«Gli adolescenti? Hanno tanto da dare, credetemi, ma bisogna aiutarli a tirare fuori tutto ciò che hanno dentro». Parola di Italo Fiorin, illustre pedagogista, presidente della Scuola di alta formazione Eis (Educare alla solidarietà e all’incontro) alla Lumsa di Roma. Originario di Pola ma residente da anni a Brescia, in questo periodo sta girando l’Italia per parlare di service learning. Lo abbiamo intervistato al suo arrivo in Sardegna, dove si è recato per un incontro con studenti, insegnanti, genitori e amministratori di Iglesias su iniziativa a cura de “Il cambiamento nasce da dentro”, un progetto di formazione itinerante che fa capo all’Istituto comprensivo “Pietro Allori” nel ruolo di capofila: è espressione di una rete, patrocinata dal Comune di Iglesias, che lo ha accolto e ne ha fatto un progetto condiviso a vantaggio del territorio. La rete mette insieme anche il liceo statale “Carlo Baudi di Vesme” ed è sostenuta dalla cooperativa sociale Casa Emmaus, una delle più importanti realtà della cittadina mineraria.
Professor Fiorin, spieghiamo in che cosa consiste questo innovativo approccio pedagogico.
«Il service learning, come è facile intuire, non è una terminologia italiana: learning rimanda all’apprendimento, dunque alla dimensione della scuola, mentre service significa servizio e si rifà alla dimensione del volontariato. Tutti sappiamo l’importanza dell’apprendimento e della scuola, e sappiamo anche l’importanza che ha il volontariato, ma sono due ambiti dell’esperienza normalmente distinti l’uno dall’altro. Una persona può essere un buon professionista o un ragazzo un bravo studente a scuola, e poi il pomeriggio può dedicarsi ad un’attività per l’ambiente oppure di solidarietà per i migranti in un’associazione di volontariato. Il service learning cosa fa? Mette insieme queste due dimensioni, secondo un’idea molto semplice ed efficace: se uno studente, apprendendo a scuola, sviluppa delle competenze che può mettere al servizio di un bisogno presente nella società, da un lato offre un contributo al bene comune ma dall’altro diventa egli stesso più competente perché questo tipo di servizio ritorna in lui come un arricchimento anche sul piano dell’apprendimento. Quindi è una sorta di pedagogia circolare: da un lato quello che so lo metto a disposizione degli altri, dall’altro questo averlo messo a disposizione mi rende più competente, oltre che una persona migliore».
Perché avete ritenuto necessario questo tipo di intervento?
«Ha usato bene il termine “necessario” perché, se ci guardiamo intorno, non facciamo fatica nel vedere come valori quali solidarietà, accoglienza, inclusione, rischiano di perdere il loro significato. Siamo in una società nella quale, come dice Papa Francesco, la cultura dell’indifferenza ci rende incapaci di vedere oltre il nostro interesse personale. C’è tanto bisogno, invece, di recuperare una dimensione che ci appartiene come persone umane: siamo sì degli individui e abbiamo esigenze di realizzare noi stessi, ma siamo allo stesso tempo collegati agli altri. Il noi non è qualcosa di esterno ma qualcosa che ci appartiene. Però questa consapevolezza, questa coscienza, si va affievolendo. E allora, se vogliamo restituire a noi stessi la ricchezza, la pienezza della nostra umanità, è importante che tutte le opportunità educative, le dimensioni e i luoghi dell’educazione, rimettano al centro questo tipo di problema. Il service learning ci ricorda che sapere è importante ma, come diceva un grande maestro dell’educazione come Don Milani, “il sapere serve soprattutto per donarlo”».
Lei sta girando l’Italia per cercare di proporre questo progetto, che è molto ambizioso. I ragazzi e i giovani devono essere i veri protagonisti, secondo la vostra filosofia. Ma si ha l’impressione che gli adolescenti di oggi siano un po’ spenti, forse per effetto del periodo della pandemia.
«È proprio così, ma hanno tanto dentro e hanno bisogno prima di tutto di essere ascoltati. Di qualcuno che si avvicini a loro e si interessi del loro dolore e del loro pensiero. Hanno anche bisogno di essere chiamati a qualcosa di importante. Non di avere di fronte discorsi ragionevoli, realistici e utilitaristici, o motivazioni di piccolo cabotaggio, bensì di avere un sogno: qualcuno che sia capace di fargli vedere che ci sono delle cose importanti che si possono realizzare grazie a loro, e che senza di loro non si realizzerebbero. Ecco, i ragazzi rispondono molto a questo perché sentono il bisogno di dare senso alla loro esistenza, e cercano adulti-compagni che in qualche modo facciano appello a questo loro bisogno e diano lo spazio perché la loro voce si possa sentire».
Lei è anche direttore scientifico del programma “Scholas Chairs” della Fondazione Pontificia Scholas Occurrentes, un movimento educativo internazionale che propone un altro interessante percorso pedagogico.
«Papa Francesco è molto attento a questo aspetto, e più in generale ai giovani, tanto è vero che, quando era vescovo di Buenos Aires, durante la grave crisi economica e politica dell’Argentina puntò su un ambizioso progetto che coinvolse tutte le scuole della capitale, non solo quelle cattoliche. Diventato pontefice, Bergoglio ha fondato il movimento Scholas Occurrentes che ha una particolare attenzione nel lavorare con i ragazzi, ad ascoltarli e a fornire loro elementi di consapevolezza e di impegno, utilizzando non tanto i linguaggi formali che i ragazzi apprendono a scuola, quanto altri più vicini ai ragazzi stessi: il linguaggio dell’arte, della poesia, della musica, il linguaggio del corpo e del gioco, il linguaggio dello stare insieme, della festa. Attraverso alcune modalità di attivazione, i ragazzi riscoprono appunto di avere un valore».
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