Li prendevano i militari, per farli crescere nelle loro famiglie, fargli respirare la loro cultura e la loro mentalità e "forgiare" chi continuasse le loro logiche nel futuro. Li prendevano dopo aver ucciso i genitori o averli costretti a fuggire. Alcuni sono stati dati in adozione: dentro il Paese ma anche negli Stati Uniti, in Inghilterra, Belgio, Francia e Italia. Sono spariti anche bambini che i genitori avevano affidato a istituti per minori, con l’idea di proteggere i loro figli: tornando a prenderli, dopo il passaggio dei militari e i mesi trascorsi nascosti lontano da casa, i bambini non c’erano più, dati in adozione senza che ci fosse alcun abbandono reale. Moltissimi bambini spariti avevano un anno o poco più, quasi tutti erano sotto i cinque anni, sette al massimo. In alcune zone del El Salvador i minori sparivano più che altrove: il numero più alto di denunce di desapariciones, 176 casi, si conta nel dipartimento di Chalatenago, dove la popolazione spesso ha pelle chiara, occhi chiari e capelli rossi. Tratti molto apprezzati dai genitori dell’occidente ricco. «Non c’è alcun desiderio di criminalizzare le famiglie adottive, non è questo il nostro obiettivo», spiegano Ana Julia Escalante e Sol Yañez, due psicologhe che lavorano per l’associazione salvadoregna Pro-Búsqueda: «Abbiamo però mille famiglie che da oltre 25 anni stanno cercando i loro figli, che non sanno se i loro figli sono vivi o sono morti, che hanno il diritto di sapere la verità».
Quando si dice “desaparecidos” si pensa subito all’Argentina o al Cile, ai libri di Isabel Allende o al più popolare successo di Rocío Muñoz Morales in Un tango per la libertà. Oppure alle Madres de Plaza de Mayo. El Salvador non viene quasi mai collegato con la crudele realtà dei desaparecidos, eppure i dodici anni di guerra in quel Paese (1980-1992) hanno fatto 75mila vittime e quasi 10mila desaparecidos (molti più dei 5mila casi denunciati nel rapporto della Commissione per la Verità). Nel marzo 1993, cinque giorni dopo la pubblicazione del rapporto che documentava i crimini commessi durante il conflitto armato, tra cui la scomparsa dei bambini, lo Stato salvadoregno varò una legge di amnistia, assicurando nei fatti l'impunità dei responsabili.
La riunificazione non è un momento di rottura con la vita che questi ragazzi stanno vivendo, la famiglia adottiva resta la famiglia di questi ragazzi, ma è un aprirsi a una famiglia più grande, un riannodare i fili della propria identità, spesso un colmare dei vuoti che comunque i ragazzi sentono dentro.
Sol Yañez
Fino ad oggi, nel Paese, non è stato fatto alcun processo per nessun caso di sparizione forzata. Chi sta provando a rintracciare i bambini scomparsi è un’associazione, Pro-Búsqueda, nata nel 1994: tra i suoi fondatori c'è anche il gesuita Jon Cortina, che nel 1989 sopravvisse per miracolo al celebre massacro dell'università UCA. L’associazione, composta da famiglie in cerca dei propri figli, lavora per individuare i bambini, nella speranza di far reincontrare genitori e figli. «La riunificazione non è un momento di rottura con la vita che questi ragazzi stanno vivendo, la famiglia adottiva resta la famiglia di questi ragazzi, ma è un aprirsi a una famiglia più grande, un riannodare i fili della propria identità, spesso un colmare dei vuoti che comunque i ragazzi sentono dentro. Per le famiglie c’è un diritto alla verità, perché vivere sapendo che ti è stato portato via un figlio, senza sapere se lui sia vivo o morto, è una cosa inimmaginabile e c’è un diritto alla giustizia e alla piena riparazione; per i figli si tratta dell’opportunità di rafforzare la propria identità, ripartendo dalla verità», spiega Sol Yañez, che insegna psicologia sociale all’ Universidad Centroamericana Jose Simon Canas (UCA), la stessa in cui lavorava anche padre Cortina.
