oltrepassare quello che viene comunemente chiamato “Dead Sea”, il mar Egeo. È il segno che per i profughi di Smirne la speranza di poter raggiungere l’Europa ormai è svanita per sempre. Il futuro è qui.


Basmane, la babele dei profughi che tifa Erdogan

Testi a cura di Moises Bassano
Foto a cura di Giacomo Sini

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