Ana Julia Escalante e Sol Yañez sono in Italia per far conoscere l’associazione Pro-Búsqueda e per sensibilizzare sul dramma così poco conosciuto dei desaparecidos salvadoregni: è infatti il passaparola che dà il coraggio a nuove famiglie di denunciare la scomparsa dei figli e affrontare un capitolo che è impossibile chiudere e relegare nel passato. Da quando è stata fondata, l’associazione ha lavorato a 1.273 casi: 964 sono casi di bambini scomparsi, denunciati dalle famiglie, 309 sono al contrario casi di ragazzi che si sono messi in cerca dei loro genitori naturali. Ad oggi sono 270 i reincontri, 73 sono i ragazzi che sono stati localizzati ma che purtroppo sono morti, 87 i figli localizzati che però almeno per il momento non hanno voluto reincontrare le loro famiglie d’origine. Solo nel 2016 ci sono state 4 nuove denunce e 5 reincontri.
Come si svolge questo lavoro certosino di ricerca di tracce? «La nostra è un’associazione di famigliari, per i famigliari. C’è una équipe tecnica di investigatori, delle psicologhe, assistenti sociali, professionisti che seguono la parte giuridica. Tutto parte dalla denuncia di sottrazione fatta dalla famiglia: in quel momento inizia un processo di investigazione che è documentale, testimoniale, e che prevede un prova scientifica», racconta la psicologa Ana Julia Escalante. A volte c’è una vicina che ha visto e fornisce informazioni e anche i militari di primo livello, per sensi colpa, stanno ora raccontando i percorsi seguiti, consentendo di ricostruire, decenni dopo, delle “mappe” degli spostamenti che aiutano a ritrovare i bambini. Una volta che il bambino scomparso, ormai adulto, è stato localizzato, l’associazione lo contatta, spiegando la situazione e proponendo un test del dna. È la prova necessaria e l’Associazione per questo ha creato una banca del dna con 1.500 campioni raccolti.
«A volte i ragazzi dicono sì, a volte dicono no. Tanti confessano “lo sospettavo”, altri invece sono assolutamente spiazzati. Alcuni hanno dei ricordi, liquidati però come “sogni disturbatori” o nodi da curare con uno psicologo. Questa diventa l’occasione per fare pace con i “buchi neri” della propria storia, con quei pezzi di sé che non si capiscono: è molto diverso pensare di essere stato abbandonato da una famiglia che non ti voleva o sapere che sei stato portato via a forza e che i tuoi genitori ti hanno cercato per decenni», afferma la professoressa Sol Yañez. E aggiunge che «la verdad è sanadora, anche se al momento può essere dolorosa. Noi non forziamo, rispettiamo i tempi e le scelte dei ragazzi, nella consapevolezza che ci sono due diritti forti in gioco»: per i genitori il diritto di sapere la verità, per i figli il diritto alla privacy.
Per questo l’associazione ha una équipe di psicologi, perché la fase dalla comunicazione allo sperato reincontro è tutta da preparare e seguire passo passo, accompagnando il ragazzo, la sua famiglia adottiva e la sua famiglia d’origine. «Spesso la famiglia adottiva si oppone al test del dna e al reincontro, per paura delle conseguenze affettive ed emotive ma anche per il timore di conseguenze giuridiche di un’adozione che ha certamente ombre di illegalità, di cui le famiglie non possono non essere consapevoli», spiega Yañez, «ma ripeto, l’obiettivo di Pro Búsqueda non è criminalizzare la famiglia, bensì rispondere alla domanda di verità delle famiglie e dove possibile favorire il reincontro». Quando c’è un “no”, l’associazione mette in atto un accompagnamento per i genitori, che si sentono rifiutati e cerca comunque di mantenere un link con il ragazzo, per tenere aperta la porta per il futuro. «C’è un dibattito etico forte fra noi, nell’associazione», ammette Yañez: «C’è una famiglia che conosciamo da anni, che da anni stiamo aiutando a cercare un figlio, quando lo localizzi e lui rifiuta il test cosa fai, non dici niente? Alla fine sì, gli dici che il figlio è vivo, è stato adottato, sta bene…. però poi ci si ferma». Quel che è certo è che le adozioni illegali hanno impattato molto sulle scomparse forzate di bambini del Salvador, con una rete di operatori, avvocati e giudici compiacenti. Nel 1982/82 El Salvador approvò dei cambiamenti nella legge sulle adozioni, piccoli cambiamenti che facilitavano il processo e guardacaso, osservando le statistiche dell'associazione, a ridosso di quel periodo c’è un picco evidente di scomparse di bambini. Ma le famiglie adottive sapevano? «In Germania mi hanno fatto questa stessa domanda. Una famiglia mi ha detto “ma noi non sapevamo”. Al di là dl singolo caso, mi sembra strano: tu vai in Salvador, paghi e in due giorni porti via il bambino, quando sai che per le adozioni ci vuole molto tempo. C’è qualcosa di strano, non trova? Il Parlamento europeo nel 2008, proprio ascoltando noi, ha suggerito di vietare le adozioni per un tot di anni, nei paesi in guerra», osserva la professoressa (l'Italia non adotta in Salvador, ndr).
Seguendo le tracce dei bambini desaparecidos negli anni della guerra del Salvador, Pro-Búsqueda è arrivata anche in Italia. «Non abbiamo i dati dei reincontri disaggregati per Paese, ma certamente l’Italia con gli Usa è uno dei paesi con maggior numero di adozioni», afferma Ana Julia Escalante. Delle 309 persone che si sono rivolte all’associazione in cerca dei loro genitori, sei vengono dall’Italia. E proprio in questi giorni Ana Julia e Sol hanno fatto rivisto due ragazzi che una decina di anni fa avevano accettato di reincontrare la loro famiglia biologica, in Salvador: «sono due fratelli, adottati da una famiglia italiana, che li ha accompagnati nel loro paese d’orogine per incontrare la mamma e gli zii. Erano ragazzi tormentati, quell’incontro li ha aiutati moltissimo, nonostante la paura di riaprire ferite: oggi hanno fatto pace con la loro storia e la loro identità. La “mamma” per loro continua ad essere la donna che li ha adottati, ma hanno lasciato entrare nella loro vita un’altra pare di famiglia, con cui continuano a sentirsi, da oltre dieci anni. Entrambi fanno lavori in cui ci si prende cura di altri, è il segno che hanno superato ogni nodo della loro identità», spiega la professoressa Yañez. Le famiglie chiedono soldi? «No, non è mai successo! Non c’è neanche un esempio di un ragazzo che manda denaro alla sua famiglia in Salvador, per sostenerla. Questi genitori stanno cercando i loro figli da quando questi avevano cinque anni, non li cercano per i soldi, li cercano per incontrarli, perché per loro restano "i loro bambini". Fra l’altro ricordo una donna salvadoregna che si presentò all’incontro con il figlio piena di regali per i genitori adottivi, mentre la signora europea non portò nemmeno un regalo».
Oltre al lavoro di investigazione, Pro-Búsqueda svolge anche un lavoro giuridico, con l’obiettivo di individuare i responsabili di ciò che è accaduto. La premessa per questo lavoro è la richiesta della famiglia e la denuncia: a luglio 2016 l’amnistia è stata dichiarata incostituzionale per la violazione dei diritti umani, si aprono nuove possibilità. Un terzo tema è la riparazione, vorremmo una legge di riparazione integrale, una legge che preveda un diritto alla riparazione: un aiuto economico, la richiesta di perdono da parte dei responsabili, l’introduzione di programmi integrali, che garantiscano alle vittime assistenza legale, attenzione psicologica, misure per la non ripetizione di ciò che è già successo. Perché fin’ora – sospira Sol – in Salvador «i desaparecidos e le loro famiglie non hanno avuto nessun tipo di giustizia».
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